De Giovanni, Giménez-Bartlett, Hideo, Lepore, due McBain e Oliva

7 recensioni (6 giallo-noir e una di speculative fiction) di Valerio Calzolaio

Marilù Oliva

«Le spose sepolte»

HarperCollins

Monterocca, Appennino bolognese. Aprile scorso. All’ultimo censimento il paesino aveva 7.098 abitanti, solo 2.321 maschi. Da oltre quindici anni vi era iniziato, infatti, un esperimento democratico: dimostrare che il buon governo è realizzato meglio dalle donne. Così, il consiglio comunale e la giunta sono a larga prevalenza femminile; i principali incarichi pubblici vengono affidati a donne; si vota spesso su singole questioni tramite forum pubblici, a esempio a chi intitolare le strade, e finora la scelta cade sempre su donne da commemorare; l’economia risulta quasi autosufficiente con forte indirizzo ecologico; ricevono molte richieste di trasferimento e autogestiscono un regolamento per cui chi affitta o compra deve non avere sentenze penali né essere troppo facoltoso, includendo due profughi ogni tanto. Il nome Monterocca deriva da un antico bastione trecentesco arroccato su un pendio, presto fagocitato dal bel bosco. Le case sono tutte all’interno delle mura, con un solo punto di accesso, custodito, e il divieto di circolazione per ogni veicolo a motore (si va coi tre pulmini comunali, oppure a piedi, in bici, coi pattini). L’agglomerato urbano è un ovale lungo circa tre chilometri, tagliato in due parti (non proprio uguali) da un viale: comincia dalla porta trecentesca di accesso, a destra le abitazioni in bioedilizia dipinte con fantasia, e poi i calanchi, a sinistra altre abitazioni con orti, gli edifici pubblici, e poi le colline; finisce sulle sponde di un lago artificiale (due architette norvegesi), inaccessibile altrimenti. Anche i tre poliziotti in arrivo da Bologna devono lasciare la volante nel largo parcheggio all’aperto, stanno indagando sull’omicidio Cionti, drogato (prima di essere ucciso) con un siero della verità prodotto in via sperimentale proprio a Monterocca. Si susseguono altre morti, sempre uomini la cui moglie era scomparsa anni prima; c’è un serial killer che vendica donne probabilmente uccise. E infatti qualcuno ora avvisa la polizia su dove si trovano i resti.

L’insegnante di lettere Marilù Oliva (Bologna, 1972) ha raggiunto ormai la soglia dei dieci romanzi (dal 2009) oltre a tutta una serie di altre pubblicazioni. Il titolo del nuovo bel turbinante giallo richiama la sostanza della triste storia: spose uccise da sposi senza che siano stati scoperti e che siano state degnamente sepolte. L’ambientazione nella sperimentale Città delle donne non vuole essere né fiabesca né apologetica, prendiamola come un luogo (purtroppo) inventato per un’indagine su crimini di femminicidio ispirati a tanti fatti di cronaca. La narrazione è in terza varia, un quarto dei circa sessanta brevi capitoli narra in corsivo un’altra storia mesta: una piccola racconta in prima persona l’antico assassinio della propria madre, quando aveva 5 anni, da parte del padre e della bella bambinaia complice. La protagonista è l’ispettore capo Micol Medici, trentenne snella per un metro e sessantatre, tanta memoria e ragionamenti matematici, un fidanzamento in via di esaurimento, lunghi capelli ricci o occhioni color ambra, un vistoso sfregio cicatrizzato nella parte inferiore della guancia; con lei un superiore, il commissario Elio, alto biondo cinquantenne, e lo zelante coetaneo sovrintendente Antonio. Incontrano necessariamente tanti interessanti monterocchesi, l’attempata malata sindaca esclude possa esserci il colpevole, anche lei fa il suo mestiere politico e istituzionale. Nella contrada è comunque presto evidente che ogni abitante che incontrano nasconde qualcosa, anche il paese è oggetto di continue progressive scoperte. Molto confermerà che non sono tanto le singole donne migliori dei singoli uomini (animi feroci e dinamiche crudeli prescindono dai generi), quanto e bensì un sistema maschilista sempre e comunque peggiore di tutto. Difficile smentirlo. S’imparano metodi officinali di morte a pag. 272. E si discute con garbo di cosa sia “naturale”, di pro e contro rispetto alla vivisezione. Altoparlanti trasmettono buona e solida musica, spesso ben attempata. Incombe il pignoletto.

 

Maurizio de Giovanni

«Souvenir per i Bastardi di Pizzofalcone»

Einaudi

332 pagine, 19 euro

Napoli e Sorrento. Ottobre 2017 (e primavera 1962). Nell’area del cantiere della metropolitana dell’ex piazza Santa Maria degli Angeli all’alba trovano un uomo robusto pestato a sangue: ecchimosi, tibia fratturata, costole rotte; sopravvive ma resta in coma. Non ha documenti né cellulare, l’identificazione è pure abbastanza rapida, dalla foto sul sito di un giornale di Sorrento i poliziotti del commissariato riconoscono Ethan Wood, un americano scomparso il giorno prima. Era in vacanza con la sorella Holly, la famosa anziana madre e l’infermiera badante diplomata Beth in un lussuoso hotel dell’incantevole cittadina. Sembrava alla ricerca di qualcuno ma nessuno pare sapere di chi e perché. È il figlio della bellissima attrice Carlotta Lucy Castiglione (nata nel giugno 1938 a Brooklyn da genitori lucani che parlavano italiano in casa), una delle più grandi star di Hollywood, la Fidanzata d’America, sposata con un regista di quasi trent’anni più grande di lei che la stava dirigendo in opere di grande successo. Proprio a Sorrento avevano realizzato insieme nel 1962 il film più famoso, Souvenir, lei ripeté poi sempre che vi aveva trascorso un mese indimenticabile, il più bello della sua vita. Accadde però qualcosa: la lavorazione fu burrascosa, le riprese durarono meno del previsto, partirono d’improvviso e terminarono il lavoro a Los Angeles. Successivamente Charlotte rimase vedova, ricchissima e carismatica, e i due figli, sempre single e con lei, gestivano i denari, i fan club e i premi, entrambi mai capitati in Italia fino a quel momento. Palma, il commissario di Pizzofalcone, decide che devono investigare bene tutti i suoi ispettori e agenti, fare squadra e riunioni collegiali, dividersi i compiti nelle due città e rispetto a ogni credibile pista, anche perché il consolato mette fretta alla questura. Il fatto è che emerge una possibile connessione con la criminalità organizzata, guai.

Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) non perde un colpo. Siamo giunti al sesto romanzo (in quattro anni) della sua ottima seconda (e contemporanea) serie Einaudi; a inizio 2017 i personaggi li abbiamo visti su RaiUno (ormai hanno quei volti e posture), sono in corso le riprese per i nuovi episodi (dovrebbero intrattenerci in prima serata entro il 2018). Come nella tradizione matura dell’amato McBain il caso si apre pochi mesi dopo il precedente, mentre il libro esce l’anno successivo. Il titolo non identifica solo un mirabile film: i ricordi degli amori possono restare per sempre in vario modo, souvenir importanti e cari che illuminano la vita successiva, fu il caso delle famiglie coinvolte. Tuttavia, oltre e più che scavare nel passato, i Bastardi debbono trovare il nesso con la violenza criminale di oggi. La squadra è al completo, la prima coppia stavolta è composta dal Cinese Giuseppe Lojacono e da Alex Alessandra Di Nardo, gli altri collaborano con successo, pur con qualche impiccio: Marco Aragona è richiesto anche per la sorveglianza di un magazzino, Giorgio Pisanelli perde ancora la tranquillità per la ricerca dell’assassino dei suicidi, Francesco Romano sbarella quando s’ammala la piccola Giorgia (che vuole prendere in affidamento), Ottavia Calabrese deve curare le retrovie informatiche mentre spasima un poco per Palma. Il vero snodo riguarda questa volta le relazioni con la magistratura (Piras e Lojacono si amano ormai a distanza, ostilmente), in particolare con la procura antimafia del magnifico Buffardi (sono spariti cie il furbo contabile dell’onnipotente clan dei Sorbo che, in altro modo, sua moglie Angela, dolce, capace e forse coinvolta nella vicenda sorrentina). La narrazione in terza interseca quasi tutti i personaggi, in prima le lettere che raccontano il fuoco (non spento) del passato. Le variegate relazioni affettive personali arricchiscono il percorso investigativo, tanto quanto alcuni interludi di emozioni campane. Torna di continuo la questione dell’avere “tanti rimpianti” ma “nessun rimorso” (dedica a Severino e a Gigi). Vino rosso, questa volta meno melodramma e più Gershwin (quando serve).

 

Ed McBain

«L’uomo dei dubbi»

traduzione di Andreina Negretti

(originale 1964 «He Who Hesitates»)

Einaudi

196 pagine per 14,50 euro

Isola. 13 febbraio 1964. Roger Broome, grande e grosso 27enne, artigiano del legno su a Carey (vicino Huddleston), dove vive solo con la madre, ha affittato una stanza alla vigilia di San Valentino, è in procinto di andare al distretto di polizia più vicino, deve segnalare un crimine, però è incerto. E lo resterà a lungo, mentre l’attività degli agenti dell’87° è sfocata sullo sfondo. “L’uomo dei dubbi” è il diciannovesimo romanzo della serie iniziata nel 1956, il primo davvero diverso nello svolgimento, una riuscita creativa sperimentazione narrata in terza con “una trama senza trama, una collocazione temporale claustrofobica”, come illustra Maurizio de Giovanni nella prefazione. Einaudi ha saggiamente deciso di ripubblicare qualche gran McBain, che, nato Salvatore Lombino, si chiamò Evan Hunter (1926-2005) e scelse uno pseudonimo per le serie dei gialli conosciuti in tutto il mondo. C’è un nuovo titolo (richiama l’originale) ma la stessa traduzione delle precedenti edizioni.

 

Giorgia Lepore

«Il compimento è la pioggia»

Edizioni e/o

248 pagine, 16 euro

Bari. Dicembre 2013. Il 33enne ispettore della squadra Mobile Gregorio Gerri Esposito, bello e impossibile, svagato e presuntuoso, vive un esilio autoimposto. Era nato e cresciuto a Napoli, prima in un campo zingari, presto abbandonato dai genitori (madre scomparsa dopo avergli detto “aspettami” sotto la pioggia), poi in un collegio orfanatrofio gestito da due persone brave, il prete di strada don Mimì e la suora laica Adelina, ormai morti. Si sente ovunque fuori posto, senza legami e senza senso. Abita solo, frequenta varie donne con affetto, senza riuscire a stringere amori duraturi: non con la bellissima collega romana Sara Coen (la relazione ha lasciato a entrambi un reciproco rifugio, ma ormai bisticciano sempre), non con la splendida prostituta nigeriana Milly (o Jamilah o Emily o Emilie, lei ormai non lo fa pagare, ma ha un figlio in istituto e ben altro cui pensare per sopravvivere), non con la minorenne Lavinia (sono lontani e probabilmente è meglio vi restino); né con altre cui piace o che lo attirano. Proprio la notte di San Nicola arriva sulla scena di un delitto nella città vecchia: la 24enne Caterina Ketty Camarda è stata uccisa da più mani (in tempi successivi), dopo aver fatto l’amore consenziente e aver subito più di un’aggressione; era incinta e aveva due figli (che trovano chiusi nella cassapanca). Entra subito in intensa relazione con la più grande, Jennifer (cinque anni), che gli confida chi è stato, il padre Nicola, biondo alto e con gli occhi azzurri, pessimo compagno della madre (non il nuovo fidanzato Pasquale) e si fa promettere che se lo prende lo uccide. Aleggiano tutt’intorno una selva di personaggi (e rispettive famiglie): soprattutto padre e fratello di Ketty, madre fratello sorella padre di Nicola, e l’antipatico giovane pm milanese incaricato di seguire il caso insieme al vicequestore aggiunto Alfredo Marinetti, capo e padre putativo di Gerri alla terza sezione.

L’archeologa e storica dell’arte pugliese Giorgia Lepore prosegue con successo la bella serie in terza persona (quasi fissa) sul suo inquieto Gerri, sempre sospeso fra passato e presente, infanzia zingara o sola e bimbi incontrati in affanno ora. Per ragioni diverse, ha frequenti dolori a spalla, gamba, testa, e sente spesso pure i dolori degli altri; a volta risulta odioso scocciato nervoso assente, altre volte calmo paziente comprensivo suadente. Gerri si porta dietro confusamente tutto del suo passato, spesso attraverso sogni, flashback, analogie. Ogni altro personaggio (seriale oppure occasionale) risulta comprimario. Eppure, continuiamo a non sapere tutto di lui: intuiamo zone d’ombra, vuoti, buchi neri (che sono in parte nel passato di ciascuno). Non solo le indagini ma l’insieme delle sue relazioni sociali (con o senza parole) affondano lontano nel tempo e debbono risultare funzionali a un percorso di presa di coscienza e di messa a fuoco di tutto ciò che lo incatena all’infanzia. Non a caso cerca di fissare quanto più possibile su carta, affronta ogni caso arrovellandosi su complicati schematici appunti, chi dove come quando perché, disegni simboli nomi lettere asterischi frecce riquadri, colori ed evidenziazioni varie. E la narrazione noir non prevede mai azioni in diretta, gialle o hard-boiled che siano: quando sta per accadere qualcosa passiamo al momento in cui qualcuno (lui in genere) lo ripensa o lo narra, dopo. Si tratta, dunque, di storie (volutamente) circonvolute. Intrattenimento molto godibile per lettori assorti e accorti, non distratti da enogastronomia e consumi dominanti. Gerri odia il pesce, ha in libreria tanti volumi sui rom e ascolta tutto Vinicio Capossela. Il titolo deriva da un proverbio arabo, “le nuvole sono una promessa. L’adempimento è la pioggia”, accompagnato ovviamente (nella dedica) dal capolavoro di Dürrenmatt, appunto sulla promessa (difficile da mantenere).

 

Ed McBain

«La voce del crimine»

traduzione di Andreina Negretti

(originale 1973: «Let’s Hear It for the Deaf Man»)

Einaudi

246 pagine per 14,50 euro

Isola. Aprile. I casi criminali sono già tanti in quel quartiere e cominciano ad arrivare pure telefonate e lettere anonime attribuibili a un antipatico conoscente che ci riprova. Il Sordo è un inafferrabile cattivo seriale, alto e bello, invia a Carella buste con fotocopie di foto (riprodotte nel libro), prepara un misfatto, probabilmente una rapina. Evan Hunter sapeva bene di voler dar vita a una innovativa serie poliziesca, fece un contratto per più romanzi e adottò lo pseudonimo di Ed McBain. Dopo 4 anni (e 11 romanzi) sull’87° Distretto, nel 1960 individuò il personaggio “contro”, l’avversario dei buoni (più o meno). Piani astutissimi, rompicapo irridenti, una virgola che alla fine non va, loro che sventano qualcosa, lui che riesce a fuggire (spesso lasciando sul campo complici morti o arrestati). Tutto magnificamente narrato con stile dilettevole anche in “La voce del crimine”, 26°romanzo della serie, 3° col Sordo. E 4° riedito ora da Einaudi con nuovo titolo. Alta letteratura.

 

Alicia Giménez-Bartlett

«Mio caro serial killer»

traduzione di Maria Nicola

Sellerio

474 pagine, 15 euro

Barcellona. Ai giorni nostri. Proprio quella mattina che la cinquantenne Petra Delicado decide di ritardare un poco e concedersi i servizi di un centro estetico, il commissario Coronas in persona la chiama dall’ufficio e la redarguisce severamente: è stata trovata una donna assassinata in casa. Non basta: devono andarci subito col fido inseparabile vice Fermín Garzón ma è la polizia autonoma ad aver chiesto collaborazione, a coordinare le indagini sarà un giovane massiccio disciplinato ispettore dei Mossos d’Esquadra, Roberto Fraile, occhi verdi e capelli a spazzola, sulla trentina. Ne vedremo inevitabilmente delle belle. E delle brutte: qualcuno ha pugnalato 22 volte l’impiegata 55enne Paulina Armengol, poi le ha tagliato la faccia fino a renderla irriconoscibile, lasciando un biglietto di disinganno d’amore. Dopo appena un giorno accade di nuovo, una 35 ecuadoriana con regolare permesso di soggiorno, accoltellata all’addome, con il volto devastato e un messaggio amoroso, stessa mano omicida e identiche modalità. Non è finita lì e non vi sono tracce o piste. Erano tutte donne sole, pochi o niente amici o parenti, fra loro non si frequentavano né si conoscevano, l’unico labile legame sembrano forse le agenzie matrimoniali con cui erano entrate in contatto, una in particolare, molto riservata. Petra e Fermín sono tranquilli a casa, i rapporti (rispettivamente) con Marcos e Beatriz sono stabili da tempo, i partner affiatati e collaborativi. Certo cresce la curiosità dei figli del terzo marito (conviventi) e della loro nonna (appena arrivata), però l’armonia non è rovinata ed emerge anzi qualche spunto investigativo. Il fatto è che il lavoro è un inferno: giorno e notte, senza costrutto, con un collega gentile ma turbato, impreparato ai comportamenti strani e ai dialoghi stranianti dei due della Policía Nacional. In qualche modo, impareranno a sonnecchiare insieme, a vedersi alla Jarra de Oro e a stimarsi.

La bravissima Alicia Giménez-Bartlett (Almansa, 1951) si cimenta con morti seriali, non poteva più farne a meno. Si tratta di un argomento tipico di gialli e noir, di un topos letterario, quasi un luogo comune. Nella sua serie (iniziata nel 1996 e giunta al decimo romanzo) ci sono tante parodie fisse sul genere: il duo protagonista, le tecniche investigative, i tic dei personaggi. Non poteva mancare ora l’indagine su un presunto serial killer di donne indifese, qualcosa per cui la Petra che conosciamo (attaccabrighe e scettica) forse non sarebbe potuta essere all’altezza, lei che comunque narra in prima persona, al passato, senza compassione per nessuno (come Fermín, con il cuore di fredda ironica pietra). Ci immergiamo così nel mondo delle Agenzie di Relazioni Matrimoniali e dei siti d’incontri, nell’infinita solitudine di alcune donne, foto scelte per trasmettere un atteggiamento, una propensione, un personaggio, nella speranza di trovare un compagno. Emergono con umorismo e indulgenza i tanti possibili rifugi per cuori solitari (anche maschili): associazioni di escursionisti, centri culturali, agenzie di contatti, circoli di poker, scuole di tango. Mentre stenta a venir fuori l’intreccio sordido di interessi e crudeltà, bugie e opportunismi, destinato a tradursi poi, non tanto casualmente, in crimini sanguinosi. La lenta verifica confermerà che nessun assassino è perfetto, pare che presto se ne farà un film. Concilianti i rapporti fra le due polizie operanti in Catalogna, anche perché il terzo incomodo (vera novità del romanzo) finirà per capire e far capire l’utile piacere della condivisione. Segnalo la velenosa convivenza di verità ed equilibrio mentale, a pagina 80. Il sospettato ha lo studio in calle de la Sal a Barceloneta, proprio sopra la libreria “Il Giallo e il Nero” (“Negra y Criminal”, dove tornare presto), il gestore Paco conosce bene Beatriz e Fermín, con sorpresa di Petra: il romanzo poliziesco unisce molta gente. Passito, cariñena, cava, barricato, e via vineggiando.

 

Furukawa Hideo

«Tokyo Soundtrack»

traduzione di Gianluca Coci

Sellerio

762 pagine, 18 euro

Giappone. Tra qualche (non troppo) tempo. A Touta (i caratteri di dieci e canzone) e Hitsujiko (pecora e bambino) sta accadendo di tutto. Sono a stento sopravvissuti dal mare in burrasca. Il ragazzino introverso di sei anni era in motoscafo, rimasto solo dopo che il padre fu scaraventato via. La ragazzina ribelle di quattro e mezzo era sul traghetto con la madre obesa aspirante suicida, finì su una scialuppa. Naufragano separatamente su un’isola, grande e variegata, nell’arcipelago giapponese di Ogasawara. Vi sopravvivono insieme due anni, cambiando spesso rifugio d’emergenza, in mezzo a tanti pesci e capre. Quando tornano nella capitale la trovano sconvolta dai cambiamenti climatici e dalle conseguenti migrazioni forzate: continuano a imparare a convivere con terremoti e tsunami, temperature torride ed eventi meteorologici estremi, conflitti sociali. Grande sensibilità letteraria di Furukawa Hideo (1966) nel bel “Tokyo Soundtrack”, scritto a inizio millennio per un futuro probabile.

 

Redazione
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