Un’Italia da cui scappare

  • Mario Sommella ragiona sull’impietoso Rapporto «Italiani nel mondo 2025» della Fondazione Migrantes

La patria rovesciata: quando l’Italia diventa un Paese da cui scappare

Ci fu un tempo in cui l’Italia era il luogo in cui si arrivava per cercare fortuna. Oggi i numeri raccontano un Paese che si guarda allo specchio e scopre che uno su nove dei suoi cittadini vive oltre confine. È la fotografia impietosa del Rapporto Italiani nel mondo 2025 della Fondazione Migrantes: 6,4 milioni di italiani all’estero, più degli stranieri che vivono in Italia, circa 5,3–5,4 milioni.
Non è solo una statistica. È il segno di una nazione che non riesce più a promettere un futuro stabile a chi ci nasce e a chi ha scelto di diventarne cittadino.

I numeri di una fuga strutturale

Nel 2024 si sono iscritti all’Aire per espatrio oltre 123 mila cittadini italiani, 34 mila in più rispetto all’anno precedente, con un incremento vicino al 40 per cento. Nel biennio 2023–2024 gli espatri di italiani hanno raggiunto quota 270 mila, mai così tanti negli ultimi dieci anni.
Nello stesso periodo crescono anche le immigrazioni straniere, ma il dato che colpisce è un altro: la crescita della “ventunesima regione”, l’Italia fuori dall’Italia, è più rapida di quella della popolazione straniera residente nel Paese.

Se nel 2019 emigrati italiani e immigrati stranieri si attestavano entrambi intorno ai 5,3 milioni, oggi gli italiani all’estero hanno superato di circa un milione gli stranieri presenti in Italia.
La retorica dell’“invasione” viene rovesciata dai fatti: il problema non è un eccesso di arrivi, ma un eccesso di partenze.

Chi se ne va: la meglio gioventù e i nuovi italiani

Non sono solo “cervelli” in senso accademico, ma il cuore vivo del Paese: giovani, giovani adulti, famiglie in età lavorativa. In poco più di vent’anni la quota di laureati tra gli emigrati di 25–64 anni è passata da meno del 15 per cento a oltre il 40 per cento, e tra i 25–39enni arriva ormai a sfiorare la metà.
In dieci anni, secondo analisi basate su dati Istat, quasi 100 mila giovani laureati tra i 25 e i 34 anni hanno lasciato l’Italia, con oltre 21 mila partenze nel solo 2023 e una crescita superiore al 20 per cento in un anno.

C’è poi un dato spesso rimosso: l’emigrazione degli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Tra il 2014 e il 2023 più di 1 milione e 576 mila nuovi italiani hanno lasciato il Paese dopo aver ottenuto il passaporto. Un espatriato su cinque è un “nuovo italiano”, spesso di origine brasiliana o bangladese, che prima ha creduto nel progetto di integrazione e poi ha scelto di ripartire altrove.

Questo significa che l’Italia non solo non riesce a trattenere i propri figli, ma non riesce nemmeno a convincere chi l’ha scelta come seconda patria a costruire qui il proprio futuro. È un doppio fallimento di sistema.

Geografie di una desertificazione sociale

La nuova emigrazione non è uniforme. Il Sud resta la grande area di partenza, con la Sicilia che guida la classifica delle regioni con più residenti all’estero, seguita da Lombardia e Veneto. Ma a muoversi non sono solo le periferie storiche dello sviluppo: crescono i flussi anche da regioni di medio e alto reddito come Veneto, Lombardia, Toscana, con variazioni annuali che toccano e superano il 7–9 per cento degli iscritti all’Aire.

Ad andarsene sono soprattutto giovani e famiglie dei piccoli comuni, delle aree interne, dei territori già colpiti da spopolamento e crisi demografica. Nel frattempo, Istat registra per il 2024 un nuovo minimo storico delle nascite, 370 mila in tutto il Paese, con un tasso di fecondità sceso a 1,18 figli per donna.

Il risultato è un’Italia che si restringe due volte: meno bambini che nascono, più giovani che se ne vanno. Nei paesi dell’entroterra, nei quartieri popolari, nelle città del Sud, la combinazione tra calo demografico ed emigrazione produce una vera desertificazione sociale, fatta di scuole che chiudono, servizi che vengono ridimensionati, interi pezzi di territorio abbandonati alla speculazione o al degrado.

Perché si parte: salari bassi, welfare stanco, orizzonte corto

La retorica del “siamo un popolo di migranti” non basta a spiegare questa ondata. Chi parte oggi non lo fa per spirito di avventura, ma per la necessità di trovare un salario dignitoso, un sistema sanitario che curi invece di respingere, un welfare che non scarichi su famiglie e donne tutto il peso dell’assistenza.

I dati sui redditi e sui salari sono inequivocabili. Secondo Eurostat e analisi recenti, la retribuzione media in Italia è stabilmente inferiore alla media europea. Nel 2023–2024 l’italiano medio percepisce circa 35–36 mila euro lordi l’anno, ben al di sotto dei quasi 45 mila della Francia e dei livelli ancora più alti della Germania.
Non è solo una differenza fotografica, ma una questione di dinamica: dal 2000 al 2023 i salari netti in Italia sono cresciuti molto meno che negli altri grandi Paesi dell’Unione, allargando il divario e alimentando la sensazione che “qui non si va avanti mai”.

Per i neolaureati, l’ingresso nel lavoro significa spesso contratti a termine, stipendi che non reggono il costo degli affitti nelle grandi città, impossibilità di pianificare una famiglia o un progetto di vita autonomo. Anche laddove gli studi mostrano retribuzioni di ingresso attorno ai 30 mila euro lordi, il confronto con le capitali europee resta impietoso se si sommano stabilità del posto di lavoro, servizi e qualità del welfare.

A questo si aggiunge un sistema sanitario sottofinanziato, pronto soccorso al collasso, liste d’attesa interminabili, servizi sociali frammentati. Per molte e molti, l’idea di restare significa accettare una lenta rinuncia a diritti che altrove sono considerati basilari.

La retorica della “sostituzione etnica” e lo strabismo della politica

Il Rapporto Migrantes dice con chiarezza ciò che la politica italiana, soprattutto quella di governo, si ostina a negare: il vero “problema demografico” del Paese non è l’immigrazione, ma l’emigrazione.

Mentre le destre agitano la teoria tossica della “sostituzione etnica” e una parte del centrosinistra rincorre le narrazioni securitarie, l’Italia perde pezzi della propria popolazione reale, in carne e ossa, che sceglie altre bandiere, altre lingue, altri sistemi di welfare. I numeri rovesciano la propaganda: non sono “gli altri” a sostituire gli italiani, sono gli italiani a sostituire il proprio Paese con un altro.

In questo quadro si inserisce quello che lo stesso presidente di Migrantes, Gian Carlo Perego, definisce uno “strabismo legislativo”: si blocca di fatto lo ius soli e lo ius scholae, mentre quasi un milione di bambini stranieri crescono e studiano nelle scuole italiane senza essere riconosciuti come cittadini.
Poi, quando una parte di loro acquisisce la cittadinanza, molti scelgono di emigrare lo stesso. È il paradosso di un Paese che chiede di “integrarsi” ma non offre una prospettiva concreta di vita dignitosa.

Una scelta razionale, non una fatalità romantica

La Fondazione Migrantes invita a superare il linguaggio del trauma e della tragedia per leggere la mobilità come scelta razionale dettata dalla necessità. Non è la nostalgia del passato a guidare questa diaspora, ma un freddo calcolo costi–benefici.

Chi se ne va valuta:
• quanto guadagnerà oggi e tra dieci anni
• che scuola avranno i figli
• quanto pagherà un affitto o un mutuo
• che risposta otterrà dal sistema sanitario in caso di bisogno
• che margini avrà di partecipare alla vita pubblica, di contare qualcosa

L’Italia, semplicemente, in questo confronto perde. Non perché manchi il talento, la cultura, la capacità produttiva, ma perché le scelte politiche degli ultimi decenni hanno smontato pezzo dopo pezzo gli strumenti collettivi che garantivano mobilità sociale, diritti, redistribuzione.

Invertire la rotta: serve un cambio di paradigma, non un bonus

Se uno su nove italiani vive all’estero, il tema non è più solo sociale o economico. È costituente. Quale Paese vuole essere l’Italia nel XXI secolo: una piattaforma di transito per capitali e turisti, o una comunità che investe su chi ci vive e lavora?

Invertire la rotta non significa lanciare l’ennesimo “bonus rientro” per pochi profili altamente qualificati, ma intervenire sui nodi strutturali:
• aumentare stabilmente i salari, a partire da un salario minimo legale che eviti dumping interno e lavoro povero
• finanziare davvero scuola, università e ricerca, non come capitoli residuali ma come assi di una strategia industriale di lungo periodo
• ricostruire un welfare territoriale, con sanità pubblica accessibile, servizi per l’infanzia, sostegni all’abitare, soprattutto nelle aree interne e nel Mezzogiorno
• riconoscere pieni diritti di cittadinanza a chi cresce in Italia, superando lo strabismo tra ius sanguinis rigido e blocco di ius soli e ius scholae
• costruire politiche di rientro che non siano solo fiscali, ma offrano percorsi professionali credibili, ricerca finanziata, imprese innovative non schiacciate da precarietà e subappalto

Serve anche ribaltare lo sguardo sulla diaspora: non vederla come un corpo estraneo da convocare solo al momento del voto, ma come parte integrante della comunità politica, portatrice di competenze, relazioni, visioni del mondo che potrebbero arricchire il Paese invece di allontanarlo ancora di più.

Conclusione: la scelta collettiva che incombe

Quando milioni di persone, tra cui la parte più scolarizzata e dinamica della popolazione, scelgono di andare via, il messaggio è chiaro: la società non offre più sufficiente senso di futuro. Non è una colpa individuale, ma il risultato di scelte politiche e di un modello economico che ha accettato la precarietà come destino.

Il nuovo record di partenze non è solo un dato “inquietante”. È il segnale che l’Italia è a un bivio. O continua a raccontarsi favole identitarie mentre si svuota, oppure mette al centro del proprio progetto nazionale il diritto a restare, a tornare, a costruire qui una vita degna.

  • Perché una patria che esiste solo come ricordo nelle foto all’aeroporto, e sempre più come indirizzo Aire, smette di essere un Paese. E diventa, lentamente, un luogo che si attraversa, ma in cui sempre meno persone scelgono davvero di vivere.

(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com .

Le immagini, come sempre sono scelte dalla redazione: abbiamo rubato le vignette a Chief Joseph e Vauro perché ci sembrava che esemplificassero alcuni punti dolenti per chi “fugge dall’Italia”. Quella di Moi è nuova mentre la foto, invece… beh ci siamo capiti.

Redazione
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