Anas Al-Sharif è stato giustiziato

ne parlano e scrivono Ennio Remondino, Enrico Campofreda, Roberto De Vogli, Dalia Ismail, Francesca Fornario, Yuval Abraham, Gideon Levy, Nicolai Lilin, Matteo Saudino, Giuseppe Gagliano, Paola Caridi, Francesco Masala

Anas Al-Sharif  aveva scritto già il suo testamento!

Il testamento di Anas Al-Sharif

Per mesi, Israele ha diffamato Anas Al-Sharif a causa della sua incessante copertura del genocidio e dei crimini commessi a Gaza. Anas ha pubblicamente condiviso il suo testamento spirituale con i suoi followers dopo aver precedentemente riferito che le forze israeliane lo avevano minacciato di morte se non avesse smesso di denunciare. Ora, Israele ha assassinato Anas insieme al resto della squadra di Al Jazeera a Gaza.

Questa è la mia volontà e il mio messaggio finale. Se queste parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce. Innanzitutto, la pace, la misericordia e le benedizioni di Dio siano su di voi. Dio sa che ho dedicato tutto il mio impegno e la mia forza per essere un sostegno e una voce per il mio popolo da quando ho aperto gli occhi alla vita nei vicoli e nelle strade del campo profughi di Jabalia. La mia speranza era che Dio mi concedesse la vita così da poter tornare con la mia famiglia e i miei cari nella nostra città natale di Ashkelon (Al-Majdal), ora occupata. Ma la volontà di Dio è stata più rapida e il Suo giudizio è inevitabile.

Ho vissuto il dolore in ogni dettaglio, ho assaporato ripetutamente il dolore e la perdita, eppure non ho mai esitato a trasmettere la verità così com’è, senza distorsioni o alterazioni, sperando che Dio sia testimone di coloro che sono rimasti in silenzio, di coloro che hanno accettato la nostra uccisione, di coloro che hanno soffocato i nostri respiri, di coloro i cui cuori sono rimasti indifferenti ai corpi dispersi dei nostri bambini e delle nostre donne, e di coloro che non hanno fermato il massacro che il nostro popolo ha subito per oltre un anno e mezzo.

 

Vi affido la Palestina, la corona del mondo islamico e il battito del cuore di ogni persona libera in questo mondo.

Vi affido il suo popolo e i suoi bambini innocenti a cui non è stata concessa una vita per sognare o vivere in sicurezza e pace. I loro corpi puri sono stati schiacciati da migliaia di tonnellate di bombe e razzi israeliani, fatti a pezzi e sparsi contro i muri.

Vi esorto a non lasciarvi mettere a tacere dalle catene o limitare dai confini. Siate ponti verso la liberazione della terra e del suo popolo finché il sole della dignità e della libertà non sorgerà sulla nostra patria rubata.

Vi affido la mia famiglia.

Vi affido la luce dei miei occhi, la mia amata figlia Sham, che il tempo non mi ha permesso di vedere crescere come sognavo.

Vi affido il mio amato figlio Salah, che desideravo sostenere e accompagnare finché non crescerà più forte, porterà i miei fardelli e continuerà la missione.

Vi affido la mia amata madre, le cui preghiere sono state la mia forza e la cui luce ha guidato il mio cammino. Prego Dio di placare il suo cuore e di ricompensarla con il meglio per me.

Vi affido anche la mia compagna di una vita, la mia cara moglie Umm Salah Bayan, da cui la guerra mi ha separato per lunghi giorni e mesi, eppure è rimasta salda come un tronco d’ulivo che non si piega, paziente e risoluta, portando la responsabilità in mia assenza con forza e fede.

Vi esorto a circondarli e a essere un sostegno per loro dopo Dio Onnipotente. Se dovessi morire, morirei saldo nei miei principi. Rendo testimonianza a Dio che sono contento del Suo decreto, credendo nell’incontro con Lui e certo che ciò che è con Dio è migliore ed eterno.

O Dio, accettami tra i martiri, perdona i miei peccati passati e futuri e fa’ che il mio sangue sia una luce che illumini il cammino della libertà per il mio popolo e la mia famiglia.
Perdonami se ho mancato e prega per me con misericordia, perché sono rimasto fedele alla mia promessa, senza cambiamento né abbandono.

Non dimenticare Gaza.

E non dimenticarmi nelle tue giuste preghiere per il perdono e l’accettazione.

Anas Jamal Al-Sharif

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Affossare taccuini oltre ai bambini – Enrico Campofreda

Chiamata ‘guerra di Gaza’ dai servizi, non quelli segreti ma dagli afferenti a una servile informazione mainstream restìa a usare il linguaggio della professione secondo il reale significato, la mattanza dei gazawi della Striscia cumula giorno dopo giorno, da seicentosettantaquattro giorni, cadaveri e dati e affianca alle 62.000 vittime 270 giornalisti. Tutti palestinesi. Tutti ammazzati. Perché tutti in odio al governo Netanyahu e pure a gran parte della gente d’Israele, nonostante i distinguo di locali minoranze d’intellettuali, pacifisti e pure soldati fino ai gradi più elevati. Ma il loro dissenso poco conta, visto che perpetuare la via della morte, per bombe o per fame, è il conforto imposto dalla maggioranza ebraica e lo stato delle cose su cui un mondo, al più gemente, s’è accasciato. Gemente e di fatto impotente o volutamente indolente, che non sono solo assonanze di scrittura bensì tragica scelta geopolitica reiterata nei decenni e negli ultimi ventidue mesi giunta al fosco capolinea di un’asettica disumanità. Anche parole e immagini utili alla denuncia di quanto si riesce a sapere e vedere sull’angosciante condizione di ammassi scheletrici confusi fra terra e sacchi di poca roba giunta dal suolo o dal cielo, che sfama e schiaccia una massa ridotta all’abbrutimento, diventano scioccanti ripetizioni. Eppure il non ripetuto mai abbastanza della violenza che Israele dona all’etnìa nemica, tenuta terrorizzata per il suo presunto o voluto terrorismo, trova sempre più microfoni silenziati, penne e computer affossati assieme ai loro cronisti. Tutti palestinesi. Tutti ammazzati. Anas al-Sharif di Al Jazeera, l’ennesimo colpito,  secondo i suoi esecutori che si compiacciono dell’omicidio era una gola profonda di Hamas. “Il modello di Israele di etichettare i giornalisti come militanti senza fornire prove credibili solleva seri interrogativi sul suo intento e sul rispetto della libertà di stampa” ha dichiarato Sara Qudah, direttrice regionale del Comitato per la protezione dei giornalisti. Ah già libertà di stampa, libertà di pasto, libertà di stenti, libertà di vita davanti alla certezza della morte.

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“Cellula di Legittimazione”: unità israeliana incaricata di collegare i giornalisti di Gaza ad Hamas – Yuval Abraham

Trattando i media come un campo di battaglia, una squadra segreta di agenti dell’esercito ha setacciato Gaza alla ricerca di materiale per rafforzare l’Hasbara israeliana, comprese affermazioni discutibili che giustificherebbero l’Uccisione di giornalisti palestinesi.

L’esercito israeliano ha gestito un’unità speciale chiamata “Cellula di Legittimazione”, incaricata di raccogliere informazioni da Gaza che possano rafforzare l’immagine di Israele sui media internazionali, secondo tre fonti dei servizi di spionaggio che hanno confermato l’esistenza dell’Unità.

Istituita dopo il 7 Ottobre, l’Unità ha cercato informazioni sull’uso di scuole e ospedali da parte di Hamas per scopi militari e sui lanci di razzi falliti da parte di gruppi armati palestinesi che hanno danneggiato i civili nell’enclave. È stato anche incaricato di identificare i giornalisti di Gaza che potrebbero essere presentati come agenti sotto copertura di Hamas, nel tentativo di attenuare la crescente indignazione globale per l’Uccisione di giornalisti da parte di Israele, l’ultimo dei quali è stato il giornalista di Al Jazeera Anas Al-Sharif, ucciso in un attacco aereo israeliano la scorsa settimana.

Secondo le fonti, la motivazione della Cellula di Legitimizzazione non era la sicurezza, ma le pubbliche relazioni. Spinti dalla rabbia per il fatto che i giornalisti di Gaza stessero “diffamando il nome di Israele di fronte al mondo”, i suoi membri erano ansiosi di trovare un giornalista da poter collegare ad Hamas e contrassegnare come bersaglio, ha affermato una fonte.

La fonte ha descritto uno schema ricorrente nel lavoro dell’Unità: ogni volta che le critiche a Israele nei media si intensificavano su una particolare questione, alla Cellula di Legitimizzazione veniva chiesto di trovare informazioni sensibili che potessero essere declassificate e utilizzate pubblicamente per contrastare la narrazione.

“Se i media globali parlano di giornalisti innocenti uccisi da Israele, subito si fa pressione per trovarne uno che potrebbe non essere così innocente, come se questo rendesse in qualche modo accettabile l’uccisione degli altri 20”, ha detto la fonte dei servizi.

Spesso, era il livello politico israeliano a dettare all’esercito su quali aree di investigazione l’Unità dovesse concentrarsi, ha aggiunto un’altra fonte. Le informazioni raccolte dalla Cellula di Legittimazione venivano inoltre trasmesse regolarmente agli americani attraverso canali diretti. Gli agenti hanno affermato di essere stati informati che il loro lavoro era vitale per consentire a Israele di prolungare la guerra.

“La squadra raccoglieva regolarmente informazioni che potevano essere utilizzate per l’Hasbara, ad esempio, una scorta di armi di Hamas trovata in una scuola, qualsiasi cosa che potesse rafforzare la legittimità internazionale di Israele a continuare a combattere”, ha spiegato un’altra fonte. “L’idea era di consentire all’esercito di operare senza pressioni, in modo che Paesi come l’America non smettessero di fornire armi”.

L’Unità ha anche cercato prove che collegassero la polizia di Gaza all’attacco del 7 Ottobre, al fine di giustificare il suo attacco e lo smantellamento delle forze di sicurezza civili di Hamas, ha affermato una fonte a conoscenza del lavoro della Cellula di Legitimizzazione.

Due fonti hanno riferito che, in almeno un caso dall’inizio della guerra, la Cellula di Legitimizzazione ha travisato le informazioni raccolte in un modo che ha permesso la falsa rappresentazione di un giornalista come membro dell’ala militare di Hamas. “Erano ansiosi di etichettarlo come un bersaglio, come un terrorista, di dire che era giusto attaccarlo”, ha ricordato una fonte. “Hanno detto: di giorno è un giornalista, di notte è un comandante di plotone. Tutti erano eccitati. Ma c’è stata una serie di errori e scorciatoie.

“Alla fine, si sono resi conto che era davvero un giornalista”, ha continuato la fonte, e il giornalista non è stato preso di mira.

Un simile schema di manipolazione è evidente nelle informazioni raccolte presentate su Al-Sharif. Secondo i documenti rilasciati dall’esercito, che non sono stati verificati in modo indipendente, fu reclutato da Hamas nel 2013 e rimase attivo fino al suo ferimento nel 2017, il che significa che, anche se i documenti fossero accurati, suggeriscono che non abbia avuto alcun ruolo nella guerra in corso.

Lo stesso vale per il caso del giornalista Ismail Al-Ghoul, ucciso in un attacco aereo israeliano nel luglio 2024 insieme al suo cameraman a Gaza. Un mese dopo, l’esercito ha affermato che era un “agente dell’ala militare e terrorista di Nukhba”, citando un documento del 2021 presumibilmente recuperato da un “computer di Hamas”. Eppure quel documento afferma che aveva ricevuto il grado militare nel 2007, quando aveva solo 10 anni e sette anni prima che fosse presumibilmente reclutato da Hamas.

“Trovare più materiale possibile per l’hasbara 

Uno dei primi sforzi di alto profilo della Cellula di Legitimizzazione avvenne il 17 ottobre 2023, dopo la mortale esplosione all’Ospedale Al-Ahli di Gaza. Mentre i media internazionali, citando il Ministero della Sanità di Gaza, riportavano che un attacco israeliano aveva ucciso 500 palestinesi, i funzionari israeliani affermarono che l’esplosione era stata causata da un razzo della Jihad Islamica andato a vuoto e che il bilancio delle vittime era molto inferiore.

Un’indagine dell’agenzia di ricerca britannica Forensic Architecture ha concluso che, sebbene la causa esatta dell’esplosione rimanesse incerta, è probabile che a colpire l’ospedale sia stato un missile intercettore israeliano, non un razzo della Jihad Islamica, né una bomba israeliana.

Il giorno dopo l’esplosione, l’esercito ha diffuso una registrazione che la Cellula di Legitimizzazione aveva trovato in intercettazioni di spionaggio, presentata come una telefonata tra due agenti di Hamas che attribuivano l’incidente a un errore di attivazione della Jihad Islamica. Molti media globali hanno successivamente ritenuto probabile l’affermazione, compresi alcuni che hanno condotto indagini proprie, e la pubblicazione ha inferto un duro colpo alla credibilità del Ministero della Sanità di Gaza, celebrata all’interno dell’esercito israeliano come una vittoria per la Cellula.

Un attivista palestinese per i diritti umani ha dichiarato nel dicembre 2023 di essere rimasto sbalordito nel sentire la propria voce nella registrazione, che ha definito semplicemente una conversazione amichevole con un altro amico palestinese. Ha insistito di non essere mai stato un membro di Hamas.

Una fonte che ha lavorato con la Cellula di Legittimazione ha affermato che pubblicare materiale classificato come una telefonata era profondamente controverso. “Non è assolutamente nel DNA dell’Unità 8200 rivelare le nostre capacità per qualcosa di così vago come l’opinione pubblica”, ha spiegato.

Tuttavia, le tre fonti hanno affermato che l’esercito trattava i media come un’estensione del campo di battaglia, consentendogli di declassificare informazioni sensibili per la divulgazione al pubblico. Anche al personale investigativo esterno alla Cellula di Legittimazione è stato ordinato di segnalare qualsiasi materiale che potesse aiutare Israele nella guerra dell’informazione. “C’era questa frase, ‘Questo è un bene per la legittimità’”, ha ricordato una fonte. “L’obiettivo era semplicemente quello di trovare più materiale possibile per supportare gli sforzi dell’Hasbara”.

“Non ho mai esitato a dire la verità”

Il 10 agosto, l’esercito israeliano ha ucciso sei giornalisti in un attacco che, per sua stessa ammissione, aveva come obiettivo il corrispondente di Al Jazeera Anas Al-Sharif. Due mesi prima, a luglio, il Comitato per la Protezione dei Giornalisti aveva avvertito di temere per la vita di Al-Sharif, affermando che era “preda di una campagna diffamatoria militare israeliana, che ritenevano un preludio al suo assassinio”.

Dopo che a luglio Al-Sharif aveva pubblicato un video virale in cui si mostrava in lacrime mentre copriva la crisi alimentare di Gaza, il Portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano, Avichay Adraee, ha pubblicato tre diversi video in cui lo attaccava, accusandolo di “propaganda” e di partecipare alla “falsa campagna di fame di Hamas”.

Al-Sharif ha individuato un collegamento tra la guerra mediatica di Israele e quella militare. “La campagna di Adraee non è solo una minaccia mediatica o una diffamazione; è una minaccia reale”, ha dichiarato al Comitato per la Protezione dei Giornalisti. Meno di un mese dopo, fu ucciso, e l’esercito presentò quello che a suo dire era un documento declassificato sulla sua appartenenza ad Hamas per giustificare l’attacco.

L’esercito aveva già affermato nell’ottobre 2024 che sei giornalisti di Al Jazeera, tra cui Al-Sharif, erano agenti militari, un’accusa che lui negò categoricamente. Divenne il secondo di quella lista a essere preso di mira, dopo il giornalista Hossam Shabat. Dopo l’accusa di ottobre, la sua posizione era ben nota, portando molti osservatori a chiedersi se l’uccisione di Al-Sharif, che inviava regolarmente i suoi servizi giornalistici da Gaza, facesse parte del piano di Israele per imporre un oscuramento mediatico in vista dei preparativi militari per la conquista della città.

In risposta alle domande sull’Uccisione di Al-Sharif, il Portavoce dell’IDF ha ribadito che “l’IDF ha attaccato un agente dell’organizzazione terroristica di Hamas che operava sotto le mentite spoglie di un giornalista della rete Al Jazeera nella Striscia di Gaza settentrionale”, e ha affermato che l’esercito “non danneggia intenzionalmente individui non coinvolti, in particolare giornalisti, il tutto in conformità con il Diritto Internazionale”.

Prima dell’attacco, ha aggiunto il Portavoce, “sono state adottate misure per ridurre il rischio di danni ai civili, tra cui l’uso di armi di precisione, osservazioni aeree e ulteriori raccolte di informazioni”.

A soli 28 anni, Al-Sharif era diventato uno dei giornalisti più noti di Gaza. È tra i 186 giornalisti e operatori dei media uccisi nella Striscia dal 7 Ottobre, secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti, il periodo più mortale per i giornalisti da quando il gruppo ha iniziato a raccogliere dati nel 1992. Altre organizzazioni hanno stimato il bilancio delle vittime fino a 270.

“Se queste parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce”, ha scritto Al-Sharif nel suo ultimo messaggio, pubblicato postumo sulle sue pagine social. “Ho vissuto il dolore in tutti i suoi dettagli, ho assaporato la sofferenza e la perdita molte volte, eppure non ho mai esitato a trasmettere la verità così com’è, senza distorsioni o falsificazioni”.

Yuval Abraham è un giornalista e regista che vive a Gerusalemme.

Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto

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Con la morte di Anas Al-Sharif è morto anche il giornalismo, e con loro la verità e la solidarietà – Gideon Levy

I giornalisti israeliani si rifiutano di accettare che un Paese che ha ucciso più giornalisti in questa guerra a Gaza di quanti ne siano stati uccisi in qualsiasi altro conflitto della storia, un giorno rivolgerà le armi anche contro di loro.

“Se queste mie parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce. Dio sa che ho impiegato ogni sforzo e ogni forza per essere un sostegno e una voce per il mio popolo, dal momento in cui ho aperto gli occhi alla vita nei vicoli e nelle strade del campo profughi di Jabalya. La mia speranza era che Dio prolungasse la mia vita fino a quando non potessi tornare con la mia famiglia e i miei cari nella nostra città natale, l’occupata Al-Majdal Asqalan. Ma La volontà di Dio ha prevalso e il Suo decreto si è compiuto”.

Non è stata la volontà di Dio a determinare il destino del giornalista Anas Al-Sharif domenica, insieme ad altri tre giornalisti e due civili, nella tenda stampa adiacente all’Ospedale al-Shifa di Gaza. Non è stata la volontà di Dio, ma piuttosto un drone militare israeliano criminale a colpire al-Sharif, il più importante corrispondente di Al Jazeera in guerra. Non la volontà di Dio, ma piuttosto la volontà di Israele di giustiziarlo con l’accusa di aver guidato una “cellula di Hamas”, senza presentare uno straccio di prova a sostegno di ciò.

Molti nel mondo hanno creduto alla versione militare, così come avevano creduto che le Forze di Difesa Israeliane non avessero ucciso la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh a Jenin nel 2022. Anche coloro che vogliono credere che Al-Sharif fosse il capo di una cellula devono chiedersi: e le cinque persone uccise con lui? Erano vice capi della cellula? Non si può credere a nulla di ciò che dice un esercito che Massacra i giornalisti a sangue freddo o uno Stato che non permette la libera copertura della guerra, nemmeno alle storie sul capo della cellula terroristica di Jabalya.

È difficile credere, o forse ormai non c’è più nulla di difficile da credere, quanto scarso interesse sia stato mostrato per l’Uccisione di quattro giornalisti. La stampa israeliana era divisa tra chi ignorava la notizia e chi sosteneva che Israele avesse eliminato un terrorista. Dotati di zero informazioni, quasi tutti si sono mobilitati per raccontare la storia che le Forze di Difesa Israeliane avevano dettato loro, e al diavolo la verità. E anche al diavolo la solidarietà verso un collega coraggioso.

L’unica prova presentata è stata una fotografia di Al-Sharif con il capo di Hamas Yahya Sinwar. Questo è effettivamente motivo di esecuzione.

Un milione di volte più coraggioso di qualsiasi giornalista israeliano, e meno cooptato al servizio della propaganda del suo Stato e del suo popolo rispetto a Nir Dvori e Or Heller, Al-Sharif avrebbe potuto insegnare ai membri dei media israeliani i fondamenti del giornalismo.

La sfrontatezza della stampa qui non conosce limiti: Al Jazeera è un’emittente di propaganda, urlano i giornalisti dei canali televisivi israeliani, che hanno dato una cattiva reputazione alla propaganda ultranazionalista e all’occultamento della verità durante questa guerra.

Se Al Jazeera è propaganda, allora cos’è il Canale 12? E i canali 11, 13, 14 e 15? Hanno qualche legame con il giornalismo in questa guerra?

Con la morte del giornalismo, sono morte anche la verità e la solidarietà. Coloro che hanno ucciso più giornalisti in questa guerra di quanti ne siano stati uccisi in qualsiasi altra nella storia, 186 secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti con sede a New York, 263 secondo B’Tselem, un giorno punteranno le armi anche contro di noi, i giornalisti israeliani che non godono del loro favore. È difficile capire come i giornalisti israeliani non riescano a comprenderlo. O forse intendono continuare il loro sottomesso servizio alla Macchina della Propaganda israeliana, perché ai loro occhi, questo è giornalismo.

Ma questa settimana, l’IDF ha bombardato una tenda stampa, e le scene che non avete visto sono state orribili: i corpi dei giornalisti sono stati estratti dalla tenda in fiamme, e i loro colleghi israeliani hanno applaudito o sono rimasti in silenzio. Che vergogna, sia personale che professionale. In che modo questo è meno scioccante dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel 2018? Perché non hanno smembrato il corpo di al-Sharif?

Gli amici di al-Sharif e il suo testamento affermano che sapeva di essere un bersaglio. Quando l’IDF ha iniziato a minacciarlo di morte a ottobre, Irene Khan, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla Libertà di Espressione, ha dichiarato di essere preoccupata per il suo destino. Al-Sharif, ha detto, era l’ultimo giornalista sopravvissuto nella Striscia di Gaza settentrionale. È proprio per questo che Israele lo ha ucciso. “Non dimenticate Gaza”, sono state le ultime parole del suo testamento.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato a Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei Giornalisti Israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo ultimo libro, La Punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto

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Anas al-Sharif ucciso due volte: prima da Israele, poi dai media che lo hanno bollato come terrorista – Roberto De Vogli

Quella dei media occidentali non è disinformazione, ma propaganda suprematista pro-genocidio

Il giornalista di Al Jazeera Anas al-Sharif, 28 anni, è stato ucciso insieme a cinque colleghi in un attacco deliberato da parte di Israele contro una tenda che ospitava i giornalisti fuori dal cancello principale dell’ospedale al-Shifa nella città di Gaza. Dall’inizio della sua campagna genocida, Israele ha ucciso quasi 270 giornalisti e operatori dei media a Gaza.

Secondo uno studio della Brown University, si tratterebbe del “peggior conflitto di sempre per i giornalisti”. Conflitto?

Sempre secondo lo stesso rapporto, il bilancio delle vittime tra i giornalisti, dal 7 ottobre 2023, ha superato quello della guerra civile americana, della Prima e della Seconda guerra mondiale, della guerra di Corea, della guerra del Vietnam, dei conflitti jugoslavi e della guerra in Afghanistan dopo l’11 settembre, messi insieme. Eppure, dopo quasi due anni di genocidio e dopo aver trasformato Gaza nel peggior cimitero di giornalisti caduti in zone di conflitto della storia, alcuni media occidentali, allineati alla versione israeliana delle notizie, riescono ancora a pubblicare titoli e frasi che etichettano Anas al-Sharif come terrorista, o che mettono in dubbio la sua professione di giornalista:

Bild: “Terrorista travestito da giornalista ucciso a Gaza”;
La Repubblica: “…l’eliminazione…del giornalista-terrorista Anas al-Sharif” (termine prontamente eliminato dall’articolo in seguito a numerose reazioni indignate da parte dei lettori);
Un altro quotidiano italiano, seppur meno popolare, Il Foglioha intitolato un editoriale: “Giornalista o terrorista? Il caso di Anas al-Sharif”.

Altri giornali, nel loro “dovere di cronaca”, hanno invece deciso di collocare la versione israeliana delle notizie in cima ai loro articoli, addirittura nel titolo:

Fox News: “Israele afferma che il giornalista di Al Jazeera ucciso in un attacco aereo era il capo di una ‘cellula terroristica’ di Hamas”;
Nbc: “Israele uccide 5 giornalisti di Al Jazeera in un attacco aereo, sostenendo che uno di loro lavorava per Hamas”;
New York Post: “Israele afferma di aver ucciso un terrorista di Hamas che si fingeva un reporter di Al Jazeera e altre 4 persone in un attacco aereo mirato”;
Corriere della Sera: “Gaza, il corrispondente di Al Jazeera Anas Al Sharif e cinque colleghi uccisi in un raid. Israele: “Era un terrorista di Hamas”.

Nel 2024, Anas Al-Sharif ha ricevuto il premio Human Rights Defender Award di Amnesty International Australia. Secondo Amnesty International, nel corso della sua carriera di giornalista, Anas Al-Sharif ha dimostrato “straordinaria resilienza, coraggio e impegno a favore della libertà di stampa, nonostante lavorasse in condizioni pericolose”. Come scrive l’organizzazione, gli Human Rights Defender Awards “celebrano l’eccellenza nel giornalismo sui diritti umani e il notevole coraggio e la determinazione dei giornalisti impegnati a documentare la realtà della crisi di Gaza.”

E aggiunge: “In un contesto globale sempre più afflitto da disinformazione e fake news, in cui il giornalismo si è diffuso su nuove piattaforme e i pregiudizi sono diventati parte integrante dell’informazione dei principali media, la necessità di difendere la libertà di espressione e di opinione non è mai stata così importante. Il premio rende omaggio a coloro che hanno rischiato la vita per garantire e difendere l’integrità del giornalismo, proteggendo la libertà di informazione indipendente.”

Chi dobbiamo “ringraziare” per questi ennesimi massacri e attacchi alla libertà di informazione indipendente? Israele, ma non solo.

Se, dopo quasi due anni di genocidio, una significativa porzione dei media occidentali continua a basare le proprie notizie sulla narrativa governativa offerta da uno Stato che usa la fame come arma di guerra, che ha ucciso e mutilato il maggior numero di bambini in zone di conflitto recenti e causato il peggior crollo dell’aspettativa di vita alla nascita della storia recente, il maggior numero di personale sanitario e di personale delle Nazioni Unite, e ha trasformato il diritto internazionale in una farsa, oltre a essersi distinto per aver manipolato sistematicamente i fatti e la storia, allora non si tratta solo di disinformazione, pregiudizi cognitivi o empatia selettiva. Si tratta di propaganda suprematista pro-genocidio.

Il termine si riferisce a una strategia di comunicazione che diffonde e legittima narrazioni in cui alcune popolazioni sono considerate superiori e più meritevoli di tutela e compassione rispetto ad altre, presentando queste ultime come inferiori, disumanizzate o colpevoli delle proprie condizioni avverse. Questo tipo di propaganda non si limita a manipolare i fatti, ma serve a giustificare e rendere socialmente accettabile la violenza di massa, e normalizzare il genocidio della popolazione “inferiore”, riducendo o annullando l’empatia che il pubblico potrebbe provare per essa.

Quello di Anas al-Sharif è stato un assassinio annunciatoCome spiegava la Committee to Protect Journalists il 24 luglio 2025: “Il Comitato…è profondamente preoccupato per la sicurezza del corrispondente di Al Jazeera Arabic da Gaza, Anas al-Sharif, che è oggetto di una campagna diffamatoria da parte dell’esercito israeliano, che egli ritiene sia un preludio al suo assassinio.

Anas al-Sharif è stato assassinato due volte. Prima da Israele, poi dai media che lo hanno bollato come terrorista.

Non credo in nessuna divinità ultraterrena, ma, come scrive il testamento di Anas al-Sharif: “Che Dio sia testimone contro coloro che sono rimasti in silenzio e hanno accettato il nostro massacro, contro coloro che ci hanno soffocato e i cui cuori non sono stati commossi dai resti sparsi dei nostri bambini e delle nostre donne, e che non hanno fatto nulla per fermare il massacro che il nostro popolo ha subito per più di un anno e mezzo”.

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Niente testimoni: a Gaza giornalisti palestinesi bersaglio – Ennio Remondino

Giornalista, mestiere nobile se libero

Ho fatto il giornalista per una vita ed insisto anche in vecchiaia. Prima, quando ancora la Rai aveva intenti diversi, ha frequentato molti scenari di guerra. Nella Sarajevo assediata ero sostenitore del giubbotto anti proiettile sotto la giacca a vento per non istigare i cecchini al colpo grosso con un giornalista nel loro carniere. L’ho proseguito in Medio Oriente, Iraq, Afghanistan e Libano. Ma Gaza ora essere giornalista è diventata minaccia militare e ogni arma per ammazzarci e tapparci la bocca è buona.

Testamento

«Gaza è quel luogo del mondo dove i giornalisti fanno testamento. Un ultimo messaggio, professionale e umano, perché da lasciare ai propri figli non hanno più niente. Lo fanno perché sono obiettivi dichiarati della macchina da guerra israeliana. Anas al-Sharif era da tempo nelle liste dei most wanted del governo israeliano», piange Chiara Cruciati sul manifesto.

Anas al-Sharif

Aveva un mirino puntato addosso, il grilletto è stato premuto domenica sera: una bomba ha centrato la tenda della stampa fuori dall’ospedale al-Shifa di Gaza City. Ha preso fuoco. I soccorritori, gente disperata che correva gridando i loro nomi, ha trovato i corpi semi-carbonizzati, sfigurati. Anas al-Sharif e Mohammed Qreiqeh, corrispondenti di al-Jazeera, Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal, Mosaab Al Sharif e Mohammed al-Khalidi, cameraman e fotografi: le ultime sei vittime del giornalisticidio in corso a Gaza.

Giornalisticidio

Sono almeno 238 i lavoratori dell’informazione ammazzati dall’esercito israeliano. Ieri una folla enorme li ha sepolti avvolti nei lenzuoli bianchi. Sopra, hanno poggiato una bandiera della Palestina e i giubbotti con su scritto «Press». Dovrebbero fare da scudo e invece sono una calamita di morte. Sui social e in tv i colleghi hanno riversato un dolore difficile da spiegare a parole. L’anchorman di al-Jazeera chiamato a dare la notizia singhiozzava. Mahmoud Abu Salam è scoppiato in lacrime mentre raccontava dei «compagni di guerra e genocidio», di Anas «una colonna, una montagna, del campo profughi di Jabaliya» e del «mondo che sta a guardare quello che ci stanno facendo».

«Noi che non siamo ancora stati seppelliti, continueremo a fare informazione», ha detto a descrivere un destino che immagina già segnato.

Massacri di massa

Hani Mahmoud, collega di al-Jazeera, era a poca distanza, ha sentito l’esplosione: «È la cosa più difficile per me da raccontare in 22 mesi». C’è chi ha condiviso il loro lavoro, tra la gente di Gaza, a due passi dalle esplosioni, dentro le corsie degli ospedali e in quei campi di massacri di massa che sono i centri di distribuzione degli aiuti alimentari della Ghf. Tutti loro hanno perso peso, sonno, tempo per i figli, pezzi interi di famiglie: in un video si vede al-Sharif abbracciare il collega Noufal in ginocchio, in lacrime, accanto al corpo della madre, uccisa qualche mese fa.

Ci scopriamo comunità

«La scomparsa di Sharif, il volto più noto del giornalismo palestinese di Gaza, successore morale di Wael Dadouh, ha straziato una comunità intera. Come fosse un sintomo, un’avvisaglia: siamo al punto di non ritorno, il massacro sarà totale, e invisibile». Anas aveva 28 anni e due figli piccoli. Non li vedeva quasi mai. Nel suo testamento si è rivolto a chi quelle righe le avrebbe lette dopo la sua morte: gli ha affidato la Palestina «cuore pulsante di ogni persona libera nel mondo» e la figlia Sham, il figlio Salah e «la mia compagna di vita, mia moglie Bayan, rimasta salda come il tronco di un ulivo che non si piega…Vi esorto a non lasciarvi mettere a tacere dalle catene o confinare dalle frontiere. Siate ponti verso la liberazione della terra e del suo popolo».

L’eroe letto del nemico

Sui social è apparso anche altro, le accuse di Israele ad al-Sharif. Riceveva a cadenza regolare minacce dirette, l’ultima a luglio sulla pagina X del portavoce in lingua araba dell’esercito, Avichai Adraee. «Ha servito come capo di una cellula terroristica di Hamas», scrive l’esercito allegando una sorta di tabella Excel che non è chiaro da dove provenga in cui lo si definisce un membro delle forze di élite Nukhba, battaglione di Jabaliya. Accusato persino di aver partecipato all’attacco del 7 ottobre, cosa non vera.

«Accuse che non hanno alcun senso, se fosse vero lo avrebbero ucciso o arrestato molto tempo fa», il commento del giornalista israeliano Meron Rapoport: lo hanno ucciso ora, ha aggiunto, per il suo ruolo «nel raccontare che a Gaza c’è la fame» e in vista dell’invasione di Gaza City per la quale Israele vuole minimizzare i testimoni.

Macchina del fango israeliana

Di fake news parlano anche lo scrittore Akiva Edar e Human Rights Watch («accuse senza fondamento né valore»). «Israele ha accusato al-Sharif e altri prima di lui – commenta Frank Smyth, fondatore del Global Journalist Security – e non ha mai mostrato alcuna prova. È una campagna per eliminare la stampa». Assenza di prove e le narrazioni in contraddizione tra loro (comandante militare, incapace alla leva, presente il 7 ottobre, anzi no), è stata oggetto di discussione anche alla luce dello ‘show’ del primo ministro Benjamin Netanyahu che ha mostrato foto di bambini palestinesi pelle e ossa pubblicate sui media internazionali per tacciarle di fake news, mentre impedisce alla stampa l’ingresso a Gaza.

Chiudere gli occhi al mondo

È così che i palestinesi e alcuni colleghi israeliani leggono l’ultima carneficina: Israele vuole chiudere gli occhi del mondo su Gaza e quegli occhi sono quelli dei giornalisti palestinesi, che stanno insegnando cosa significa fare giornalismo ai colleghi di ogni angolo di pianeta. «Non si tratta solo di Anas al-Shari – ha commentato Jodie Ginsberg, direttrice del Committee to Protect Journalists, a cui il reporter si era rivolto per chiedere aiuto – È parte di una pratica lunga decenni di Israele: uccidere giornalisti».

Persino i governi si scuotono

Condanne anche dai governi, Qatar, Germania, Regno unito. Per la Ue è intervenuta Hadja Lahbib, commissaria europea per la parità: «Un attacco diretto alla libertà di stampa». L’Onu parla di uccisione «annunciata ma senza alcuna prova che non fosse altro che un giornalista» e Reporter Senza Frontiere di «tattica ripetuta che inizia con una campagna diffamatoria per giustificare gli omicidi (di giornalisti)». Netanyahu non vuole che si racconti Gaza, le carneficine, la fame. Ieri altri cinque palestinesi sono morti di stenti, il bilancio supera ormai le 220 vittime per denutrizione, di cui almeno 101 bambini. E sempre ieri un’altra intera famiglia è stata sterminata da un raid sul quartiere di Zeitoun, a Gaza City, sei bambini e i loro genitori. Non si deve sapere.

Media bersaglio, alcuni numeri

Per gli operatori dei media il conflitto a Gaza, secondo Dario Bellini, è stato il più mortale mai registrato. Sono 232 i reporter che sono stati uccisi dall’inizio della guerra. Dal 7 ottobre 2023 sono morti a Gaza più giornalisti che in entrambe le guerre mondiali, compreso i più recenti conflitti messi insieme, con una media di 13 lavoratori dei media uccisi al mese. Con una decisione che non ha precedenti nella storia moderna Israele ha impedito ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza, lasciando il compito di documentare la guerra esclusivamente ai giornalisti palestinesi residenti nella striscia. A questi si sono aggiunti dei giovanissimi reporter, fotografi e filmmakers che caricano i loro video su TikTok, Instagram, Facebook e Telegram. I commenti sui post di whatsapp e le immagini caricate su Youtube dai bloggers sono diventati la fonte principale dei network internazionali e delle agenzie di notizie.

Prima, solo ‘embedded’ pilotati

Nei primi mesi di invasione le autorità israeliane avevano iniziato a ospitare i giornalisti stranieri. Hanno fornito loro alloggio e trasporto a spese del governo e hanno organizzato tour ben pianificati nelle zone vicine a Gaza, secondo programmi meticolosi. Le uniche immagini dovevano essere quelle fornite dal governo israeliano, soltanto attacchi dal punto di vista dei carri armati che invadevano i sobborghi della città e come in un video-game le esplosioni delle bombe che colpivano i bersagli.

Gaza prima del 7 ottobre

Prima del 7 ottobre 2025 erano diverse le televisioni e le troupe internazionali che operavano sulla striscia, e numerosi i fotografi professionisti palestinesi e molti sono i reporter che si sono formati sul campo. I giornalisti che da 18 mesi sono gli unici corrispondenti da Gaza hanno letteralmente vissuto tutto ciò che hanno riportato: «Siamo stati sfollati, affamati, disidratati, senza dormire. Pronti in ogni momento a documentare le stragi e dare voce alla gente». In un assedio totale, negli ospedali bombardati, davanti alle loro case distrutte, la fuga dei Gazawi a sud e a nord senza sapere dove andare.

Contro i testimoni, non solo Israele

Nei Territori palestinesi l’instabilità politica e le minacce alla sicurezza fanno sì che i giornalisti lavorino in un ambiente ad alto rischio. Continuano a essere soggetti a restrizioni da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma anche di Hamas e di Israele. «In Cisgiordania, i giornalisti sono vittime di continue violazioni della libertà di stampa da parte sia dell’ANP che delle forze di occupazione israeliane. In ogni caso le aggressioni dei coloni israeliani vengono spesso documentate dai telefonini degli aggrediti, come recentemente l’arresto del regista palestinese Hamdam Ballal autore del documentario premio Oscar ‘No other land’.

Il posto più pericoloso al mondo

Per gli operatori dei media Gaza è diventata il posto più pericoloso al mondo. Un nuovo rapporto pubblicato dal Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS) aggiorna a fine aprile l’elenco dei 15 operatori dei media che sono stati uccisi a Gaza dall’inizio del 2025. Il rapporto che monitora le violazioni israeliane contro i giornalisti, ha evidenziato i continui attacchi e la sistematica distruzione degli uffici di corrispondenza. Reporters Senza Frontiere (RSF), con sede a Parigi, ha documentato 35 casi in cui l’esercito israeliano ha preso di mira e ucciso giornalisti a causa del loro lavoro. Tra questi, per restare al 2025, c’era il reporter di Al Jazeera Hamza Dahdouh, ucciso il 7 gennaio quando un missile ha colpito il veicolo su cui viaggiava nel sud di Gaza.

Algoritmi spia per militari assassini

Human Right Watch ha pubblicato recentemente uno studio sull’uso degli strumenti digitali di guerra. Si tratta di tre sistemi di AI-powered database: Il «Gospel» (il Vangelo) utilizza un algoritmo per elaborare i dati di sorveglianza per generare elenchi di obiettivi da colpire. «Lavender» assegna ai residenti di Gaza un punteggio numerico sulla probabilità che una persona sia membro di un gruppo armato, e gli ufficiali israeliani decidono la soglia oltre la quale un individuo può essere indicato come bersaglio.

«Where’s Daddy?» (dov’è papà)

Infine ‘Where’s Daddy?’ determina quando un obiettivo si trova in un luogo specifico, spesso la sua presunta casa di famiglia, in modo da poterlo attaccare lì. Il sistema una visione in tempo reale dei movimenti dei residenti di Gaza dove ci sono più di un milione di contratti telefonici. «L’esercito israeliano sta usando dati incompleti, calcoli imperfetti e strumenti non adatti allo scopo per aiutare a prendere decisioni sulla vita e sulla morte a Gaza», denuncia Zach Campbell, ricercatore senior di sorveglianza presso Human Rights Watch.

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Discutere se Anas al-Sharif meritasse di essere ucciso o no è una deriva offensiva, pericolosa e razzista – Dalia Ismail

Anas al-Sharif, ragazzo palestinese e giornalista, aveva 28 anni. Era sposato e aveva due figli: Sham e Salah. Era uno dei principali corrispondenti di Al Jazeera, portando avanti il giornalismo come atto di verità e resistenza.

L’11 agosto 2025, al-Sharif e altri quattro colleghi – Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Mohammed al-Khaldi, Moamen Aliwa – più il loro autista Mohammed Noufal – sono stati assassinati insieme in un attacco deliberato da Israele contro una tenda che ospitava giornalisti nei pressi dell’ospedale Al-Shifa. L’ennesimo tentativo israeliano, statunitense ed europeo di eliminare le voci palestinesi.

Il lavoro di Anas al-Sharif e la sua dedizione hanno riempito le giornate di tutti i palestinesi, e la sua morte è un colpo che violenta le nostre anime come se fosse un membro della famiglia di ognuno di noi. “Aspettavamo di sentire con la sua voce la notizia del cessate il fuoco, ma la colonia genocida ha spento la sua voce prima di spegnere il fuoco”, mi ha detto la mia amica Yasmina, mentre cercavamo di elaborare questo ennesimo evento traumatico che ha travolto le nostre vite.

 

Mai nella storia sono stati assassinati così tanti giornalisti con attacchi mirati, e mai con così tanta impunitàCirca 270 giornalisti palestinesi sono stati uccisi dall’inizio del genocidio.

Oggi il dibattito mediatico e politico sarebbe dovuto partire da questo dato tragico e trovare soluzioni per tutelare i giornalisti palestinesi. Ma questa è solo la teoria. Nella pratica, il dibattito si è concentrato sul fatto se Anas al-Sharif, ucciso mentre era disarmato e affamato, meritasse o meno di essere uccisoin base al fatto che simpatizzasse per Hamas oppure no.

Questa discussione è offensiva, pericolosa e razzista: significa tentare, lentamente, di far digerire alle persone l’assassinio di al-Sharif e di placare l’indignazione pubblica. Perché, nella realtà, questo è un dettaglio irrilevante di fronte al fatto oggettivo: Israele ha bombardato una tenda vicina a un ospedale dove si rifugiavano dei giornalisti, uccidendo persone disarmate che svolgevano il proprio lavoro.

 

In altre parole, secondo questo dibattito, i palestinesi devono essere umanizzati solo se si adeguano alla narrazione e alle visioni politiche occidentali, ovvero di chi li ha sempre ignorati, deumanizzati e demonizzati. Il fatto che si discuta dell’assassinio di al-Sharif (e che lo si chiami solo per nome proprio è un atto razzista, perché lo infantilizza, dato che per i giornalisti occidentali si usa il cognome) concentrandosi sul suo presunto sostegno a Hamas è puro razzismo. Significa che la vita e la dignità dei palestinesi sono subordinate alle opinioni politiche che altri ritengono accettabili. L’umanità dei palestinesi va riconosciuta e difesa indipendentemente da chi siano o da cosa pensino.

Al-Sharif era libero di avere le proprie opinioni politiche, e a prescindere da queste non avrebbe mai dovuto essere assassinato. al-Sharif avrebbe dovuto essere vivo per continuare a documentare il genocidio palestinese commesso da Israele, dagli Usa e dall’Ue nell’impunità più totale. Questa è la verità. L’altra verità è che chi ha partecipato a dibattiti che fomentano razzismo e propaganda genocidaria dovrebbe essere chiamato a risponderne legalmente, e non continuare a scrivere certi articoli come se fossero normali e innocui.

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Anas Al-Sharif ucciso con altri cinque giornalisti a Gaza: chiunque ha una voce pubblica la usi per fermare Israele – Francesca Fornario

I bambini ci chiederanno conto di dove eravamo oggi. Di cosa facevamo per impedirlo. Sham e Salah, i figli di Anas, ci chiederanno da che parte stavamo

Cosa possiamo fare? Questo.

Leggete ad alta voce in spiaggia, in metro, in ufficio questa dichiarazione di Amnesty International: “La morte di così tanti bambini e di altri civili non può essere semplicemente liquidata come ‘danno collaterale’, come sostenuto da Israele. Gli attacchi contro Gaza sono stati senza precedenti: almeno 1400 palestinesi uccisi dalle forze israeliane comprendono circa 300 bambini e altre centinaia di civili che non stavano minimamente prendendo parte al conflitto. Amnesty ha riscontrato come le vittime degli attacchi su cui ha condotto le indagini non siano rimaste uccise nel fuoco incrociato tra miliziani palestinesi e soldati israeliani e non stessero nascondendo miliziani o altri obiettivi militari. Molte sono state uccise durante il bombardamento delle loro case, nel sonno, mentre sedevano in cortile o stendevano il bucato. I bambini sono stati colpiti mentre giocavano sul letto. Personale medico e mezzi di soccorso sono stati presi di mira mentre cercavano di soccorrere i feriti o recuperare le vittime”.

È una dichiarazione del 2008. Quindici anni prima del 7 ottobre. Anas Al-Sharif aveva 12 anni, lo vediamo in questa foto pubblicata dallo scrittore e premio Pulitzer palestinese Mosab Abu Toha, che di anni ne aveva 16 e da quelle bombe israeliane sui civili di Gaza rimase ferito…

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Genocidio: istruzioni per l’uso – Giuseppe Gagliano

Genocidio. Non lo puoi dire, ma puoi farlo. Anzi, puoi guardarlo in diretta, con i numeri che scorrono come il punteggio di una partita. L’unica differenza è che qui il risultato è sempre lo stesso: migliaia di civili uccisi, quartieri rasi al suolo, bambini sotterrati vivi.

Il gioco è noto: cambiare le parole per salvare la faccia. Invece di “sterminio”, si dice “operazione di sicurezza”. Invece di “strage di civili”, si dice “danni collaterali”. Invece di “assedio”, “blocco difensivo”. Così, i governi che predicano diritti umani possono continuare a vendere armi e pezzi di ricambio ai bombardieri.

I fatti? Basta guardarli. Dal 7 ottobre 2023, le Nazioni Unite contano oltre 80 mila morti e feriti civili a Gaza. Di questi, secondo l’UNICEF, più di un terzo sono bambini. Nella sola primavera 2024, le forniture di bombe a guida di precisione dagli USA a Israele sono aumentate del 40%. Mentre il Congresso discuteva di “moderazione” e il Pentagono inviava nuovi lotti di GBU-39, perfette per penetrare edifici e seppellire chi ci sta dentro.

E l’Europa? Bravissima nelle condoglianze postume. Dal Consiglio europeo del dicembre 2023 fino all’estate 2025, le riunioni si sono concluse con dichiarazioni-fotocopia: “cessate il fuoco immediato”, “diritto alla sicurezza di Israele”, “protezione dei civili palestinesi”. Nessun embargo sulle armi. Nessuna sanzione. Zero. Nel frattempo, Germania, Italia e Francia hanno continuato a esportare sistemi elettronici, droni e componenti bellici.

Poi c’è la copertura mediatica. All’inizio, fiumi di reportage. Dopo, solo “brevi” relegati a pagina 18. Con i grandi quotidiani a misurare le parole come se scrivere “genocidio” fosse reato. Quando l’Aia ha aperto un’inchiesta nel maggio 2024 per “possibili crimini di guerra e contro l’umanità”, i titoli erano già passati a “scontro armato” e “stallo negoziale”.

E così, la catena è completa: politici che autorizzano, governi che riforniscono, media che edulcorano, cittadini che voltano pagina. E in mezzo, un popolo ridotto alla fame e alle macerie.

Un giorno, i nostri figli e nipoti studieranno questa storia. Leggeranno dei bambini uccisi perché nati nel posto sbagliato. E chiederanno: “Ma voi, dov’eravate?”. E noi, se saremo onesti, dovremo dire: “C’eravamo. E discutevamo se la parola genocidio fosse appropriata”.

da qui

 

 

E se un giorno qualcuno giustiziasse 269 giornalisti israeliani sionisti, con l’accusa di essere terroristi, direbbero qualcosa i potenti dell’Europa, complici e sostenitori del genocidio, o ignorerebbero, come fanno con i giornalisti palestinesi? – Francesco Masala

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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