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La Bottega del Barbieri

Sì, è un genocidio

articoli e video di Andrea de Lotto, Gaetano Colonna, Giuliano Marrucci, Maria Morigi, Ghassan Abu-Sittah, Ahmed Kouta, Deborah Petruzzo, José Nivoi, Eirenefest

I 200 giorni di sterminio a Gaza riassunti in numeri

Al Jazeera sintetizza i 200 giorni di massacro israeliano a Gaza nel modo più efficace possibile: con i numeri.

Tra il 7 ottobre 2023 e il 23 aprile 2024, il regime israeliano si è macchiato di crimini indicibili contro la popolazione di Gaza, in particolare bambini e donne, con il bombardamento di ospedali e scuole, oltre ad abusi e torture certificate.

Gruppi per i diritti umani e organismi internazionali hanno descritto gli eventi strazianti che si stanno verificando nel territorio palestinese assediato come un caso da manuale di genocidio e pulizia etnica.

Anche i principali alleati internazionali di Israele – Washington, Londra, Parigi e Berlino – sono stati oggetto di una massiccia reazione pubblica per il loro continuo sostegno militare a Tel Aviv.

Secondo l’ufficio governativo di Gaza, il bilancio della campagna genocida di Israele ha già superato quota 34.150 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, di cui oltre il 75% sono donne e bambini.

I 2,3 milioni di persone nel territorio assediato continuano a fare i conti con una catastrofica crisi umanitaria tra bombardamenti incessanti e assedio paralizzante imposto da Israele con l’appoggio degli Stati Uniti.

Di seguito sono riportate le cifre relative a 200 giorni di guerra condotta dall’occupazione israeliana a Gaza, fornite dalle autorità dell’enclave assediata e rilanciate anche da Al Jazeera:

 

  • 200 il numero di giorni di  guerra genocida israeliana contro Gaza
  • 6 il numero di mesi dell’ultima guerra genocida israeliana contro Gaza
  • 34.183 il numero totale di vittime a Gaza dal 7 ottobre
  • 77.183 il numero dei feriti a Gaza dal 7 ottobre
  • 41.183 il numero totale delle persone uccise e disperse a Gaza dal 7 ottobre
  • 7.000 palestinesi ancora sotto le macerie degli edifici distrutti a Gaza
  • 3.025 massacri commessi da Israele dal 7 ottobre
  • 14.778 bambini uccisi dal 7 ottobre
  • 30 bambini morti a causa della fame e della carestia
  • 9.752   donne uccise dal 7 ottobre
  • 485 medici e paramedici uccisi dal 7 ottobre
  • 67 membri del personale della protezione civile uccisi dal 7 ottobre
  • 140 giornalisti palestinesi uccisi dal 7 ottobre
  • 72 la percentuale di bambini e donne uccisi dal 7 ottobre
  • 17.000 bambini che hanno perso uno o entrambi i genitori dal 7 ottobre
  • 11.000  feriti che necessitano di viaggiare per cure
  • 10.000   malati di cancro che corrono il rischio di morire
  • 1.090.000 persone con malattie infettive dovute allo sfollamento
  • 8.000 casi di epatite virale dovuta a sfollamento
  • 60.000 donne incinte a rischio a causa della mancanza di assistenza sanitaria
  • 350.000   malati cronici che soffrono a causa della mancanza di medicine
  • 5.000 – persone detenute arbitrariamente a Gaza dal 7 ottobre
  • 310 operatori sanitari che sono stati arrestati
  • 20 noti giornalisti detenuti arbitrariamente dal 7 ottobre
  • 2 milioni di sfollati nella Striscia di Gaza
  • 181 edifici governativi distrutti dal 7 ottobre
  • 103   scuole e università completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 317   tra scuole e università parzialmente distrutte dall’occupazione
  • 239 moschee completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 317    il numero delle moschee parzialmente distrutte dal 7 ottobre
  • 3 chiese prese di mira e distrutte dal 7 ottobre
  • 86.000 unità abitative completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 294.000 unità abitative parzialmente distrutte dal 7 ottobre
  • 75.000 tonnellate di esplosivo sganciate dall’occupazione su Gaza dal 7 ottobre
  • 32 ospedali messi fuori servizio dall’occupazione dal 7 ottobre
  • 53   centri sanitari che sono diventati non operativi dal 7 ottobre
  • 160 di istituzioni sanitarie parzialmente o completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 126 ambulanze distrutte dall’esercito di occupazione dal 7 ottobre
  • 206 siti archeologici e del patrimonio distrutti dal 7 ottobre
  • 30 miliardi di perdite dirette preliminari a seguito della guerra genocida contro Gaza

da qui

 

 

DISCORSO DEL DR. GHASSAN ABU SITTAH ALLA SUA NOMINA DI RECTOR DELL’UNIVERSITA’ DI GLASGOW

L’11 aprile il dottor Ghassan Abu-Sittah, chirurgo britannico-palestinese di rientro da Gaza, è stato nominato Rector dell’Università di Glasgow dopo la sua elezione schiacciante con l’80% dei voti.  Di seguito è riportata una trascrizione del suo discorso di insediamento.

“Ogni generazione deve scoprire la sua missione, compierla o tradirla, in relativa opacità”.  Frantz Fanon, I dannati della terra

“Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria dei 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 bambini palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% bambini – e i 4-5.000 bambini a cui sono stati amputati gli arti.

Hanno votato per solidarizzare con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e 12 università completamente rase al suolo. Hanno solidarizzato con la famiglia e la memoria di Dima Alhaj, un’ex alunna dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

All’inizio del XX secolo, Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nell’Europa occidentale dipendeva dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro l’imperialismo e nelle colonie di schiavi. Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo alla nostra politica di diventare disumana. Capiscono anche che ciò che è importante e diverso di Gaza è che è il laboratorio in cui il capitale globale sta esaminando come gestire le popolazioni in eccesso.

Si sono schierati accanto a Gaza e hanno solidarizzato con il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni equipaggiati con fucili da cecchino – usati in modo talmente subdolo ed efficiente a Gaza che una notte all’ospedale Al-Ahli abbiamo ricevuto più di 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste invenzioni – usati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, a Nairobi e a San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn.

Quindi, in realtà, per chi hanno votato questi studenti? Il mio nome è Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, ad eccezione di me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che è stata ceduta da uno dei precedenti rector dell’Università di Glasgow. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico all’insediamento della Palestina da parte dei coloni, Arthur Balfour fu nominato Lord Rector dell’Università di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, apparentemente in uno stadio di cultura non profondamente diverso da quello che prevaleva tra l’uomo preistorico”, disse Balfour durante il suo discorso rettorale nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò l’Aliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920, mio nonno Sheikh Hussain costruì con i suoi soldi una scuola nel piccolo villaggio in cui viveva la mia famiglia. Lì gettò le basi per una relazione che ha reso l’istruzione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dell’Haganah fecero pulizia etnica in quel villaggio e spinsero la mia famiglia, che aveva vissuto su quella terra per generazioni, in un campo profughi a Khan Younis che ora si trova in rovina nella Striscia di Gaza. Le memorie dell’ufficiale dell’Haganah che aveva invaso la casa di mio nonno furono trovate da mio zio. In queste memorie, l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e avesse un certificato di laurea in legge dell’Università del Cairo, appartenente a mio nonno.

L’anno dopo la Nakba, mio padre si laureò in medicina all’Università del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nell’UNRWA nelle sue cliniche appena formate. Ma come molti della sua generazione, emigrò nel Golfo per aiutare a costruire il sistema sanitario in quei paesi. Nel 1963 si trasferì a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.

E fu così che nel 1988 venni a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui scoprii cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone di fronte al freddo volto della vita delle persone, e come, se sei dotato delle giuste lenti politiche, sociologiche ed economiche, puoi capire come la vita delle persone viene modellata, e molte volte contorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho visto per la prima volta il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di gruppi che stavano organizzando solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il consiglio comunale di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con le città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato alla prima guerra americana in Iraq nel 1991; poi con Mike Holmes nel Libano del Sud nel 1993; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi alle guerre condotte dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021; alla guerra di Mosul nel nord dell’Iraq, a Damasco durante la guerra siriana e alla guerra in Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre che sono arrivato a Gaza e ho visto svolgersi il genocidio.

Tutto quello che sapevo sulle guerre era paragonabile a niente di quello che vedevo. Era la differenza tra alluvioni e uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine di morte fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi nella Striscia di Gaza, metà dei quali erano bambini. Dopo essere uscito, gli studenti dell’Università di Glasgow mi hanno contattato per candidarmi alle elezioni come Rector. Poco dopo, uno dei selvaggi di Balfour ha vinto le elezioni.

Che cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scolasticidio, l’eliminazione di intere istituzioni educative, sia di infrastrutture che di risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo. 12 università completamente rase al suolo. 400 scuole. 6.000 studenti uccisi. 230 insegnanti uccisi. Uccisi 100 professori e presidi e due rettori di università.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocida è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto dell’iceberg è costituito da un asse del genocidio. Questo asse del genocidio è costituito dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Germania, dall’Australia, dal Canada e dalla Francia. paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano a sostenere il genocidio con le armi – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida in modo che continuasse. Non dobbiamo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone mentre lanciano aiuti alimentari con il paracadute.

Ho anche scoperto che parte dell’iceberg del genocidio sono i facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni aspetto della vita, in ogni istituzione. Questi facilitatori di genocidio sono di tre tipi.

  1. I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterità dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 bambini che sono stati uccisi e per i quali i bambini palestinesi rimangono non degni di compianto. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati completamente distrutti dalla barbarie di Israele.
  2. Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “non avevano alcun motivo, se non la straordinaria diligenza nel prendersi cura del proprio avanzamento personale”.
  3. I terzi sono gli apatici. Come diceva Arendt, “Il male prospera nell’apatia e non può esistere senza di essa”.

Nell’aprile del 1915, un anno dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse della società borghese tedesca. “Violati, disonorati, guadati nel sangue… La bestia famelica, il sabba delle streghe dell’anarchia, una piaga per la cultura e l’umanità”. Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato le membra irrecuperabili di bambini feriti non possono mai avere altro che il massimo disprezzo per tutti coloro che sono coinvolti nella fabbricazione, nella progettazione e nella vendita di questi strumenti di brutalità. Lo scopo della produzione di armi è quello di distruggere la vita e devastare la natura. Nell’industria degli armamenti, i profitti aumentano non solo a causa delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma anche attraverso il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. L’idea che ci sia la pace o un mondo incontaminato mentre il capitale cresce con la guerra è ridicola. Né il commercio di armi né il commercio di combustibili fossili hanno posto all’Università.

Allora, qual è il nostro piano, di questo “selvaggio” e dei suoi complici?

Faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili in questa Università, sia per ridurre i rischi dell’Università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che questa è plausibilmente una guerra genocida, sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità nel genocidio.

Il denaro del sangue genocida ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà intestato a Dima Alhaj e in memoria di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di gruppi e sindacati studenteschi e della società civile per trasformare l’Università di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.

Ci batteremo per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca all’Università di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.

Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dall’essere complici dell’apartheid e della negazione dell’istruzione ai palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Ci batteremo per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda l’antisionismo e il colonialismo genocida anti-israeliano con l’antisemitismo.

Combatteremo con tutte le comunità altre e razzializzate, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi razzializzati, contro il nemico comune di un fascismo di destra in ascesa, ora assolto dalle sue radici antisemite da un governo israeliano in cambio del suo sostegno all’eliminazione del popolo palestinese.

Solo questa settimana, proprio questa settimana, abbiamo visto come un’istituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato un’intellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa, abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista antisionista ebreo, per antisemitismo.

Durante il volo di andata ho avuto la fortuna di leggere “Siamo liberi di cambiare il mondo” di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando l’esperienza dell’impotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complicato conta di più”. 90 anni fa, nella sua “Canzone di solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: “Di chi è domani domani? E di chi è il mondo?”

Bene, la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è il vostro mondo per cui lottare. È il tuo domani da costruire. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite di Gaza domani. Saremo proprietari di domani. Domani sarà un giorno palestinese.

Nel 1984, quando l’Università di Glasgow nominò Winnie Mandela suo Rector nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid, sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto immaginare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto trovarsi di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia a difendere il diritto del popolo palestinese alla vita come cittadini liberi di una nazione libera.

Uno degli scopi di questo genocidio è quello di affogarci nel nostro stesso dolore. Da un punto di vista personale, voglio mantenere lo spazio in modo che io e la mia famiglia possiamo piangere per i nostri cari. Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni il giorno della sua nascita. Lo dedico alla memoria del mio collega, il dottor Midhat Saidam, che era uscito per mezz’ora per portare sua sorella a casa loro in modo che potesse essere al sicuro con i suoi figli e non è più tornato. Lo dedico al mio amico e collega, il dottor Ahmad Makadmeh, che è stato giustiziato dall’esercito israeliano nell’ospedale Shifa poco più di 10 giorni fa con sua moglie. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, capo del Pronto Soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla. Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole dell’onnipresente Mahmoud Darwish,

“Alla nostra terra, ed è un premio di guerra,

la libertà di morire per il desiderio e l’incendio

e la nostra terra, nella sua notte insanguinata,

è un gioiello che brilla per il lontano sul lontano

e illumina ciò che è al di fuori di esso…

Quanto a noi, dentro,

soffochiamo di più!”

E così voglio concludere con la speranza. Per dirla con le parole dell’immortale Bobby Sands, “La nostra vendetta saranno le risa dei nostri figli”.”

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

 

Traduzione di Angelo Stefanini

da qui

 

 

Il dramma dei bambini palestinesi nelle carceri israeliane – Deborah Petruzzo

Il sistema di detenzione ha un impatto distruttivo sul benessere a lungo termine dei minori

Da una ricerca condotta da Save the Children, Israele è l’unico Paese al mondo che detiene e persegue i minori nei tribunali militari. Ogni anno tra i 500 e i 1.000 minori della Cisgiordania sono trattenuti all’interno del sistema di detenzione militare israeliano. L’accusa principale a loro carico è il lancio di pietre, che può comportare una condanna a 20 anni di carcere. I palestinesi sono gli unici bambini al mondo ad essere sistematicamente processati da tribunali militari, con processi iniqui, arresti violenti, spesso notturni ed interrogatori coercitivi. La maggior parte di loro viene picchiata (quattro su cinque pari all’86%), ammanettata e bendata durante l’arresto. Gli interrogatori che subiscono avvengono in luoghi sconosciuti spesso privati di cibo, acqua e sonno, o dell’accesso all’assistenza legale.

Grazie ad alcune indagini si è scoperto che il 69% è stato sottoposto a perquisizione e quasi la metà, più precisamente il 42%, ferita al momento dell’arresto. I bambini arrestati vengono trasferiti in tribunale o in centri di detenzione in piccole gabbie.

Il trasferimento da un centro di detenzione all’altro o dalla prigione al tribunale a bordo del “Bosta”, l’autobus dei detenuti, è considerato da alcuni degli intervistati uno degli aspetti più traumatici della detenzione: i minori hanno riportato di essere stati ammassati nell’autobus, in piedi per tutto il tragitto, con mani e piedi ammanettati, senza cibo o acqua, né accesso ai servizi igienici, per 12 o più ore. La gamma di abusi fisici e psicologici si riproduce anche durante il tempo passato in prigione con percosse, perquisizioni, minacce, isolamento, negazione di cibo, acqua, cure mediche, privazione del sonno. Sono aumentate anche le denunce di violenze e abusi di natura sessuale che alcuni degli intervistati hanno descritto come “tocchi nelle parti intime” e “colpi sui genitali”: il 69% di loro ha riferito di essere stato spogliato durante la detenzione, una forma di abuso sessuale e una tattica di umiliazione. Anche il contatto con il mondo esterno dovrebbe essere tutelato nel caso di minori detenuti, invece a oltre la metà dei bambini e dei ragazzi che hanno preso parte all’indagine è stato impedito di vedere le proprie famiglie mentre erano in carcere.

Non stupisce dunque il forte disagio psicofisico manifestato dopo il rilascio che si traduce in disturbi del sonno o insonnia, incubi, rabbia, attacchi di panico o difficoltà a respirare. Il sistema di detenzione ha un impatto distruttivo sul benessere a lungo termine dei minori. Cambiamenti comportamentali come il sentirsi arrabbiati per la maggior parte del tempo, la scarsa o nulla volontà di comunicare con gli altri, la maggiore tendenza a passare il tempo da soli o l’eccessivo attaccamento alla madre hanno avuto un impatto sulla vita quotidiana e sul benessere emotivo. E le conseguenze avranno un impatto per tutta la loro vita: basti pensare che almeno un terzo dei ragazzi intervistati ha abbandonato la scuola dopo il rilascio e molti di quelli che vi hanno fatto ritorno sono stati costretti a cambiare percorso di studi o a ridimensionare le loro aspirazioni. Anche i rapporti sociali e i legami famigliari di questi minori subiranno delle ripercussioni: non solo per l’ovvia lontananza dalle opportunità di formazione o dalle attività tipiche del tempo libero patita in carcere, ma anche per l’accusa di essere una spia che alcuni di essi si sentono rivolgere dopo essere stati rilasciati e il conseguente stigma che questo comporta su di loro e le rispettive famiglie. Questo si traduce in bambini e ragazzi che non si sentono sicuri fuori da casa, che evitano interazioni con persone che non conoscono, che hanno difficoltà a esprimere i propri sentimenti

Ricordiamoci che Israele ha ratificato la Convenzione dei Diritti del Bambino nel 1991, impegnandosi ad attuare tutti i diritti e le protezioni inclusi nel trattato, il quale prevede che nessun bambino privato di libertà possa essere sottoposto a tortura o ad altri trattamenti, punizioni crudeli, inumane o degradanti. Nonostante ciò, il Paese rimane l’unico al mondo a detenere e perseguire i bambini nei tribunali militari, privandoli dei diritti e delle protezioni fondamentali del giusto processo e violando sistematicamente la Convenzione dei Diritti del Bambino, la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite e la Quarta Convenzione di Ginevra sulla tutela della popolazione civile in tempo di guerra.

Deborah Petruzzo è traduttrice e interprete e membro dell’Associazione Schierarsi

da qui

 

(foto di Giorgio Ferrari)

 

Sì, è un genocidio – Amos Goldberg

Nella maggior parte dei casi di Genocidio, dalla Bosnia alla Namibia, dal Ruanda all’Armenia, gli autori dell’Omicidio hanno affermato di aver agito per autodifesa. Il fatto che ciò che sta accadendo a Gaza non assomigli all’Olocausto, scrive lo studioso dell’Olocausto Amos Goldberg, non significa che non si tratti di un Genocidio. La storia ebraica sarà macchiata da ciò che Israele ha fatto a Gaza.

Sì, è un Genocidio. È così difficile e doloroso ammetterlo, ma nonostante tutto ciò, e nonostante tutti i nostri sforzi per pensare diversamente, dopo sei mesi di guerra brutale non possiamo più evitare questa conclusione. La storia ebraica d’ora in poi sarà macchiata dal marchio di Caino per il “più orribile dei crimini”, che non può essere cancellato. In quanto tale, questo è il modo in cui sarà visto nel giudizio della storia per le generazioni a venire.

Dal punto di vista giuridico non è ancora possibile sapere cosa deciderà la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, anche se alla luce delle sentenze temporanee finora adottate e della crescente prevalenza di segnalazioni di giuristi, organizzazioni internazionali e giornalisti investigativi, la direzione del giudizio futuro sembra abbastanza chiara.

Già il 26 gennaio, la Corte Internazionale di Giustizia aveva stabilito con una maggioranza schiacciante (14 a 2) che Israele stava commettendo un Genocidio a Gaza. Il 28 marzo, in seguito alla deliberata riduzione alla fame della popolazione di Gaza da parte di Israele, la Corte ha emesso ulteriori ordini (questa volta con un voto di 15 a 1, con l’unico dissenso del giudice israeliano Aharon Barak) invitando Israele a non negare ai palestinesi i loro diritti protetti dalla Convenzione sul Genocidio.

Il rapporto ben argomentato e ragionato del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese, è giunto a una conclusione leggermente più determinata e costituisce un altro parametro per stabilire la comprensione che Israele sta effettivamente commettendo un Genocidio. Il rapporto dettagliato (in ebraico) e periodicamente aggiornato dell’accademico israeliano Lee Mordechai, che raccoglie informazioni sul livello di violenza israeliana a Gaza, è giunto alla stessa conclusione. Accademici di spicco come Jeffrey Sachs, professore di economia all’Università Columbia (ed ebreo con un atteggiamento affettuoso nei confronti del sionismo tradizionale), con il quale i capi di Stato di tutto il mondo si consultano regolarmente su questioni internazionali, parla del Genocidio israeliano come di qualcosa dato per scontato.

Eccellenti rapporti investigativi come quelli (in ebraico) di Yuval Avraham in Local Call, e soprattutto la sua recente indagine sui sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dai militari nella selezione degli obiettivi e nell’esecuzione degli omicidi, approfondiscono ulteriormente questa accusa. Il fatto che i militari abbiano consentito, ad esempio, l’uccisione di 300 persone innocenti e la distruzione di un intero quartiere residenziale per eliminare un Comandante di Brigata di Hamas dimostra che gli obiettivi militari sono obiettivi quasi accessori per l’uccisione di civili e che ogni palestinese a Gaza è un bersaglio da uccidere. Questa è la logica del Genocidio.

SÌ. Lo so, sono tutti antisemiti o ebrei che odiano se stessi. Solo noi israeliani, le cui menti sono nutrite dagli annunci del Portavoce dell’IDF ed esposte solo alle immagini filtrate per noi dai media israeliani, vediamo la realtà così com’è. Come se non fosse stata scritta un’interminabile letteratura sui meccanismi di negazione sociale e culturale delle società che commettono gravi Crimini di Guerra. Israele è davvero un caso emblematico di tali società, un caso che verrà ancora insegnato in ogni seminario universitario nel mondo che tratti l’argomento.

Ci vorranno diversi anni prima che il Tribunale dell’Aja emetta il suo verdetto, ma non dobbiamo guardare alla situazione catastrofica esclusivamente attraverso lenti legali. Ciò che sta accadendo a Gaza è un Genocidio perché il livello e il ritmo degli Omicidi Indiscriminati, della Distruzione, delle Espulsioni di Massa, degli Sfollamenti, dell’Eliminazione delle Istituzioni (compresa l’uccisione dei giornalisti) e l’Ampia Disumanizzazione dei palestinesi, creano un quadro generale di Genocidio, di una distruzione deliberata e consapevole dell’esistenza palestinese a Gaza.

Nel modo in cui normalmente comprendiamo tali concetti, la Gaza palestinese come complesso geografico-politico-culturale- umano non esiste più. Il Genocidio è l’Annientamento Deliberato di un collettivo o di una parte di esso, non tutti i suoi individui. E questo è ciò che sta accadendo a Gaza. Il risultato è senza dubbio un Genocidio. Le numerose dichiarazioni di Sterminio da parte di alti funzionari del governo israeliano e il tono Genocida generale del linguaggio pubblico, giustamente sottolineato dall’editorialista di Haaretz Carolina Landsman, indicano che questa era l’intenzione.

Gli israeliani pensano erroneamente che per essere considerato un Genocidio debba somigliare all’Olocausto. Immaginano treni, camere a gas, forni crematori, fosse comuni, campi di concentramento e di sterminio e la sistematica persecuzione a morte di tutti i membri del gruppo delle vittime fino all’ultimo. Un evento del genere in effetti non è avvenuto a Gaza. In modo simile a quanto accaduto durante l’Olocausto, la maggior parte degli israeliani immagina che il collettivo delle vittime non sia coinvolto in attività violente o in conflitti reali e che gli assassini li sterminino a causa di un’ideologia folle e insensata. Anche questo non è il caso di Gaza.

Il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre è stato un crimine atroce e terribile. Circa 1.200 persone furono uccise o assassinate, tra cui più di 850 civili israeliani (e stranieri), fra questi molti bambini e anziani, circa 240 israeliani furono rapiti e portati a Gaza e furono commesse atrocità come lo stupro. Si tratta di un evento con effetti traumatici profondi e catastrofici che dureranno per molti anni, certamente per le vittime dirette e le persone loro vicine, ma anche per la società israeliana nel suo insieme. L’attacco ha costretto Israele a rispondere per autodifesa.

Tuttavia, sebbene ogni caso di Genocidio abbia un carattere diverso, nella portata e nelle caratteristiche dell’Omicidio, il denominatore comune della maggior parte di essi è che furono compiuti per un autentico senso di autodifesa. Legalmente, un evento non può essere allo stesso tempo autodifesa e Genocidio. Queste due categorie giuridiche si escludono a vicenda. Ma storicamente l’autodifesa non è incompatibile con il Genocidio, ma ne è solitamente una delle cause principali, se non la principale.

A Srebrenica, sulla quale il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia stabilì su due diversi livelli che si era verificato un Genocidio, “solo” circa 8.000 uomini e giovani musulmani bosniaci, sopra i 16 anni, furono assassinati. Le donne e i bambini erano stati espulsi in precedenza.

Responsabili dell’omicidio furono ritenute le forze serbo-bosniache, la cui offensiva si è svolta nel mezzo di una sanguinosa guerra civile, durante la quale entrambe le parti hanno commesso Crimini di Guerra (anche se in misura infinitamente maggiore da parte dei Serbi), e che è scoppiata in seguito a una decisione unilaterale dei croato-bosniaci e dei musulmani che si staccarono dalla Jugoslavia e fondarono uno Stato Bosniaco indipendente, in cui i Serbi erano una minoranza.

I Serbi Bosniaci, con cupi ricordi del passato di persecuzioni e omicidi durante la Seconda Guerra Mondiale, si sentivano minacciati. La complessità del conflitto, in cui nessuna delle due parti era innocente, non ha impedito alla Corte Penale Internazionale di riconoscere il massacro di Srebrenica come un atto di Genocidio, che ha superato gli altri Crimini di Guerra commessi dalle parti, poiché questi crimini non possono giustificare il Genocidio. La Corte ha spiegato che le forze serbe hanno intenzionalmente distrutto, attraverso l’omicidio, l’espulsione e la distruzione l’esistenza bosniaco-musulmana a Srebrenica. Oggi, tra l’altro, i musulmani bosniaci vivono di nuovo lì, e alcune delle moschee che erano state distrutte sono state ricostruite. Ma il Genocidio continua a perseguitare allo stesso modo i discendenti degli assassini e delle vittime.

Il caso del Ruanda è totalmente diverso. Lì, per lungo tempo, come parte della struttura di controllo coloniale belga, basata sul divide et impera (dividi e governa), ha governato la minoranza Tutsi e ha oppresso il gruppo maggioritario Hutu. Tuttavia, negli anni ’60 la situazione si invertì e, dopo l’indipendenza dal Belgio nel 1962, gli Hutu presero il controllo del Paese e adottarono una politica oppressiva e discriminatoria contro i Tutsi, anche questa volta con il sostegno delle ex potenze coloniali.

A poco a poco, questa politica divenne intollerabile e nel 1990 scoppiò una brutale e sanguinosa guerra civile, iniziata con l’invasione di un esercito Tutsi, il Fronte Patriottico Ruandese, composto principalmente da Tutsi fuggiti dal Ruanda dopo la caduta del dominio coloniale. Di conseguenza, agli occhi del regime Hutu, i Tutsi furono identificati collettivamente con un vero nemico militare.

Durante la guerra, entrambe le parti hanno commesso gravi crimini sul suolo ruandese, così come sul territorio dei Paesi vicini, nei quali la guerra si è estesa. Nessuna delle due parti era assolutamente innocente o assolutamente malvagia. La guerra civile si concluse con gli Accordi di Arusha, firmati nel 1993, che avrebbero dovuto coinvolgere i Tutsi nelle istituzioni governative, nell’esercito e nelle strutture statali.

Ma questi accordi fallirono e nell’aprile del 1994 l’aereo del Presidente Hutu del Ruanda fu abbattuto. Ad oggi non si sa chi abbia abbattuto l’aereo e si ritiene che fossero effettivamente combattenti Hutu. Tuttavia, gli Hutu erano convinti che il crimine fosse stato commesso dai combattenti della resistenza Tutsi, e ciò fu percepito come una vera minaccia per il Paese. Il Genocidio dei Tutsi era alle porte. La motivazione ufficiale dell’atto di Genocidio era la necessità di rimuovere una volta per tutte la minaccia esistenziale dei Tutsi.

Il caso dei Rohingya, che l’amministrazione Biden ha recentemente riconosciuto come Genocidio, è ancora molto diverso. Inizialmente, dopo l’indipendenza del Myanmar (ex Birmania) nel 1948, i musulmani Rohingya erano visti come cittadini con pari diritti e parte dell’entità nazionale prevalentemente buddista. Ma nel corso degli anni, e soprattutto dopo l’instaurazione della dittatura militare nel 1962, il nazionalismo birmano si è identificato con diversi gruppi etnici dominanti, prevalentemente buddisti, di cui i Rohingya non facevano parte.

Nel 1982 e successivamente furono emanate leggi sulla cittadinanza, che privarono la maggior parte dei Rohingya della cittadinanza e dei diritti. Erano visti come stranieri e come una minaccia all’esistenza dello Stato. I Rohingya, tra i quali in passato c’erano piccoli gruppi ribelli, hanno fatto il possibile per non essere trascinati in una resistenza violenta, ma nel 2016 molti hanno ritenuto di non poter impedire la loro privazione dei diritti civili, la repressione, la violenza statale e di massa contro di essi, e la loro graduale espulsione, e un movimento clandestino Rohingya ha attaccato le stazioni di polizia del Myanmar.

La reazione è stata brutale. Le incursioni delle forze di sicurezza del Myanmar hanno espulso la maggior parte dei Rohingya dai loro villaggi, molti sono stati massacrati e i villaggi completamente distrutti. Quando nel marzo 2022 il Segretario di Stato Antony Blinken ha letto la dichiarazione al Museo dell’Olocausto di Washington in cui riconosceva che ciò che è stato fatto ai Rohingya era un Genocidio, ha affermato che nel 2016 e nel 2017, circa 850.000 Rohingya sono stati deportati in Bangladesh, di cui circa 9.000 furono assassinati. Ciò è bastato per riconoscere quello che è stato fatto ai Rohingya come l’ottavo evento simile che gli Stati Uniti considerano un Genocidio, a parte l’Olocausto. Il caso Rohingya ci ricorda ciò che molti studiosi di Genocidio hanno stabilito in termini di ricerca, ed è molto rilevante per il caso di Gaza: un legame tra Pulizia Etnica e Genocidio.

La connessione tra i due fenomeni è duplice, ed entrambi sono rilevanti per Gaza, dove la stragrande maggioranza della popolazione è stata espulsa dai propri luoghi di residenza, e solo il rifiuto dell’Egitto di assorbire masse di palestinesi sul suo territorio ha impedito loro di lasciare Gaza. Da un lato, la Pulizia Etnica segnala la volontà di eliminare il gruppo nemico ad ogni costo e senza compromessi, e quindi rientra facilmente nel Genocidio o ne fa parte. D’altra parte, la Pulizia Etnica di solito crea condizioni che consentono o causano (ad esempio malattie e carestia) lo sterminio parziale o completo del gruppo di vittime.

Nel caso di Gaza, le “zone di rifugio sicure” sono spesso diventate trappole mortali e Zone di Sterminio deliberate, e in questi rifugi Israele affama deliberatamente la popolazione. Per questo motivo non pochi commentatori ritengono che l’obiettivo dei combattimenti a Gaza sia la Pulizia Etnica.

Anche il Genocidio degli Armeni durante la Prima Guerra Mondiale aveva un contesto. Durante gli anni del declino dell’Impero Ottomano, gli Armeni svilupparono la propria identità nazionale e chiesero l’autodeterminazione. Il loro diverso carattere religioso ed etnico, nonché la loro posizione strategica al confine tra l’Impero Ottomano e quello russo, li rendevano una popolazione pericolosa agli occhi delle autorità ottomane.

Orribili esplosioni di violenza contro gli Armeni si verificarono già alla fine del 19º secolo, e quindi alcuni Armeni erano effettivamente in sintonia con i russi e li vedevano come potenziali liberatori. Piccoli gruppi armeno-russi collaborarono addirittura con l’esercito russo contro i turchi, invitando i loro fratelli oltre confine ad unirsi a loro, il che portò ad un’intensificazione del senso di minaccia esistenziale agli occhi del Regime Ottomano. Questo senso di minaccia, che si sviluppò durante una profonda crisi dell’Impero, fu un fattore importante nello sviluppo del Genocidio Armeno, che avviò anche un processo di espulsione.

Anche il primo Genocidio del 20º secolo fu compiuto per un concetto di autodifesa da parte dei coloni tedeschi contro gli Herero e i Nama nell’Africa Sud-occidentale (l’attuale Namibia). In seguito alla dura repressione da parte dei coloni tedeschi, gli abitanti si ribellarono e in un brutale attacco uccisero circa 123 (forse più) uomini disarmati. Il senso di minaccia nella piccola comunità di coloni, che contava solo poche migliaia, era reale e la Germania temeva di aver perso la sua deterrenza nei confronti dei nativi.

La risposta è stata in linea con la minaccia percepita. La Germania inviò un esercito guidato da un comandante sanguinario e anche lì, per senso di autodifesa, la maggior parte di questi membri della tribù furono assassinati tra il 1904 e il 1908, alcuni mediante uccisione diretta, altri presi per fame e sete (sempre mediante deportazione, questa volta nel deserto di Omaka) e alcuni in crudeli campi di internamento e di lavoro. Processi simili si verificarono durante l’espulsione e lo sterminio delle popolazioni indigene nel Nord America, soprattutto nel corso del 19º secolo.

In tutti questi casi, gli autori del Genocidio hanno avvertito una minaccia esistenziale, più o meno giustificata, e il Genocidio è arrivato in risposta. La distruzione del collettivo delle vittime non è stata contraria ad un atto di autodifesa, ma per un autentico motivo di autodifesa.

Nel 2011, ho pubblicato su Haaretz edizione ebraica un breve articolo sul Genocidio nell’Africa Sud-occidentale, che concludeva con le seguenti parole: “Possiamo imparare dal Genocidio degli Herero e Nama come il dominio coloniale, basato su un senso di superiorità culturale e razziale, possono sfociare, di fronte alla ribellione locale, in Crimini Orribili come l’Espulsione di Massa, la Pulizia Etnica e il Genocidio. Il caso della ribellione degli Herero dovrebbe servire da terrificante segnale di avvertimento per noi qui in Israele, che ha già conosciuto una Nakba nella sua storia”.

Amos Goldberg è un ricercatore sull’Olocausto e sul Genocidio presso l’Università Ebraica, il cui libro VeZcharta – E Tu Ricorderai: Cinque Letture Critiche nel Ricordo Israeliano dell’Olocausto (VeZcharta – And Thou Shalt Remember: Five Critical Readings in Israeli Holocaust Remembrance) sarà pubblicato da Resling nelle prossime settimane.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Algeri: una campagna BDS fa chiudere un ristorante della catena statunitense KFC 4 giorni dopo l’inaugurazione

Una campagna BDS lampo in Algeria. Il 14 aprile è stato inaugurato, nella capitale Algeri, un ristorante della catena statunitense di cibo di strada KFC (Kentucky Fried Chicken). Ieri l’altro, 17 aprile, il locale ha chiuso i battenti.

A portare a questo risultato rapido è stato un mix di azioni di boicottaggio diretto, con l’impegno degli attivisti a gironzolare davanti al negozio con cartelli alzati che invitano a non sostenere coloro che finanziano il genocidio a Gaza. La forma di lotta semi clandestina si era resa necessaria per il divieto della polizia delle manifestazioni politiche. I cartelli hanno svelato anche la creatività del popolo e della gioventù algerina, che in alcuni casi hanno collegato il boicottaggio alla situazione di Gaza, ma in altri hanno sottolineato i prezzi esosi del pollo fritto all’americana. Altri slogan giocavano sul ritmo: “Kentucky barra barra, Aljazair hurra hurra” (Kentucky fuori fuori, Algeria libera). In molti casi nei cartelli è stato usato il dialetto algerino, piuttosto che l’arabo standard, per migliorare la comunicazione con la gente comune non colta. Insieme a questa battaglia “sul campo” si è svolta un’altra campagna virale sui social, che ha raccolto decine di migliaia di condivisioni sulle principali piattaforme con in particolare un uso intelligente dei video.

Dopo appena 4 giorni il locale è stato chiuso e l’insegna coperta con della plastica nera. “Algeria 1, Kentucky 0”, ha scritto un web-attivista, mentre un altro ha preso a prestito il linguaggio pugilistico: su una foto ritoccata, che mostra il marchio buttato per terra, ha scritto “K.O.”.

Ha fatto eco ai giovani algerini il corteo dei “Fridays For Future” che, a Milano, ieri, ha invaso un locale della KFC, spiegando con il megafono i motivi del boicottaggio e piantando davanti un piccolo olivo, simbolo della resistenza degli agricoltori palestinesi che si battono contro il furto delle loro terre, per mano dei coloni usurpatori, e allo stesso tempo il ramoscello d’olivo è il simbolo della Pace.

(Fonte: social media)

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Gaza: distruzione di Storia, Patrimonio e CulturaMaria Morigi

L’identità di un popolo ha le sue radici nel Patrimonio che, salvaguardato e protetto, racconta il passato. Tanto più il Patrimonio è componente essenziale dell’identità palestinese perché la sua conservazione è parte della sua Resistenza. Fin dal 2008, anno di pubblicazione del saggio di Ilan Pappé “La pulizia etnica della Palestina” (Fazi Ed.) sappiamo delle ferite inferte al patrimonio culturale e oggi prendiamo atto che l’identità culturale palestinese è ridotta  in macerie.

A proposito mi sorge spontaneo un confronto con la “distruzione degli idoli” messa in pratica da gruppi fondamentalisti islamici (Talebani e ISis, ad esempio) ad interpretazione del Sacro Corano che condanna  le civiltà precedenti (o estranee) alla missione profetica di Maometto come colpevoli di jāhiliyya (ignoranza). La differenza tra fondamentalisti islamici militanti e Stato ebraico in realtà si riduce a poco: i primi distruggono – con le loro mani – i segni del buddhismo o i segni di civiltà precedenti l’Islam conservati in musei e siti archeologici, Israele invece – per decisione governativa di Stato democratico – usa armi tecnologiche per distruggere indiscriminatamente passato e presente del nemico palestinese. Detto ciò continuo ancora a non comprendere i due pesi e due misure con cui il mondo occidentale giudica la distruzione di Patrimonio, a seconda che venga praticata da gruppi terroristi radicali musulmani o da fanatici razzisti, quelli sì antisemiti, abbarbicati al problema della loro sopravvivenza numerica.

Ma parliamo di Patrimonio palestinese di Gaza in cui distruzioni di oggi si sommano a distruzioni passate.

Il patrimonio architettonico complessivo del Governatorato di Gaza ammonta a 195 siti, le dimore storiche ne rappresentano oltre la metà, seguono 39 colline e siti archeologici, 21 moschee e luoghi di preghiera, 13 santuari e zawiya (centri di insegnamento religioso e pratiche di culto), 22 edifici pubblici di valore storico, 9 cimiteri, 5 monasteri e 5 chiese, 5 palazzi, 4 mercati, 2 khan (alberghi caravanserragli), 1 fontana e 1 hammam. Dall’inizio del conflitto, il 7 ottobre, fino alla fine di febbraio è certificata la distruzione o il grave danneggiamento di molti siti in un rapporto del dr. Ahmed Al-Barsh[i] per due Ong (heritageforpeace.org con ANSCH) e un rapporto del Ministero della Cultura palestinese.

Sono stati distrutti completamente: la Chiesa Bizantina a Jabaliya e la Chiesa Ortodossa di San Porfirio, uno dei più antichi monumenti cristiani dell’inizio del 5° secolo (18 fedeli vittime del bombardamento); la Moschea Al-Omari (a Jabaliya); la Moschea Sheikh Sha’ban (a Gaza city); la Moschea Al-Zafar Dmari (a Shuja’iya); Maqam Khalil Al-Rahman (ad Abasan); il Centro per Manoscritti e documenti antichi; Anthedon, l’antico porto ellenistico con ancora in corso ricerche archeologiche. Sono stati danneggiati: Monastero St. Hilarion; Cimitero inglese; Moschea Al-Omari,  nel centro della città di Gaza col celebre minareto distrutto; Pasha Palace esempio unico di antico palazzo; il centenario Mercato Al-Zawya e l’hammam di Al Samra, il più antico e unico attivo rimasto a Gaza nel quartiere Zeitoun della Città Vecchia.

Mi soffermo ora su due monumenti che conosco meglio: la Moschea Al-Omari di Gaza e i resti del Monastero di St. Hilarion (Tell Umm el-‘Amr).

La Moschea Al-Omari, uno dei simboli della ‘complicata’ storia di Gaza tra occupazioni e terremoti, è stata danneggiata in modo grave l’ 8 dicembre 2023. In quel sito i primi filistei avevano eretto un tempio in onore di Dagan (divinità cananea della fertilità e del raccolto, padre di Baal), trasformato dai bizantini in una chiesa, che diventò moschea con la conquista islamica. Il minareto fu distrutto da un terremoto nel 1033. In seguito i crociati tornarono a farne una chiesa, ma la struttura fu di nuovo utilizzata dai Mamelucchi come moschea che venne distrutta dai Mongoli e da un nuovo terremoto nel 1260. Riacquistato il suo splendore con gli Ottomani, fu danneggiata in un bombardamento britannico nel 1917.

Situati sulle dune costiere 10 chilometri a sud di Gaza City, i resti di St. Hilarion (Tell Umm el-‘Amr), monastero cristiano tra i più grandi del Medio Oriente, abbracciano più di quattro secoli di storia, dal tardo impero romano al periodo omayyade. Essendo l’unico sito archeologico accessibile al pubblico a Gaza, era una testimonianza preziosa, ma le bombe israeliane hanno colpito anche lì, per fortuna con danni non gravissimi. Il complesso è formato da cinque chiese, un’ampia cripta, stabilimenti termali, e vanta bellissimi pavimenti in mosaico. Il monastero più antico (340 circa) è attribuito a Sant’Ilarione, originario della regione  e padre del monachesimo palestinese. Abbandonato dopo un terremoto del VII secolo fu scoperto nel 1997 dagli archeologi palestinesi e da Jean-Baptiste Humbert della Scuola biblica e archeologica francese di Gerusalemme. Il sito che si trova tra gli uliveti e le abitazioni del paese, era stato incluso nel World Monuments Watch 2012 e classificato come “salvataggio necessario” dal Global Heritage Network nel 2016. A quanto ne so era in restauro nel 2019 – previsione di lavori per almeno altri tre anni – diretto dall’archeologo palestinese Fadel Al-Otol. Il 23 gennaio 2024 in un incontro online Fadel ha dichiarato:“Avrei bisogno di giorni per parlare di tutta la distruzione dei siti archeologici a cui stiamo assistendo. Stiamo documentando ogni forma di attacco su questi siti… L’archeologia di Gaza è una testimonianza della tolleranza religiosa e della cultura umana condivisa. Non ho pianto tanto per la distruzione della mia casa quanto per la completa distruzione della Città Vecchia di Gaza”.

Ma non basta l’attacco a siti e monumenti, i soldati israeliani sono recentemente entrati anche negli archivi archeologici supervisionati dalla Scuola francese di archeologia, contenenti migliaia di importanti reperti rinvenuti e raccolti in 28 anni di scavi condotti dall’Ecole biblique di Gerusalemme.  Afferma il Ministero del Turismo e dell’Archeologia: “L’assalto al deposito archeologico di Gaza da parte dell’occupazione israeliana è una grave violazione del patrimonio palestinese, viola le convenzioni internazionali come la quarta convenzione di Ginevra del 1949, la convenzione dell’Aia del 1954 sulla protezione dei beni culturali nell’evento del conflitto armato e i suoi protocolli (1954 e 1999), e la Convenzione del 1970 sulle misure da adottare per vietare e prevenire l’importazione, l’esportazione e il trasporto di proprietà illegali di beni culturali, e la Dichiarazione mondiale dell’Unesco del 2001 sulla protezione della diversità culturale”.

Ed infine altre notizie sulla distruzione di cultura: sono stati totalmente o parzialmente distrutti 24 centri culturali, 5 grandi biblioteche pubbliche, 11 musei, librerie, case editrici. L’esercito israeliano ha utilizzato le strutture del Villaggio delle arti e artigianato, istituito nel 1998 e gestito dal Comune di Gaza, con stanze per il ricamo, la lavorazione del legno e del rame. Distrutto l’ Arab Orthodox Cultural and Social Center. Distrutto il Rashad Al-Shawwa Cultural Center. Distrutta l’Unione generale dei centri di beni culturali, fondata nel 1997 (67 istituzioni culturali affiliate e più di 120 organizzazioni partner). Bombardati il Centro per la Cultura e le Arti di Gaza, noto per il Red Carpet Film Festival, la Fondazione Nawa per la Cultura e Arti, gli Archivi centrali del Comune di Gaza, il Conservatorio nazionale musicale Edward Said. 

E poi ci sono Scuole e Università pesantemente colpite: l’Università Al-Azhar (pubblica, senza scopo di lucro e indipendente, istituita nel 1991 da Yasser Arafat) di cui è stato ucciso il rettore Dr. Soufyan Tayeh con la sua famiglia; l’Università  Al-Aqsa (università pubblica con campus a Gaza City e Khan Younis, fondata nel 1955); l’Università Al- Quds Open  (istruzione a distanza con 60.000 studenti in 19 filiali in Cisgiordania e Striscia di Gaza).

[i] Collaboratore con ANSCH (Arab network of Civil Society to safeguard cultural heritage) an initiative of Heritage for peace in coordination with several Civil society Organizations (CSO’s) in different Arabic countries.

 

Altre fonti: The Third Preliminary Report on the Cultural Sector’s Damages of Palestine Ministry of Culture

The War on the Gaza Strip October 7, 2023 – January 7, 2024; Francesco Bandarin, “A Gaza muore anche un patrimonio artistico millenario” Il Giornale dell’Arte 11/12/23; Alessandra Mecozzi “Il patrimonio millenario di Gaza cancellato dalle bombe”, Left -1/02/ 2024

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Esposto contro il governo italiano

Diversi rappresentanti della comunità palestinese in Italia, sostenuti da un team di avvocati romani e da associazioni attive sul tema della difesa del diritto internazionale e dei diritti individuali e collettivi, hanno presentato alla Procura di Roma un esposto-denuncia relativo alle  scelte recenti del governo italiano che potrebbero configurare una complicità nel genocidio in corso ai danni della popolazione palestinese.

L’atto, oltre a ritenere contraria agli obblighi internazionali l’interruzione del sostegno all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso ai rifugiati palestinesi (UNRWA), che ha comportato la privazione di beni fondamentali come cibo e medicinali per centinaia di migliaia di abitanti di Gaza, si concentra sulla fornitura di armi al governo israeliano. L’Italia figura attualmente al terzo posto nella classifica di fornitori internazionali di armi al governo israeliano e il supporto fornito dall’Italia all’aggressione militare israeliana ha continuato imperterrito dopo il 7 ottobre, nonostante le dichiarazioni dei ministri italiani competenti mirassero a farci credere il contrario.

Al riguardo occorre sottolineare che dalla Convenzione sul genocidio del 1948 derivano vari obblighi gravanti sugli Stati terzi fra cui l’Italia e che tali obblighi sono stati ulteriormente ribaditi dall’Ordinanza sulle misure provvisorie volte ad evitare il genocidio adottata il 26 gennaio dalla Corte internazionale di giustizia nell’ambito del procedimento avviato colla denuncia della Repubblica del Sudafrica contro Israele.

In tal senso l’esposto afferma che sono “da sottoporre al rigore della legge penale italiana tutti gli atti che costituiscano violazione del divieto di genocidio e di concorso o complicità nel genocidio, reato previsto e punito dall’art. 1 della legge 9 ottobre 1967 n. 962 – aggravato nel caso di specie ai sensi dell’art. 3 della medesima legge”.

La presentazione dell’esposto è accompagnata da quella  di una diffida al Ministero degli affari esteri  che chiede la “immediata sospensione delle autorizzazioni rilasciate in favore di società di produzione e vendita di armamenti che commerciano con lo Stato di Israele e con enti di quello Stato, in quanto sono da ritenere illegittime perché contrarie alle norme del diritto interno ed internazionale in particolare alla legge n. 185/90, alla Posizione Comune n. 2008/944 PESC del Consiglio della UE e al Trattato internazionale sul commercio delle armi”.

L’esposto segue un ricorso al Giudice Civile di Roma presentato a inizio mese da un avvocato palestinese insieme a colleghi italiani, volto a ottenere un provvedimento urgente per l’interruzione alla fornitura di armi a Israele.

I testi integrali dei due documenti possono essere letti ai seguenti link: www.credgigi.it

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USA, accampamenti e proteste di solidarietà per Gaza si diffondono nei campus universitari nonostante gli arresti

Le proteste e gli accampamenti di solidarietà con la Palestina si stanno diffondendo nei campus universitari di tutti gli Stati Uniti, ispirati dall’accampamento di solidarietà per Gaza della Columbia University.

Lunedì sera la polizia ha fatto irruzione in un accampamento di studenti alla New York University e ha  arrestato più di 150 persone, tra cui studenti e docenti. Sempre lunedì, la polizia dell’Università di Yale ha arrestato 60 manifestanti, tra cui 47 studenti che avevano allestito un accampamento nel campus per chiedere all’ateneo di disinvestire dai produttori di armi.

Alla Columbia University, l’accampamento degli studenti è entrato nel settimo giorno. Lunedì sera, circa 100 studenti manifestanti e docenti hanno partecipato a un Seder per la liberazione di Gaza per celebrare l’inizio della festività ebraica di Passover. Accampamenti di studenti sono ora presenti in numerose altre università, tra cui l’Università del Michigan, l’Università della California a Berkeley, l’Università del Maryland, il MIT e l’Emerson College di Boston.

“Voglio che l’Emerson ascolti gli studenti, li stia a sentire, capisca la loro prospettiva e apra uno spazio per una discussione sulla Palestina, sul genocidio in Palestina, a Gaza e permetta agli studenti di esprimersi – libertà di parola, libertà accademica,” ha dichiarato Yasser Munif, professore all’Emerson College di Boston.

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Milano, presidio del BDS contro AXA – Andrea De Lotto

Milano, 23 aprile, mentre tutte le energie sono rivolte a un 25 aprile che si prefigura diverso dai soliti, il neonato gruppo BDS Milano (Boicottaggio disinvestimento sanzioni) si fa coraggio e lancia un presidio sotto l’agenzia di assicurazioni AXA, con sede principale a Parigi, che, detto in parole povere, fa grandi affari con lo Stato di Israele.

Se volete saperne di più su BDS e su questa campagna, guardate il loro sito. Qui ci limitiamo alla cronaca: in mattinata vengono consegnate 175mila firme raccolte contro la vergogna di questi accordi economici. Nel pomeriggio viene convocato in pochissimo tempo un presidio sotto il numero 17 di corso Como.

Quando arrivo, il presidio è già cominciato; sono state coraggiosissime (e parlo non a caso al femminile, dato che le donne sono prevalenti nel gruppo), le previsioni dicevano acqua a dirotto, ma dopo i primi minuti il cielo è schiarito. Restano per più di un’ora a gridare “Stop accordi con Israele”, si alternano tra microfono e megafono, inanellano dati, numeri, su quello che comporta fare affari con una nazione che sta massacrando un popolo, fatto di uomini, donne, bambini, bambine, anziani, in carne e ossa.

La sproporzione di forze è mostruosa: una trentina di giovani coraggios@ di fronte a un palazzo enorme tutto di vetro e acciaio, come, a suo tempo, le pietre lanciate dai ragazzini contro i carri armati. Sotto pochi vigili e agenti della Digos, più in là una camionetta, non si sa mai…

Sulla parete del palazzo scorre continuamente una scritta: “Agiamo per il progresso dell’umanità, proteggendo ciò che conta”: una frase che trasuda vergogna. Forse dovrebbero più onestamente scrivere: “Non ce ne frega nulla dell’umanità, proteggiamo i soldi dei nostri clienti e investitori.”

Queste giovani e questi giovani non mollano, martellano come dei picchi. Questa è la loro tecnica: scegliere un obiettivo e dai e dai e dai… fino a che per sfinimento questi giganti non si piegano. Un’arte lillipuziana, ma efficace.

Questa potenza di nome AXA (di cui la maggior parte della gente probabilmente non sa nulla – come me, del resto – ma, a giudicare dal palazzo, è un gigante della finanza) forse comincerà a dire: “Ah ah! Tutta pubblicità…” Fino a che si renderà conto che la sua immagine viene intaccata, che dal suo logo cola il sangue di coloro che muoiono a Gaza. Allora diranno: “Va bene, ci ritiriamo…!”

Aspettiamo con ansia quel giorno e nel frattempo appoggiamo in tutti i modi queste ragazze e questi ragazzi che hanno da poco cominciato questa scalata importantissima.

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The Guardian: Israele ha promosso l’espansione delle colonie a Gerusalemme dopo il 7 Ottobre

Secondo i dati forniti dal quotidiano britannico The Guardian, il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accelerato la costruzione di insediamenti ad est di Al-Quds (Gerusalemme) negli ultimi sei mesi, cioè dallo scorso ottobre e dall’inizio degli attacchi israeliani alla Striscia di Gaza.

Secondo quanto si legge nei documenti di pianificazione, Israele ha accelerato la costruzione di oltre 20 progetti per un totale di migliaia di unità abitative approvate o avanzate dal 7 ottobre.

Il giornale ha rivelato che dietro i più grandi progetti controversi ci sono diversi gabinetti e ministeri di Netanyahu, a volte associati a gruppi nazionalisti di destra, con una lunga storia di tentativi di cacciare i palestinesi dalle loro case.

Un membro dell’organizzazione israeliana per i diritti umani Bimkom, Sari Kronish, in un’intervista aal media inglese, ha dichiarato che l’accelerazione di questi piani è stata “senza precedenti” negli ultimi sei mesi. “Mentre molte agenzie governative hanno chiuso o hanno limitato le operazioni dopo il 7 ottobre, le autorità di pianificazione hanno continuato ad andare avanti, portando avanti questi piani a una velocità senza precedenti”.

Allo stesso modo, i nuovi insediamenti offriranno agli ebrei in questo territorio che fu occupato nel 1967 e poi annesso unilateralmente nel 1980, una misura alla quale non è mai stata data risposta dalle Nazioni Unite (ONU).

Insediamento nel cuore del quartiere palestinese

Dall’inizio degli attacchi israeliani contro l’enclave costiera, le autorità israeliane hanno approvato due nuovi insediamenti che sono i primi ad essere approvati nella parte orientale di Al-Quds in più di un decennio.

In primo luogo, si tratta di un insediamento chiuso di massima sicurezza chiamato Kidmat Zion, situato nel cuore del quartiere palestinese di Ras al-Amud, nella parte orientale di Al-Quds, iniziato appena 48 ore dopo l’operazione del Movimento di Resistenza Islamica Palestinese (HAMAS), nota come “Tempesta di Al-Aqsa”.

Allo stesso modo, due importanti progetti sono posti ai lati di Beit Safafa, la maggior parte dei quali si trova nella parte orientale di Al-Quds. Uno di loro, noto come Givat Hamatos, è stato congelato per un decennio a causa dell’opposizione internazionale. Tuttavia, il lavoro è ripreso nel 2020 e il lavoro si è intensificato dal mese scorso.

L’altro piano, noto come Givat Shaked, ha suscitato polemiche da quando ne è stata proposta la costruzione a metà degli anni ’90.

Ostacoli alla creazione di uno Stato palestinese

Il giornale ha sottolineato che l’obiettivo di Israele nella costruzione di nuovi insediamenti è quello di promuovere la città di Al-Quds come “città leader a livello internazionale nel settore economico e nella qualità della vita nello spazio pubblico”.

I progetti di Tel aviv costituiranno probabilmente un ostacolo a qualsiasi tentativo di creare uno Stato palestinese vitale con la parte orientale di Al-Quds come capitale.

Inoltre, Israele ha fermato i piani di costruzione e pianificazione della città da parte dei palestinesi.

Secondo il report, gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati si sono espansi in numeri record e rischiano di eliminare ogni possibilità pratica di uno Stato palestinese.

Quasi il 40% della popolazione della città di Al-Quds, circa un milione di abitanti, è palestinese e il mantenimento di una maggioranza ebraica nella città è stato un obiettivo dei successivi governi israeliani.

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Eirenefest a Bisceglie il 3-4-5 maggio 2024. Il programma completo

Venerdì, 3 maggio 2024

8.30-13.30, Convegno di Formazione/Aggiornamento rivolto al personale scolastico. Evento gratuito e aperto a tutta la cittadinanza a cura del CESP (Centro Studi per la Scuola Pubblica) dal titolo: “Dove va la scuola?” Percorsi di educazione alla pace”, Auditorium Liceo “Da Vinci”, via Cala dell’Arciprete, 1, Bisceglie (con Antonio Mazzeo, don Giovanni Ricchiuti, Antonella Morga, Gabriella Falcicchio, Michele Lucivero).

17.00 Apertura Eirenefest con intervento di padre Alex Zanotelli, direttore responsabile di Mosaico di pace, da remoto; saluto del Sindaco, Angelantonio Angarano, Castello di Bisceglie, Largo Castello.

17.30-18.45, “Le Bandiere della Pace”, Presentazione mostra e incontro su “Le donne e la Resistenza. Dalla Guerra alla difesa della Costituzione” a cura dell’ANPI Bisceglie con Giuseppe Chiodo, Rosaria Lopedote, Rosalba D’Addato e Lucio Dabbicco. Collegamento da remoto con Silvia Folchi. Proiezione del video “L’impegno delle donne per la pace” (il video sarà proiettato nel corso della giornata di sabato e di domenica). Esposizione di Bandiere della Pace storiche, realizzate dalle donne nell’immediato dopoguerra, in una stagione di rivendicazioni per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, tematiche che si legano indissolubilmente con le battaglie per la pace e contro il riarmo, per orientare gli investimenti verso la ricostruzione e la creazione di lavoro.

19.00-20.30 Tavola rotonda “Da fabbricante di mine antipersona a sminatore: testimonianze di pace” a cura di Pax Christi e Caritas Cittadina, Castello di Bisceglie, Largo Castello (Vito Fontana Alfieri e Giampiero Losapio dialogano con studentesse e studenti del Liceo “Da Vinci”). A partire dal libro dal titolo Ero l’uomo della guerra, l’evento, che Pax Christi Bisceglie e Caritas Cittadina propongono, intende aprire un dialogo sulla storia di Fontana, esempio di riconversione possibile. All’evento sarà presente l’allora obiettore di coscienza che conobbe Fontana quando era ancora produttore di armi e due studentesse che hanno letto il libro. Un’occasione per ricordare il lungo e felice percorso della Campagna per la messa al bando delle mine antipersona, vincitrice de Nobel e ora legge anche nel nostro Paese.

Sabato, 4 maggio 2024

10.00-12.00, Reading di poesie con coinvolgimento del pubblico, Chiesa Sant’Agostino, (Maria La Bianca, Presidio del libro di Bisceglie)

17.00-18.15, Laboratorio creativo sull’ambiente: dalla crisi alla prospettiva ecopacifista e vegan, Castello (Mimmo Laghezza e Giovanna Evangelista dialogano con studentesse e studenti del Liceo “Da Vinci”). A partire dal libro di Mimmo Laghezza, Mariolino va per mare, Multimage editore, 2021, si propone un laboratorio creativo rivolto ai bambini (per questioni d’età o a quelli ancora in noi!) dai 9 ai 99 anni, che abbia come motivo conduttore “Dall’io al noi” in una prospettiva ecologica ed ecopacifista e che metta al centro della riflessione anche la scelta etica vegan.

18.30-20.00 Tavola rotonda sulla militarizzazione della scuola, dell’università e della società civile, Castello di Bisceglie, Largo Castello, (Antonio Mazzeo, Laura Marchetti e don Giovanni Ricchiuti dialogano con studentesse e studenti del Liceo “Da Vinci”). A partire dal libro di Antonio Mazzeo, La Scuola va alla guerra, ManifestoLibri, Roma 2024 s’intende tracciare un quadro di ciò che sta diventando la scuola pubblica tra PCTO in caserma, alzabandiera con i bambini e con le bambine della scuola primaria e una diffusa retorica militaristica con lo scopo di rendere familiare la guerra. La scuola ha bisogno di educare alla pace, di disarmare il linguaggio, di progettare iniziative ireniche che possano invertire il corso nefasto degli eventi bellici che infestano i nostri tempi, ad esempio adottando nuovi schemi concettuali, da Patria a Matria.

Domenica, 5 maggio 2024

 10.00-11.00 Testimonianze LGBTQIA: dalla conoscenza di sé alla tolleranza e alla nonviolenza a cura del Gruppo Zaccheo, cristiani LGBT, e del Collettivo cittadine e cittadini per le questioni di genere, Castello di Bisceglie, Largo Castello.

11.15-12-45 Presentazione di libri: “L’obiezione di coscienza tra carcere e volontariato”, Claudio Pozzi, Giulio di Luzio e Vito Micunco dialogano con studentesse e studenti del Liceo “Da Vinci”, Castello di Bisceglie, Largo Castello. Esperienze analoghe di obiezione di coscienza che hanno dato senso all’esistenza di chi le ha praticate. Da un lato la presentazione del libro Uno spicchio di cielo dietro le sbarre contenente il diario dal carcere militare di Gaeta scritto nel 1972 dall’obiettore Claudio Pozzi, dall’altro la presentazione interattiva con l’autore Giulio di Luzio, che racconta la sua personale esperienza di obiettore di coscienza presso la Caritas Italiana di Trani negli anni Ottanta.

10.00-12-00 Workshop a cura di Amnesty International “Gestione del conflitto: passi verso la cultura del consenso”, Sala della Bifora Castello, Largo Castello. Il laboratorio proposto consta di due parti: la prima dedicata ad affrontare i quattro stili di approccio al conflitto, la seconda incentrata sulla gestione del conflitto attraverso attività pratiche svolte in gruppi. Le persone partecipanti saranno chiamate a mettere in pratica tecniche di mediazione per la risoluzione dei conflitti, per poi indagare – attraverso una pratica di mindfulness – il loro personale approccio alla gestione del conflitto, ponendo l’attenzione sulla capacità di gestire e condividere le proprie e le altrui emozioni.

17.30-19.00 Presentazione di libri: “Don Tonino, Alberto Manzi e il sud del mondo”, Elvira Zaccagnino e Daniele Giancane dialogano con studentesse e studenti del Liceo “Da Vinci” Castello di Bisceglie, Largo Castello. Nel 2023, Milagro. Piccolo prodigio di luce, il racconto di don Tonino Bello dedicato all’incontro fortuito con una bambina in Argentina, è diventato un libro accessibile grazie alla traduzione in simboli di Comunicazione Aumentativa Alternativa: una tipologia di scrittura che facilita la lettura da parte di bambini, ragazzi e adulti con disabilità cognitive o difficoltà linguistiche. A partire da questo testo e dal romanzo, ormai introvabile, di Alberto Manzi, La luna nelle baracche, si coglie l’occasione per riflettere sui minori, ma anche sull’America Latina. Le presentazioni rientrano a pieno titolo nel tema del festival: la cultura intesa come non violenza, come segno di riscatto e rivendicazione dei propri diritti.

19.15-20.45 Nazra Short Film Festival, Proiezione di cortometraggi sulla Palestina con Azmii Jarjawi e altri rappresentanti della comunità palestinese, Castello di Bisceglie, Largo Castello. Nazra Palestine Short Film Festival è un progetto di cinema itinerante da e sulla Palestina nato nel 2017 dalla sinergia di diverse associazioni, volontari/e, cittadini/e e appassionati/e di Medio Oriente, di cinema e solidali alla causa. Nazra in arabo significa “sguardo”, l’occhio è il suo logo e il cinema è il suo mezzo. Lo scopo del festival è proprio quello di allargare lo sguardo di quanti conoscono la questione palestinese e di coloro che vogliono avvicinarvisi per le prime volte. L’obiettivo cinematografico fa da filtro e al contempo strumento di resistenza culturale attraverso cui le storie dei e delle Palestinesi vengono raccontate.

21.00 Concerto Cantiere Comune Mediterraneo, Largo Purgatorio.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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