Sì, io ho conosciuto «Papicha»

Recensione di Karim Metref al film “Non Conosci Papicha” di Mounia Meddour.


Non Conosci Papicha” (Algeria – Francia 2019) è il lungometraggio di esordio della regista Mounia Meddour. Uscito negli ultimi giorni nelle sale italiane, il film ha già ricevuto vari premi e riconoscimenti internazionali:  Miglior film arabo al Festival d’El Gouna 2019; premio del pubblico, premio del miglior scenario e miglior attrice protagonista per Lyna Khoudri al festival del Cinema francofono di Angoulême 2019; miglior film e miglior attrice esordiente per Lyna Khoudri ai César 2020. In più della selezione al Festival di Cannes 2019 (in competizione per la sezione “un certain regard”), Festival di Cinema di Philadelphie 2019 (in competizione per il miglior film), e in competizione al Festival internazionale di Cinema di Valladolid 2019… (Vedi scheda di “Non conosci Papicha” su wikipedia)

PapichaNedjma, una papicha pura e dura

Di cosa parla “Papicha” (il titolo originale)? Tratto da fatti realmente accaduti, il film racconta la vita di una papicha algerese all’inizio degli anni 90.

“Papicha” (leggere papiscia) è un modo un po’ scherzoso di chiamare le ragazze nello “slang” giovanile di Algeri. In modo particolare quelle più civettuole, che amano vestirsi alla moda, truccarsi, andare in giro per la città e magari anche flirtare un po’ con i ragazzi. “Papiche” è una specie di nome in codice usato dai giovani per parlare di ragazze senza farsi capire dai grandi.

Nedjma è una papicha abbastanza convinta e orgogliosa di esserlo. Papicha fino al midollo, insomma. Non è una femminista impegnata politicamente. Non lotta, non pensa alla politica, o alla condizione della donna in genere. Si accontenta di vivere a suo modo e nel suo mondo.

Studia lingua e letteratura francese all’Università di Algeri e vive in una di quelle residenze universitarie della periferia che assomigliano più a un lager che a un campus.

Per sfuggire da quel grigiore, insieme a due sue amiche scappa spesso di notte per andare a divertirsi in una delle rarissime discoteche esistenti ad Algeri in quegli anni. In più degli studi, Nedjma ha una passione che vuole trasformare in progetto di vita. Disegna e confeziona dei vestiti da sera per donne. Stilista e sarta autodidatta ma piena di talento, riesce già a piazzare dei suoi modelli in giro, in discoteca o presso alcuni mercanti…

Di questo è fatta la vita quotidiana di Nedjma e di altro non vuole sapere. Il Paese cambia intorno a lei. Ma lei chiude gli occhi, cerca di non vedere i cambiamenti.

Il radicalismo islamico è in piena crescita e molti ragazzi e ragazze aderiscono alle idee fondamentaliste. Gli attivisti si riconoscono per la loro barba mentre le attiviste portano un velo nero integrale, fno ad allora sconosciuto in Algeria.

Ma la loro non è una ricerca di spiritualità. E’ una rivoluzione culturale che vogliono imporre con le buone o con le cattive. Chi non segue il loro modello è un infedele, degno di essere punito, anche con la morte… se necessario.

Un mostro salito dagli abissi

L’Islam politico radicale era come apparso dal nulla, a metà degli anni 80, e in pochi anni si era imposto come corrente politica dominante. I militanti agivano per convinzione, i vigliacchi seguivano per paura, gli opportunisti per ipocrisia. In pochi anni l’Algeria cambia faccia.

Il 12 giugno 1990, Il Fronte Islamico della Salvezza registra una vittoria schiacciante alle elezioni comunali. Il 70% dei Comuni è sotto controllo fondamentalista. Le insegne “Assemblea popolare Comunale” della Repubblica Democratica e Popolare sono già sostituite con le insegne “Comune islamico” della futura repubblica teocratica.

Dopo un anno di tira e molla con il regime, il 26 dicembre 1991 il Fis prende la maggioranza già al primo turno delle elezioni legislative. Al secondo sono sicuri di prendere la maggioranza assoluta.

L’esercito interviene con un colpo di stato e ferma il processo elettorale. Poco dopo scoppia la violenza e comincia una guerra senza nome né volto in cui muoiono centinaia di migliaia di persone, in maggioranza civili inermi.  (Leggere qui sulla scalata vertiginosa del FIS)

E’ in quel periodo che si svolge la storia narrata da “Papicha”. E’ il momento in cui nella coalizione islamista prendono il potere i gihadisti puri e duri. Non si sputa più in faccia, non si danno calci e pugni, né si sfregiano più le facce di chi non obbedisce. Si passa alla liquidazione vera e propria. Si spara!

Ma a Nedjma, tutto questo le scivola addosso come fosse pioggia d’estate. Lei continua a studiare, a divertirsi e a disegnare abiti frivoli. La prima scossa che la sveglia alla realtà è l’assassinio della sorella maggiore, Linda.

Libera da morire

Linda è bella, intelligente, forte, coraggiosa e emancipata. Vive, veste e pensa come vuole. Lavora come giornalista ed è schierata per uno Stato laico. Tutto quello che un integralista non può accettare.

Un giorno, una donna la chiama a casa e la fredda con un colpo di pistola alla testa. Lo choc è immenso per Nedjma che adorava la sorella.

Ma questo brusco risveglio non la spinge né a lasciare il Paese, né ad abbandonare i suoi sogni. Anzi, la sua determinazione cresce ancora di più e decide di organizzare una sfilata di abiti da sera tagliati nel tessuto dei “haiek”, i veli tradizionali di Algeri.  Come se la pesante conca che imprigionava la donna-crisalide del passato si trasformasse in ali per una donna-farfalla del futuro.

Una sfilata che Nedjma e le sue amiche fanno in omaggio a Lynda. La fanno per dimenticarsi del quotidiano sempre più triste e complicato. La fanno per i loro sogni che si infrangono uno dopo l’altro. La fanno nonostante tutto e contro il parere di tutti.

La sfilata si svolge comunque,nella paura e in condizioni difficili, ma si fa, e … come temevano in molti, finisce in bagno di sangue.

Mounia Meddour, figlia del cinema algerino

Papicha è il lungometraggio di esordio della regista Mounia Meddour. Figlia d’arte, il cinema fa parte della sua vita fin dalla nascita a Mosca, dove il padre Azzeddine Meddour, che diventerà poi uno dei più famosi registi algerini, era studente alla facoltà di Cinema.

Prima intraprende studi di giornalismo, ed è solo dopo la morte prematura del padre nel 2000 che si dirige verso studi di cinema.  Ha fatto vari cortometraggi e documentari prima di buttarsi con successo nell’avventura del primo film.

Nata nel 1978, aveva quindi 14 anni nel 1992. Mounia era troppo giovane per aver vissuto in prima persona la vita di Nedjma. Ma era abbastanza grande per ascoltare i racconti delle cugine e amiche più grandi. E poi, anche se in esilio, passò gli anni 90, come tutti noi, con la guerra e i massacri in sottofondo.

Mounia Meddour e le “papiche” alla Croisette.

Papicha, una lezione di Storia

Io invece avevo 25 anni quando scoppiò la guerra. Di papiche ne conoscevo un sacco: sorelle, cugine, amiche, vicine… La storia di Nedjma non è banale. Non è quella di tutte. Questo bisogna sottolinearlo. La maggior parte delle papiche di allora non hanno opposto resistenza. Molte si sono arrese e si sono travestite da “vere musulmane”, alcune si sono nascoste, altre sono andate via… Come lei ce n’erano veramente poche… ma c’erano. Donne che non si sono velate, non si sono sottomesse e non sono scappate, non hanno ceduto al ricatto e molto spesso hanno pagato con la vita.

La storia di papicha è una lezione di Storia. una lezione per tutti, su come molto spesso noi rimaniamo a guardare mentre perdiamo dei diritti che fino al giorno prima sembravano acquisiti per sempre.

Una lezione di Storia che soprattutto le papiche degli anni 90 (che oggi hanno più di 50 anni) dovrebbero raccontare più spesso a quelle di oggi che dicono che il velo sia il simbolo della loro “libertà”.

Certo che nessuno deve obbligare una donna convinta o meno a togliersi il velo. Nessuno deve obbligare una donna a fare qualsiasi cosa, né a coprirsi né a scoprirsi. E se un poliziotto francese, forte di un decreto stupido, dettato da un ministro stupido, di un governo stupido, obbliga una donna marocchina a togliersi il velo per stare sulla spiaggia… quella è una violazione della libertà e vale esattamente come l’obbligo, che impongono le guardie religiose in Iran o in Arabia Saudita, di coprirsi la testa.

La lezione di Papicha per le ragazze del velo “identitario” è che sì, siete libere di portarlo se lo volete. Ma quel velo non è la vostra tradizione. Non è la vostra religione. Non è la vostra identità. Ma soprattutto non ha niente a che fare con la vostra libertà. Ma proprio niente.

Un film da vedere

Ma aldilà delle lezioni di Storia, Papicha è un film. Una bella storia. Raccontata in modo semplice e lineare. Come nella tradizione del migliore cinema algerino, senza artifici né fronzoli. C’è una fotografia sobria, riprese senza effetti. Ci sono attrici e attori, esordienti o amatori, ma favolosi. Veri. Come sono vere le ambientazioni che rendono fedelmente la scenografia della vita quotidiana del popolo algerino: casa, università, negozi, mezzi di trasporto… niente è abbellito, niente è truccato.  Il ritmo veloce del racconto rende abbastanza bene l’idea del modo in cui tutto precipitò in pochi mesi. Come ci è cascato il mondo addosso senza che ce l’aspettassimo.

Papicha è un film semplice ma bello. Un film che salva la memoria su fatti terribili,  successi 30 anni fa, ma che continuano ad avvelenare la nostra vita, ancora oggi.

Da vedere assolutamente, per ricordarsi, per sapere o per non dimenticare, … o semplicemente per godersi un’ottima serata al cinema.

Karim Metref
Sono nato sul fianco nord della catena del Giurgiura, nel nord dell’Algeria.

30 anni di vita spesi a cercare di affermare una identità culturale (quella della maggioranza minorizzata dei berberi in Nord Africa) mi ha portato a non capire più chi sono. E mi va benissimo.

A 30 anni ho mollato le mie montagne per sbarcare a Rapallo in Liguria. Passare dalla montagna al mare fu un grande spaesamento. Attraversare il mediterraneo da sud verso nord invece no.

Lavoro (quando ci riesco), passeggio tanto, leggo tanto, cerco di scrivere. Mi impiccio di tutto. Sopra tutto di ciò che non mi riguarda e/o che non capisco bene.

7 commenti

  • La lezione di Papicha per le ragazze del velo “identitario” è che sì, siete libere di portarlo se lo volete. Ma quel velo non è la vostra tradizione. Non è la vostra religione. Non è la vostra identità. Ma soprattutto non ha niente a che fare con la vostra libertà. Ma proprio niente e aggiungo questo il loro fare che credono libero, parlo ovviamente di quelle che vivono in occidente, condamna milioni di donne sparse per il mondo costrette loro malgrado a portarlo senza scelta alcuna..

    • Sì Ouarda. Infatti ci sono ancora milioni di donne che vorrebbero toglierlo o non metterlo e che sono costrette. Questo, quelli del velo-identità o ancora peggio velo-libertà non lo sanno o non lo vogliono dire.
      Ma non caricherei tutta la responsabilità sulle fragili spalle delle povere ragazze dell’immigrazione. loro sono prese tra due fuochi il maschilismo e il razzismo… Non è facile scegliere tra la giustizia e la propria madre, come diceva Camus.

  • Francesco Masala

    ho visto il film con occhiali diversi di quelli di Karim:

    https://markx7.blogspot.com/2020/08/non-conosci-papicha-papicha-mounia.html

  • Tutte le papicha che si sono nascoste sotto il velo, o sono andate via… è una storia comune delle donne, che NON si adattano, ma non pensano di poter cambiare qualcosa di più grande di loro attraverso una insurrezione. Il tempo è lungo, e le papicha trasmettono quanto è necessario alle nuove generazioni.

    • Cara Cris.
      Io credo che “Una storia comune” non esiste. Nel raccontare che alcune si sono arrese e altre np, non c’è nessun giudizio da parte mia. Quelle che si sono nascoste o sono scappate sono milioni e hanno milioni di ragioni diverse. Alcune hanno raccontato altre non raccontano. Non hanno bisogno di essere giustificare. Perché nessuno le accusa di niente. L’importante è quello che si farà d’ora in poi. Perché la strada è ancora lunga. Il film di Mounia dice, secondo me, a quelle che non hanno raccontato: “è ora di farlo”.

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