«Guardatevi dalla deformazione metaforica»

Erremme Dibbì (*) sulla ristampa del romanzo «Scambio mentale» di Robert Sheckley che Urania rimanda finalmente in edicola. Con una “coda” (di db) su «Stazione centrale» di Lavie Tidhar.

 

Se i soliti viaggi per il mondo, più o meno avventurosi, vi hanno stancato e/o se avete pochi soldi (e quindi non potete fare come Fogar, più di Fogar) rivolgetevi all’agenzia Sheckley. Da circa una ventina d’anni i più inverosimili universi da visitare, i più improbabili compagni di viaggio sono opera sua.

Nei romanzi «Il matrimonio alchimistico di Alistair Crompton» e «I testimoni di Jones» o negli innumerevoli racconti, brevi e lunghi, a spasso per i più strani mondi – a esempio «Un biglietto per Tranai» – lo scettico Sheckley ha realizzato un’operazione sognata dalla cultura popolare: quando il corpo viaggia nello spazio, una parte di esso rimane nel santuario (per esempio nell’ex-voto). O se volete è l’idea del quadro di Magritte: si tira giù la cintura lampo per vedere l’interno del corpo.

In «Scambio mentale» (del 1966, titolo originale Mindswap) Marvin Flynn si avventura nell’universo lasciando il corpo a casa, o meglio scambiandoselo con un – disonesto, si scoprirà poi – marziano. Gli capiterà di tutto. Si accorgerà che non c’è giustizia alcuna («se esistesse non ci sarebbe bisogno di leggi e pertanto verrebbe cancellata una delle più alte creazioni umane»); gli toccherà dialogare con un barista usando solo titoli di canzoni; si troverà in pericolo su Celsus V dove dare e ricevere doni è un imperativo culturale; eccetera in quantità. Ma soprattutto graverà su di lui, fino all’ultimo, il drammatico ammonimento dell’inizio: «guardatevi dalla deformazione metaforica».

Sheckley è stato spesso paragonato (soprattutto per questo libro) a Raymond Quenau ma forse il suo più prossimo cugino è il quasi coetaneo John Barth. La prima edizione italiana di «Scambio mentale» uscì, nel 1968, nella collana «Nuovi scrittori stranieri» facendo scandalo perchè insieme a Mailer, Ginsberg, Kluge, Butor ospitava anche i “gialli” di Hammett, i fumetti di Hart e la tanto disprezzata (in Italia) fantascienza.

Ristampandolo poi nei “fratelli poveri” di Urania, la Mondadori decise che poteva togliere la dedica; sono quei piccoli misteri che rendono l’editoria più inquietante della giungla di Salgari e/o metropolitana».

(*) l’articolo di Erremme Dibbì – al secolo Riccardo Mancini e Daniele Barbieri – comparve sul quotidiano «il manifesto» del 18 maggio 1983. Come anticipato, la settimana scorsa, «Scambio mentale» è uno di quei romanzi del genere “satirico-sociologico” che rientra nella classica cinquina dei migliori (migliorissimi se volete esagerare) di ogni tempo. In bottega si è spesso scritto di Sheckley: se volete trovare gli articoli digitate in search (sul colonnino di sinistra) il TAG «Robert Sheckley» e vi usciranno i link.

DUE PAROLE SUL ROMANZO DI LAVIE TIDHAR

Forse non avrei comprato «Stazione centrale» (Urania 1742, in edicola per tutto settembre) se al centro della storia non ci fosse Tel Aviv e se il suo autore non fosse di origini israeliane. Con questi due elementi ero però curiosissimo di sapere come nel 2016 si poteva immaginare un lontano futuro per il drammatico conflitto fra israeliani e palestinesi.

A lettura conclusa penso che il romanzo di Lavie Tidhar sia senza infamia e senza lode: una scrittura a volte veloce ma più spesso noiosa, personaggi insoliti (soprattutto la «vampira di dati» e il «prete robotico») però in una trama che si incammina verso uno sbocco – una specie di “non finale” – troppo facile da intuire. Per quanto riguarda lo scontro fra i due popoli che si contendono una sola terra, il romanzo guarda tutto da un tranquillo futuro. Si parla pacatamente di una «intrecciata entità che era la Palestina/Israele» e si cita come fosse patrimonio comune un antico poeta – Mahmoud Darwish – il cui nome è impronunciabile oggi dai seguaci di Benjamin Netanyahu. Chissà che futuro sarà.

 

DUE PAROLE SUL ROMANZO DI LAVIE TIDHAR

Forse non avrei comprato «Stazione centrale» (Urania 1742, in edicola per tutto settembre) se al centro della storia non ci fosse Tel Aviv e se il suo autore non fosse di origini israeliane. Con questi due elementi ero però curiosissimo di sapere come nel 2016 si poteva immaginare un lontano futuro per il drammatico conflitto fra israeliani e palestinesi.

A lettura conclusa penso che il romanzo di Lavie Tidhar sia senza infamia e senza lode: una scrittura a volte veloce ma più spesso noiosa, personaggi insoliti (soprattutto la «vampira di dati» e il «prete robotico») però in una trama che si incammina verso uno sbocco – una specie di “non finale” – troppo facile da intuire. Per quanto riguarda lo scontro fra i due popoli che si contendono una sola terra, il romanzo guarda tutto da un tranquillo futuro. Si parla pacatamente di una «intrecciata entità che era la Palestina/Israele» e si cita come fosse patrimonio comune un antico poeta – Mahmoud Darwish – il cui nome è impronunciabile oggi dai seguaci di Benjamin Netanyahu. Chissà che futuro sarà.

redazione bottega
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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