Tre tappe d’un viaggio in Palestina

di Mariella Setzu   (*)

1.

Palestina, terra immaginata, terra delle religioni, dove si è svolta la vita di Gesù, e dove si è concentrata la nostra attenzione per comprendere meglio la situazione del popolo palestinese schiacciato dall’occupazione israeliana, con la complicità dei principali attori internazionali.

Finalmente ho avuto modo di andarci, grazie a Luisa Morgantini, e grazie al fatto che quest’anno, per mia scelta, sto lavorando part-time.

A partire da sabato 19 aprile è stata una settimana di incontri molto intensi, in luoghi assai diversi, anche se a poca distanza, come il Freedom Theatre di Jenin e il campo profughi di Balata, che si son svolti ambedue nella giornata di sabato. Sul campo di Balata, 1 kmq di superficie con 29.000 abitanti (di cui il 70% ha meno di 29 anni e il 50% meno di 18), il più popoloso e attivo della Cisgiordania, grava una comprensibile cappa di stanchezza. All’inizio questo campo ospitava 5000 profughi provenienti da Jaffa; fu creato subito dopo la guerra del 1948-’49. Balata, che ha visto l’inizio della prima e della seconda Intifada, ora ha un alto tasso di disoccupazione, 56%, e la chiusura delle prospettive per il futuro della sua popolazione giovane. Il direttore del Centro culturale, Mahamud Subuh, ci parla di una realtà molto dura. Malgrado l’impegno politico messo in campo qui la gente ha sperimentato sulla propria pelle che i discorsi sui diritti umani non riguardano i palestinesi. Frustrazione e impotenza aumentano sempre di più. Anche le scuole diventano campi di battaglia perché sta sfumando il ruolo dell’istruzione nella promozione sociale.

Il campo di Balata è passato attraverso esperienze tremende, durante la seconda Intifada è diventato una prigione, fu circondato, ed era per lo più sotto coprifuoco. Il periodo più lungo è stato 100 giorni; ogni tre giorni di coprifuoco c’erano due ore per uscire e procurare generi di prima necessità. 246 persone furono uccise, la maggior parte civili. Tuttora da quel periodo ci sono ancora 200 persone nelle carceri israeliane (che sono 17 e tutte si trovano in territorio israeliano anche questo in violazione degli accordi internazionali). Mahamud accenna anche al fallimento delle trattative in corso fra israeliani e palestinesi, in cui perfino gli Usa hanno riconosciuto la responsabilità di Israele che non vuole fare la minima concessione.

Nella sede del Centro culturale consumiamo un pranzo veloce fatto di schiacciatine di pane con timo ed erbe aromatiche. Il timo mi ricorda varie cose, anzitutto i profumi della mia Sardegna, poi il campo profughi di Tal el Za’tar (za’tar vuol dire timo) in Libano, che subì un tremendo eccidio della sua popolazione. Mi ricorda anche un libro di Gianluca Solera che ho letto e vi consiglio, Muri lacrime e za’tar. Storie di vita e voci della Palestina».

2.

Ora eccoci al Freedom Theatre di Jenin, fondato sull’eredità di Arna Mer Kamis, un’israeliana sposata con un palestinese e anche con la causa palestinese. Il suo Teatro delle pietre, così lo aveva chiamato all’inizio, doveva essere un modo per cercare di «rovesciare la piramide dal basso», attraverso la cultura. Gli oppressori cercano sempre di distruggere la cultura dell’oppresso e creare divisioni: il Freedom Theatre crea cultura e unità, quindi è parte del mosaico della resistenza palestinese. Juliano, il figlio di Arna, raccolse quel progetto e continuò a lavorare.

Luisa ci presenta Nabeel Raee, il direttore, che ci parla del teatro attraverso i suoi incontri con alcuni protagonisti della resistenza palestinese. Ci dice che cultura, politica, salute sono tutte questioni connesse. Ci parla di Juliano e della sua visione del teatro: «benvenuto nella rivoluzione» fu il saluto di Juliano quando Nabil si unì al teatro.

Rivoluzione è anche per le ragazze, che nel teatro possono mettere in questione le limitazioni imposte allo stile di vita delle donne: rivoluzione è per chi ha subìto i traumi del conflitto, perché trova una via per esprimerli e curali.

Juliano fu ucciso il 4 aprile 2011 e dopo molti membri del teatro furono arrestati; eppure l’anno successivo ci sono state 6 produzioni. Attualmente ci sono 17 studenti del teatro, di cui 3 ragazze. Raggiungono il titolo dopo tre anni di studi.

Prendono la parola Aduan, direttore tecnico, e due studenti. Dicono fra l’altro che per loro l’Italia è un posto speciale – forse, ho pensato io, grazie a Vittorio Arrigoni e ad altri attivisti – ma come dimenticare che l’Italia è un formidabile partner commerciale dello Stato d’Israele con cui ha stipulato accordi anche nella cooperazione militare? I ragazzi sono pieni di passione per i loro studi teatrali e sentono di poter dare validi contributi. Non vengono solo da Jenin, ma anche da altre parti. Anche le famiglie accettano e sostengono il teatro.

Non visitiamo il campo profughi di Jenin per motivi contingenti. Il campo fu praticamente raso al suolo dall’esercito israeliano nel 2002, durante la seconda Intifada, e la bandiera palestinese fu vietata. Ricordo il formidabile documentario «Jenin, Jenin» di Mohamed Bakri (proiettato in una delle rassegne cinematografiche di Al Ard a Cagliari) che fu boicottato nei circuiti commerciali. Allora – ci racconta Luisa Morgantini – l’anguria assurse al ruolo di bandiera, a causa dei suoi colori, rosso, verde, bianco, nero, che son quelli della bandiera palestinese. In testa ai cortei c’era chi mostrava angurie spaccate in due.

L’anguria era un prodotto tipico di Jenin, ora se ne producono poche a causa del taglio dell’acqua attuato dal governo israeliano per città, villaggi e campi profughi palestinesi.

3.

Il pomeriggio del 19 aprile visitiamo la città di Nablus non distante; Wajdi Ayash e Ali Noban son le nostre guide e ci mostrano il centro storico e in particolare i luoghi colpiti dall’operazione militare israeliana «scudo difensivo» nell’aprile 2002, durante la seconda Intifada. I soldati sparavano dai tetti e non era neanche possibile soccorrere i feriti che morivano dissanguati. Gli israeliani entravano nelle case non dalla porta ma sfondando i muri. C’è stata la distruzione di molte fabbriche di saponi, tipica produzione di Nablus. Molti muri della città portano targhe e foto in memoria degli uccisi dalle incursioni militari.
Luisa Morgantini ci racconta che andò a Nablus con una delegazione del Parlamento europeo proprio durante quell’operazione militare e là incontrò Wajdi, ora direttore dell’organizzazione Human Rights Supporters, sostenuta da Assopacepalestina e nata da quei ragazzi e ragazze che Luisa ha chiamato «gli angeli di Nablus», giovani volontari che in quei giorni tremendi sono stati attivi nel servizio ambulanze soccorrendo i feriti e portando cibo e medicine agli anziani costretti a restare chiusi in casa.
Durante il nostro giro a Nablus un gruppo di ragazzi si unisce a noi: sono di Human Rights Supporters. Andiamo a trovarli nel loro centro culturale che ha molte attività: musica, danza, spettacolo. Là incontriamo Faten Niree del Working Women Commitment, associazione che parte dall’impegno delle donne lavoratrici: per loro e per la vita del centro culturale la politica è un interesse fondamentale. Assistiamo a coreografie di break dance e di tipo più tradizionale, realizzate da ragazzi e ragazze molto bravi. Ci regalano una bellissima raccolta «Voice of Kids» di poesie scritte da bambine e bambini.
La mattina del 20 aprile, giorno di Pasqua, alle 9 stiamo arrivando al villaggio di Bili’n, fra zona B e zona C, piena di insediamenti e di militari. Ricordo che gli accordi di Oslo hanno previsto tre zone per la Cisgiordania: zona A amministrata dai palestinesi, zona B in cui il controllo è misto (ai palestinesi l’amministrazione, agli israeliani la polizia e i soldati) e zona C, cioè il 92% della Cisgiordania, controllata interamente dagli israeliani. La zona C doveva tornare all’amministrazione palestinese entro il 1999, ma questo non è mai successo. Al contrario in questa zona aumentano gli insediamenti dei coloni e vaste aree sono adibite a esercitazione militare, mentre nella valle del Giordano si vogliono evacuare i palestinesi.
Incontriamo Mohamed Alkhateeb – dei Comitati popolari per la resistenza non violenta – che ci racconta della loro lotta contro il muro e contro gli insediamenti che si spingevano sino a inglobare case del villaggio. Attraverso azioni legali e 6 anni di manifestazioni non violente e continui arresti sono riusciti ad ottenere dalla Corte suprema israeliana che il tracciato attuale del muro fosse modificato perché illegale. Il muro è stato costruito più lontano, vicino a un fitto insediamento in corso di costruzione, e il villaggio ha recuperato un ampio terreno (da cui l’esercito aveva sradicato gli ulivi secolari) che sta diventando un parco pubblico con zone coltivabili.
Il progetto di costruzione di quella colonia (illegale) non è andato avanti perché l’azienda costruttrice nel 2007 ha fallito, grazie agli ostacoli che gli attivisti del villaggio hanno frapposto per un anno e mezzo.
Ci avviciniamo ad aiuole dove dalle moltissime bombolette di lacrimogeni sono stati ricavati dei portafiori. Un cartello reca la foto di un giovane – Bassem (che significa sorriso) – colpito proprio in quel luogo da un soldato con cui cercava di parlare per poter portare soccorso a una donna colpita davanti a lui. Percorriamo la china e andiamo a vedere il muro, enorme, preceduto da una trincea e da filo spinato. Dietro c’è l’insediamento che avanza. Per terra molti candelotti di lacrimogeni, qualcuno inesploso.
Mohamed ci fa fare una sosta a casa sua e ci offre il tè. Qui Luisa Morgantini ci presenta un ragazzo liberato il giorno prima, Mohamed Abu Rahme: era stato arrestato durante le manifestazioni contro il muro e l’insediamento, tenuto in isolamento incatenato mani e piedi per un mese, poi rilasciato perché non hanno trovato imputazioni nei suoi confronti.

Redazione
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