«Terror Studios»

Il documentario di Alexis Marant che analizza la propaganda di Daesh

di Monica Macchi (*)

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                                        Il cuore del Califfato non è strutturato

intorno a una caserma o a un pozzo di petrolio

ma a un media center

Zyad, ex cameramen Daesh

Il jihad mediatico è metà della battaglia

Al Zawahiri

Due società di produzione (al Furqan e al hayat in 15 lingue…compreso il linguaggio dei segni), 35 uffici (di cui 16 in Sinai e 19 nel Bilad al-Sham), un migliaio di contenuti per bambini e per le donne veicolati ogni mese, 50.000 account twitter e mujatweet quotidiani, una radio, un palinsesto con video ispirati ai videogame per il proselitismo e l’arruolamento più docufilm sui soldati ispirati ai film d’azione hollywoodiani: ecco i numeri della propaganda Daesh.

A Raqqa c’è un centro multimediale dove un manipolo di nativi digitali che conoscono benissimo i codici della cultura pop occidentale creano script che non raccontano la realtà ma la mettono in scena con un’altissima qualità della strumentazione: fotografia, luci, software di montaggio e colonna sonora. Come esempio viene analizzato il video di Al Casasbeh, il pilota giordano bruciato vivo nella gabbia: quattro telecamere seguono la vittima che vaga per le strade deserte di Raqqa sotto lo sguardo di miliziani in divisa in 3D quando compaiono fiamme digitali e foto di civili che Al Casasbeh avrebbe bruciato e subito dopo per contrappasso con colori saturi e suoni evidenziati gli viene dato fuoco (secondo Zyad a bruciarlo è stato Al Adnani, emiro di Daesh per la Siria). Per dimostrare la tesi di fondo del documentario e cioè che l’immaginario del terrore di Daesh usa storytelling che si richiamano esplicitamente a personaggi e simboli dell’immaginario occidentale a questo video viene giustapposta la scena finale del capitolo dedicato all’ira nel film «Seven» dove Brad Pitt sta per giustiziare Kevin Spacey.

Il documentario si snoda così in un continuo rimando tra video di propaganda e le fonti di ispirazione: non solo film (oltre a «Seven» citazioni anche per la saga di «Saw» e «Kingdom of heaven» di Ridley Scott) ma anche riferimenti ai reality show (particolarmente inquietante il parallelismo tra Survivor con i concorrenti in costume sulla spiaggia in colonna e i foreigh fighters in tuta mimetica nella stessa identica posizione), ai videogiochi e alle serie tv (a Hollywood l’estremista musulmano è il nuovo cattivo da odiare e in un episodio della quinta stagione di «House of Card» il presidente Usa è costretto a guardare l’esecuzione di un prigioniero in tuta arancione). C’è poi il fenomeno dei report fighters: su caschi e armi vengono montate mini-telecamere per raccontare le battaglie in soggettiva e poi si passa al montaggio con l’utilizzo di continui slow motion che enfatizzano i momenti clou.

Si tratta quindi di una strategia di comunicazione articolata e accattivante diffusa capillarmente via web con budget pressoché illimitati ricavati non più da donazioni come era per Al Qaeda ma da traffici illeciti (racket, sequestri, contrabbando di petrolio, traffici archeologici e droga): un’associazione criminale più che religiosa.

(*) ripreso da «Per i diritti umani»

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