Né Torino né Milano: torniamo all’amore per i libri

Ci sembra utile e opportuno rilanciare sul blog le parole con cui Roberto Massari – in questo caso l’EDITORE – ha risposto al questionario sul Salone del Libro propostogli dal giornalista Gaetano Farina, con la speranza di poterle pubblicare su alcune testate on-line collegate a quest’ultimo (Affari ItalianiLinkiesta, Articolo 21 e Prima Comunicazione) ma anche su quotidiani come La Stampa, la Repubblica o Il Fatto Quotidiano.
La risposta è lapidaria e offre uno spaccato di come la società dello spettacolo abbia trasformato e modificato geneticamente manifestazioni «culturali» come il Salone del Libro
di Roberto Massari (*)

1) Non parteciperò al Salone di Torino, né a quello di Milano perché anche questo difficilmente riuscirà ad eliminare gli aspetti più orrendi di quello di Torino. Sono entrambi figli della società dello spettacolo (per giunta italiana) e devono quindi sottostare alle sue regole. Non si vede perché un salone del libro – nell’Italia attuale e con il panorama indecente di forze politiche che la dominano – dovrebbe sfuggire alle regole della società spettacolare di massa (dominio televisivo sui libri, grandi celebrità come specchietto per le allodole, ricerca ossessiva di guadagno sul posto ecc.).
2) Come editore ho partecipato con un mio stand al Festival di Torino nel 1995 e nel 1996. Poi non ci ho più messo piede dopo aver visto che a) i grandi editori usavano il loro stand come un supermercato del libro, con tanto di cassa contabile per incamerare guadagni impensabili per una qualunque loro normale libreria. b) Le grandi presentazioni che attiravano pubblico erano sempre con personaggi celebri in campo televisivo, anche se in genere inadeguati culturalmente per il campo teorico sfiorato dal loro libro.
3) Per 12 anni ho partecipato con un mio stand al Più Libri più Liberi di Roma, perché mi sembrava che il punto a) non vi avesse preso piede. Finché mi sono reso conto che invece il punto b) era più vivo che mai. E quindi mi sono tirato via anche di lì. Mi rimane un certo affetto e stima ancora per il Pisa Book Festival, dove vado ogni anno dagli inizi. Non mi perdo invece le fiere locali (piccole o piccolissime), quando lo stand è gratuito e trovo il tempo per andarci.

4) Prima di abbandonare Torino feci una prima proposta (tramite Antonio Monaco, sempiterno rappresentante dei Piccoli editori, con cui all’epoca ero in ottimi rapporti), e cioè che il costo dell’unità di spazio degli stand fosse proporzionale all’incasso realizzato dagli editori nell’anno precedente. Insomma, arrivare a quasi zero per i piccoli editori e moltiplicare alla grande il costo per i grandi editori. Sarebbe del resto questo l’unico modo per non far gravare sui piccoli editori (che i soldi ce li perdono) il costo dei guadagni che realizzano i grandi editori nel corso della Fiera. Fu inoltrata la mia proposta a chi di dovere e poi mi fu detto che Guido Accornero l’aveva ripagata di un sorrisetto. In fondo quel sorrisetto valeva più di mille parole.

5) Gli anni sono passati, ogni tanto sono riandato a visitare la Fiera di Torino provandone sempre disgusto, anche perché ho potuto costatare che i limiti di allora si sono incancreniti. Oramai è diventata la sagra paesana del provincialismo italiano più gretto e più televisivo che si possa immaginare. Un editore di qualità non può che starne fuori. Le poche nobili eccezioni finiscono ovviamente col naufragare nel mare del conformismo più becero. E spesso servono solo di copertura.
6) Credo ancora nei grandi eventi editoriali. Ho sempre avuto un’alta considerazione della Fiera del Libro di Francoforte (dove una volta sono stato presente anche come autore). La loro regola che i libri non si possono vendere (se non l’ultimo giorno per non portarli via oppure alle presentazioni) mi sembra una misura igienica preliminare e indispensabile. L’Italia dovrebbe cominciare a fare lo stesso: vedresti che fuggi-fuggi da parte dei grandi editori.
7) Un grande evento non potrà mai rappresentare un «arricchimento dell’offerta culturale», ma basterebbe che ne rappresentasse la sintesi. Vale a dire, che riuscisse a far emergere ciò che di meglio viene prodotto nei singoli generi letterari (a partire dalla saggistica – suddivisa per temi – e non dall’inflazionante narrativa), e non ciò che si vende di più.
Ecco, questo criterio ormai genetico della società spettacolare di massa, per cui conta il libro che più si vende e non quello che racchiude maggiore qualità (autoriali, ma anche redazionali, editoriali ecc.), è l’esatto contrario di ciò che richiederebbe l’offerta culturale. Per un paese provinciale, arretrato e traumatizzato dall’impiego di tutte le nuove tecnologie visuali come l’Italia, si dovrebbe praticamente ricominciare da zero. E questo nessuna Fiera del Libro riuscirà mai a proporselo. Figuriamoci a realizzarlo.
Gentile Gaetano Farina, avrà visto che si tratta di uno sfogo. Ne faccia l’uso che vuole, ma non alteri il senso di disprezzo e rifiuto che come editore provo per quasi tutta la grande editoria italiana. Basterebbe leggere le dichiarazioni che i responsabili di queste case editrici famose hanno rilasciato ai giornali in questi giorni. Una pena infinita.
Saluti,

 

Roberto Massari
(*) tratto da Utopia Rossa
Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *