The Congress – recensione

Un articolo di Riccardo Dal Ferro.

Immagina un quindicenne le cui fantasie siano on-demand: 25 euro con versamento diretto PayPal e potrai avere Scarlett Johansson nella tua testa per la prossima ora. Potrai avere la tua fantasia, che però non è proprio tua, con un semplice click.

Ari Folman attinge sapientemente dallo splendido “Il Congresso di Futurologia” di Stanislaw Lem e ricombina gli elementi visionari del narratore polacco in questa pellicola inquietante, abissale e onirica.

La chimica ci sequestra i sogni, cripta le fantasie e l’immaginazione, fino a rendere impossibile la felicità senza l’uso di una fiala che contiene il succo della tua star preferita, del tuo idolo, del tuo stesso sogno. La farmacologia, in questo film, prende le forme di un nuovo Oracolo che permette a ogni uomo e donna del pianeta di scegliere tra una realtà sofferente e una simulazione artificiale ma beata. Un po’ come Matrix, ma senza tutte le turbe psichiche dei (pardon, delle) Wachowski.

Il regista di “The Congress” però non si limita a trasporre il racconto di Lem, ci mette realmente qualcosa di più: il cinema. Proprio da lì inizia, o meglio finisce tutto, proprio dal luogo in cui ogni confine tra realtà e immaginazione ha cominciato a svanire, a partire dalla vita della protagonista (una bravissima Robin Wright nei panni di se stessa) che deve scegliere se restare se stessa (ma cosa significa poi “restare me stesso”?) svanendo nel nulla, oppure affidarsi al simulacro digitale per continuare ad essere immortale.

Il colpo di genio che crea uno scarto importante rispetto al racconto di Lem sta proprio lì: il passaggio dal digitale alla chimica, come se fosse un passo obbligato. Dalla simulazione all’iper-realtà, come ci direbbe Baudrillard: si passa dall’essere, all’essere-digitale, al non-essere-che-chimica. Il materialismo trionfa, le fantasie e l’immaginazione diventano prodotti commerciali, la personalità, la mente e la coscienza si trasformano in un ricordo sbiadito del tempo in cui eravamo corpi, donne, uomini, esseri. Robin Wright diviene una fiala per concretizzare le fantasie della gente, assuefatta all’iper-realtà della chimica dittatoriale.

Qui Lem viene preso e messo a confronto con la contemporaneità (ai suoi tempi “digitale” non avrebbe significato nulla), e unendo la chimica alla simulazione computerizzata ecco che la fantascienza de “Il Congresso di Futurologia” diviene d’un tratto un dipinto verosimile di ciò che il nostro mondo sta lentamente diventando: il simulacro dei nostri desideri, dipinti attraverso il progetto chimico dei nuovi oracoli del mondo.

La ricerca di un figlio perduto, il riconoscimento di un vecchio amico mai dimenticato, il desiderio di poter contare ancora qualcosa e di poterne “fare” qualcosa di questo mondo infame, tutto questo diventa opaco se messo a confronto con la possibilità di trasformarsi nel proprio desiderio più sfrenato.

Il futuro raccontato da Folman è, se possibile, ancora più buio rispetto a quello narrato da Lem. Proprio perché questo binomio materialista digitale-chimico sembra quasi a portata di mano, sembra poter spegnere ogni nostra incertezza, ogni nostra paura. Il passo dallo psicofarmaco alla simulazione, poi dalla simulazione all’iper-realtà chimica sembra così vicino che il mondo ormai, senza far più paura, ci trasforma nei terrori dei nostri incubi.

Noi stessi diventiamo la paura del mondo.

Riccardo DAL FERRO

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