2000: viene ammazzato Antonio Russo

dossier di Francesco Masala con un reportage di Russo, l’articolo di Stefania Pavone e link al film di Leonardo Giuliano

 il 16 ottobre 2000 Antonio Russo viene trovato morto vicino a Tbilisi, in Georgia: lavorava come inviato per Radio Radicale.

Un ritratto di Antonio Russo (di Stefania Pavone)

E’ un bambino silenzioso che quasi non parla, invaghito di miti classici della grecità, la futura voce che racconterà a tutto il mondo la deportazione dei kosovari albanesi nel marzo 1999. Nato nel 1961 a Chieti, è prelevato da un orfanotrofio abruzzese a circa 6 anni. Cercherà con disperazione , per tutta la vita, la sua vera origine.

Ad un amico, dirà che, forse, i suoi veri genitori sono dei kosovari. Già orientato alla prassi, lascia negli anni ’80 la Facoltà di Veterinaria di Pisa per iscriversi, nell’86, alla Facoltà di Filosofia de “ La Sapienza” di Roma. Sempre nell’86 fonda con un gruppo di studenti la rivista “Philosophema”, cui dedicherà gran parte del suo impegno intellettuale. Spregiudicato, acuminato come gli illuministi che amava, all’Università approfondisce i problemi di filosofia del linguaggio e di filosofia della scienza. Da editore autogestito e autoprodotto, pubblica “ Lineamenti di una teoria dell’etnocidio” del filosofo di teorica Rodolfo Calpini e “La storia infinita”, raccolta di profili storiografici sul tema del nazionalismo tragicamente risorto nel mondo post- bipolare. Il giornalismo si staglia come una scelta più lenta: lo attraggono la militanza politica nella Gioventù Federalista e gli assemblearismi degli ambienti radicali. Nel ’94, attraversa in chiave pedagogica la piccola rivista “ Specchio”, poi è ancora nei seminari internazionali di Ventotene della Gioventù Federalista. E’ qui che la vocazione cosmopolita sboccia conducendolo al giornalismo. Intellettuale che “ dice la verità” sempre e comunque, antiaccademico, che rifiuta, da outsider, di specializzarsi in funzione del potere, prima dell’arrivo a Radio Radicale matura una lunga serie di umiliazioni: le redazioni italiane gli chiudono decisamente le porte. Note le sue missioni per Radio Radicale: Cipro, Algeria, Kossovo, Ruanda, Cecenia. Il giornalismo di Antonio Russo intreccia nella scrittura motivi da classico hemingwayano, il freddo ragionamento sulle logiche della realpolitik, fino a notazioni da etnografo pratico. Ha scritto una pagina gloriosa della stampa mondiale semplicemente vivendo la guerra con gli occhi di chi, secondo lui, la subiva più degli altri. Muore fragorosamente in Cecenia, urlando, con il suo corpo torturato tutto il carico di angoscia di lucido intellettuale del suo tempo. Partigiano per poter dire il dolore della Storia, per ironia della stessa, sulla sua fine grava un silenzio di piombo: quel silenzio su cui si è appuntata attraverso una fervida passione filosofica, la sua stessa riflessione sulla guerra.

https://web.archive.org/web/20081002054849/http://www.radioradicale.it/un-ritratto-di-antonio-russo

 

Sono immagini che non si possono dimenticare

 

Written by Antonio Russo 
La macchina corre sulla statale georgiana per l’Ingushetia. Ho un visto turistico di quindici giorni, solo duecento dollari, non importa della spudorata menzogna. Per i giornalisti non è possibile entrare dalla parte georgiana, solo da Mosca.

E’ il 20 gennaio, siamo in quattro: un georgiano, contattato all’ultimo, Goergy Malkash il fraterno amico ceceno e un pazzo tassinaro georgiano di una cinquantina d’anni di nome Mamu, classico praticone sul passaggio dei confini, basso, tracagnotto, capelli brizzolati, appena spruzzati d’argento, grande urlatore nel traffico caotico georgiano, che ci dovrebbe “traghettare” attraverso il confine russo. Solo 100 dollari per portarci  per circa 350 Km al confine ingusceto. Freddo pungente. Attraversiamo la frontiera ossetta del nord(Alania) pensando che ormai manchi poco al confine. All’improvviso, sonnolenti, veniamo accecati da una lampada di stop della polizia. Frenata brusca. Ci riprendiamo. Controllo documenti. L’uomo che prende i nostri passaporti sembra conoscere benissimo Mamu, il tassinaro. E’ un anziano sergente della polizia con baffetti eun mod violento di comportarsi con noi. Uscendo dalla macchina ci strattona urlandoci di entrare nella baracca del posto di blocco. Penso fra me e me: “ Cribbio, siamo fregati”. Mamu che ha mangiato la foglia, vedo che si allontana dal taxi e dai poliziotti. Guardandolo mi viene da dire a Malkash: “ che figlio di puttana”. Okay dobbiamo gestirci la situazione tra noi, io Malkash e Georghy. IL timore è che per Georghy forse ci siano dei problemi. Comunque siamo assieme e assieme avremmo sfangato. Sapevo che gli ossetti nel 1993 avevano avuto un conflitto con gli inguscheti con la morte di 100 persone da entrambe le parti. L’astio comunque non è finito anche nei confronti dei georgiani che all’epoca preferirono non intromettersi. Ben altri problemi negli ultimi anni interessarono la Georgia: la guerra abkhata con circa 100 mila morti e 250.000 profughi, guerra aiutata anche da parte della Russia a favore osseina, la guerra civile tra il 1992 e 1993 nella competizione fra il Presidente Gamsachurdija e il nuovo presidente Sevardnadze, la guerra con l’Ossetia del Sud a seguito delle rivendicazioni dell’Armenia per una riunificazione dei territori, essendo la maggioranza osseta di origine armena: 1000 furono i morti. Per questo sono preoccupato insieme a Malkash. Ci diamo una occhiata di intesa e di coraggio. Georghy è con noi, vuole raggiungereq Vladikavkaz dove ha amici e parenti. L’anziano sergente, chiaramente ubriaco ci spintona all’interno della guardiola. Gli altri agenti, fra il divertito dai modi del sergente e del faceto, ci guardano come succulente prede. Controllato il passaporto senza il minimo problema mi chiedono dei soldi. Gli chiedo il motivo. Laconicamente mi risponde: “ C’è la prigione”. Cedo. Georgy, spinto all’angolo della guardiola,iperriscaldata dalla stufetta a legna di alluminio, è sotto le vessazioni di un vecchio sergente che continuamente sbraita nei suoi confronti. Gli urla in georgiano. Non riesco a  capire. Ad un tratto il sergente lo colpisce con una lampada in faccia. Mi sento umiliato, il primo istinto è di rendergli la pariglia. Malkash capisce e mi tira per la manica del cappotto. Ma non è finita. Dopo aver pagato il pizzo, circa 60 dollari l’agente mi lascia andare ma non il vecchio sergente. Si volge a me chiedendomi il visto russo in qualità di turista. Lo controlla ma non crede che io possa essere un turista. Nella perquisizione della macchina trovano il computer. E’ furbo ma stupido. Ingaggia con me un interrogatorio. Pensa io sia una spia e come per Georghy mi minaccia con la lampada. Alzo le braccia a mo’ di difesa. Malkash è preoccupato. La sua quotidianità come quella di Georghy era l’essere lupi travestiti da agnelli. La tensione di respira nella afosa aria di guardiola. Sono le due di notte e siamo soli. Finalmente ci lasciano andare. In macchina Goerghy esplode in un effluvio di male parole nei confronti dei poliziotti ossetini. E’ nervoso, umiliato di essere stato picchiato senza potere reagire. E’ un ragazzo robusto, non avrebbe problema di mettere knought-out il sergente, ma così va la vita. Finalmente giungiamo Vladikavkaz. Andiamo a casa di amici di Malkash. Il mio codino potrebbe tradirmi, siamo in territorio russo. A casa di Sadi, bevendo tè, parliamo della situazione dei profughi ceceni. Vivono in tredici in un solo grande stanzone dei profughi ceceni. Vivono in tredici in un solo grande stanzone, sei di loro sono profughi da Grozny, con loro non è tutta la famiglia gli altri sono rimasti a Grozny sotto i bombardamenti. Chiedo loro quali siano le condizioni di vita. La nonna, l’anziana della famiglia arrivata a Vladikavkaz dopo quindici giorni di viaggio in pieno inverno, mi racconta  che il cibo non è sufficiente. Soldi non ce ne sono: “ non abbiamo i soldi, i russi ce li hanno presi solo per lasciarci andare via. Il lavoro qui non c’è. Dio benedica Mosser per la ospitalità che non possiamo contraccambiare”. Gli occhi umidi di tristezza rivelano una rassegnazione antica: poter morire sulla propria terra, dura, ingrata, ma propria. Chiedo informazioni sugli altri profughi. Purtroppo non ci sono organizazioni  internazionali o umanitarie che possano fare più di tanto,i russi non lasciano passare nessuno e tanto meno organizzare un’ assistenza. I bambini intorno a noi giocano chiassosi. La matrioska quasi in lacrime mi chiede: “ che possiamo fare?”Ormai sono più i vecchi che i giovani. Quelli che possono combattere sono in Cecenia, solo noi e i bambini siamo riusciti Allah sa come, a metterci in salvo. Non pensavo che alla mia età dovessi ancora vedere questo. Io ricordo i tempi passati e nessuno sapeva. La mia famiglia fu deportata nel 1944 in Kazakistan. Nessuno si salvò, solo io riuscii a sopravvivere, Inshallah. E ora?”. Guardandomi negli occhi lasciò cadere il discorso. Stanca, affranta, tradita, non aveva più voglia di parlare. Con  Malkash, parliamo di questo incontro. Mi risponde raccontandomi la sua storia.

“ Vedi Antonio,la mia famiglia fu distrutta allo stesso modo nella deportazione dei 40.000 in Kazakistan. Era il marzo del ’44 quando i ceceni vennero deportati, compresala mia famiglia. Dopo due settimane di viaggio, blindati nei vagoni, fummo abbandonati nella parte nord- est del Kazakistan. Sai lì è deserto, e in inverno il gelo è il peggior nemico. Abbandonati, scaricati come sacchi di farina cercarono di sopravvivere riscaldandosi con quello che si poteva trovare. Poi la tragedia. Divelte le ultime traversine della ferrovia per fare il fuoco gli anziani decisero, pur di salvare i giovani, di sacrificare la loro vita gettandosi nei fuochi ormai sfiniti per mantenere il calore nella speranza di salvare i giovani da questa tragedia. Ti sembra romantico eh?” mi chiese Malhask. Non so cosa rispondere, resto attonito quasi incredulo. Sapevo bene delle pulizie etniche sotto il regime di Stalin ma poco sul destino dei ceceni. “  La mia famiglia è una di queste. Completamente distrutta, solo mio nonno è riuscito a sopravvivere tutti gli altri furono trucidati dai soldati russi. Si salvarono solo quelli che riuscirono a fuggire”. Cerco di capire meglio una storia dimenticata. Vengo a conoscenza del fatto che Stalin decise questo sterminio con l’accusa nei confronti dei ceceni di essere stati collaborazionisti dei tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Ma la storia non è questa. Da 170 anni i ceceni dimostrano la loro fierezza nel difendere una indipendenza che rispetti al loro dignità culturale e etnica. L’estremismo islamico non è parte di loro. I profughi in Ingushetia al momento sono circa 250.000 e la stessa UNHCR ha problemi per il monitoraggio e la assistenza. Nessun’altra organizzazion internazionale è presente! Orse l’errore ceceno è che non sanno gestire l’immagine. Gente silenziosa, fiera, difficile alla lacrima, combattiva.

Cerchiamo di raggiungere Mozdok lingue estrema della Ossetia del Nord nel territorio russo. Le informazioni ricevute erano importanti. Per i profughi ceceni in Inguscetia la situazione è estremamente grave sotto le vessazioni dei soldati russi e la assenza di assistenza sanitaria e alimentare.Ci fermano e veniamo tenuti in stato di fermo. Durante la interminabile attesa i soldati di frontiera russi vessano chiunque attraversi il confine. La media è di 50 dollari a persona ma la tassa è flessibile a seconda dell’appetito dell’ufficiale e del suo umore. Senza vergogna davanti a me l’ufficiale alacremente mette la mano in una tasca piena di soldi: Iari, rubli, dollari. Per i ceceni il trattamento è specialee. Per poter passare il confine le tariffe venno dai 150 ai 500 dollari. Il fatto è che solo gli uomini possono passare la frontiera per la Georgia. Le donne vengono rimandate indietro. Perfidia del ricatto. In questo modo l’uomo si terrà in disparte, non si arruolerà con i guerriglieri per paura di perdere la famiglia. Ho visto la scena di questa separazione diverse volte davanti a me durante lo stato di fermo in frontiera. Gli occhi, i visi, le espressioni, l’apparente sottomissione sono immagini che non si possono dimenticare. Malkash mi dice: “ Hai visto questo è una delle tante torture che ci stanno facendo. Ricordalo! Penso  che sia buono per i tuoi reportages”. Mentre Malkash mi parla ho in mente le parole “ It’s fools game, nothing about fool game, standing in cold rain feeling like a clown.”

https://web.archive.org/web/20060515132516/http://www.flipnews.org/italia/underground_3/blog/index.php?option=com_content&task=view&id=121&Itemid=72

La congiura del silenzio
Written by Antonio Russo 
Il secco, inconfondibile e sussurrato tac dell’orologio avverte. Alzo gli occhi anche se non ce ne sarebbe bisogno. Lancio una veloce occhiata, le 18,30. Ho capito, ricomincia il balletto.

E’ il marzo del ’99 a Pristina.

L’operazione Nato è in atto da giorni e la televisione tra poco ululerà il suo clac mortale e il silenzio sarà l’unica compagnia di una attesa.

Mi affaccio dalla finestra per registrare rumori, sussulti di una città condannata a morte.

Le strade sono deserte. Quella principale che conduce a Vellania è sgombra del solito check point della polizia. Quanti ricordi in quei check point maledetti.

La strada che conduce a Villania parte dalla grande moschea di Ali Pascia per poi arrampicarsi a sinistra zigzagando verso la collina.

Su questo tragitto nei mesi passati si svolgeva il gioco dei controlli della Milizia su chiunque passasse. Era un gioco tragicomico, una sorta di gatto e topo, dove un ironico croupier si divertiva a tenere banco. L’ora era sempre la stessa, le 7,30. All’imbrunire, la Polizia militare soprannominata “gli uomini blu”, come uno stormo di nottole usciva disponendosi nei punti principali d’ingresso del quartiere per Brasniesvki.

Un caldo caffè che bevo mi riporta ad un presente dai tragici presagi. Ritornano immagini di Sarajevo durante la guerra bosniaca, una città anch’essa umiliata nella sua dignità passiva, nell’attesa di una dichiarazione di morte.

A Pristina la differenza è l’abbandono, l’accettazione di una spugna gettata sul ring da parte del mondo nel denunciare l’efferatezza di una sentenza, la soluzione finale sola, blindata, incompresa, usata nel suo forzato isolamento.

La pulizia etnica appartiene al paradosso di una privacy non dichiarata ma accettata dalle politiche di sovranità.

Nel trascolare della memoria, il suono del campanello mi richiama. Corro senza sapere chi possa essere. Apro e sono i vicini, mi chiedono di poter telefonare a Premiza, per avere notizie dei loro parenti.

Sono due ragazze di circa 22, 23 anni, semplici nel loro imbarazzo, cercano il contatto, la pazienza della ripetizione dei gesti per un numero telefonico nasconde il nervosismo angosciato di una risposta.

Attendono, riprovano, incrociano i loro sguardi assorti nel dubbio. Mi guardano chiedendomi: si, perché?

Balbetto loro che la guerra è qui, divertirsi delle congiure del silenzio.

Finalmente, dopo l’ennesimo tentativo, prendono la linea, parlano concitatamente. Il loro sguardo per un momento si rasserena, le tristi paure si allontanano al solo sentire la voci dei propri cari.

Stanno bene. La città la stanno svuotando con i rastrellamenti, saccheggi, distruzioni sono la quotidianità.

Il cibo scarseggia e la paura non da loro modo di fuggire. Dopo tutto viviamo Inshallah, per volontà di Dio. Curiosamente ritrovo a vivere la concitata esistenza degli assediati, di prigionieri non dichiarati. Ci scambiamo sorrisi e sguardi di consolazione, ci domandiamo quale possa essere il nostro destino e, al contempo, l’istinto femminile osserva il disordine della camera dove lavoro, vivo, passo le notti. All’unisono si apprestano a pulirmi la stanza, riordinandola e anche la cucina. Mi imbarazza, cerco di dire loro che non importa, che lo posso fare anch’io. Bugiardo dico a me  stesso. Non  c’è cosa più meravigliosa di una donna che nei momenti più tristi si affaccia solo per dichiararti una solidarietà, una presenza quasi protettiva, rassicurante, silenziosa, dove il domestico rumoreggiare di richiami mi riporta ai tempi felici. Mi chiedono quanti anni abbia e perché non sia sposato, non è un bene per un uomo essere senza famiglia e senza figli. Gli imbarazzi di domande e risposte scompaiono di fronte all’emergenza. Si solidarizza pur nella solidarietà.

Ci salutiamo e ritornano nella casa prossima alla mia dove il resto della famiglia vive.

Profughi da Sdremiza vivono ormai da quattro mesi in questa casa messa a disposizione da un conoscente. I loro sei bambini sono, ai miei occhi, la cosa più cara, le loro voci mattiniere hanno rallegrato, quasi a miracolo, i giorni trascorsi. Gli spari, la granate, unico rumore che rompeva il silenzio tombale della città, scomparivano di fronte all’incosciente gioco dei fanciulli. Un giorno li vidi giocare dietro casa, in un campo aperto dove la visuale per i cecchini era delle migliori. Nessun riparo, nessuna possibilità di mettersi in salvo. Poco distante dal muro di facciata della casa c’era la carcassa di un cane, ucciso da una delle tante gragnuole dell’offensiva serba alla periferia della  città, forse da qualche cecchino posizionato sulle alture antistanti il nostro quartiere. Con la massima disinvoltura i pupi trotterellavano avanti e indietro, in un gioco la cui fantasia mi era sconosciuta, incuranti di quella carcassa, di quel terrore che non risparmiava neanche gli animali.

Gli spaventati richiami dei genitori per farli rientrare a casa non sortivano alcun effetto; la loro gioia comunque prevaricava qualunque logica. Li guardavano divertiti, ironici sfrontati nella loro dichiarazione di vita. Presi la macchina fotografica e scattai alcune foto con il pensiero di una cara memoria da portare con me.

Squilla il telefono, rispondo. E’ una delle tante corrispondenze con il mondo che comunque cercavo di fare, resoconto di una esecuzione in atto, denuncia di come l’intelligenza propagandistica serba approfittasse dei bombardamenti Nato per lavorare più alacremente nella pulizia etnica e nello svuotamento della città. Gli attacchi ai quartieri in perfetta coincidenza con gli attacchi Nato.

Le case bruciate come enormi falò dipingevano le notti di oscuramento. Mi appresto a passare l’ennesima notte, preparo la candela. La notte scende nella sua inesorabile complicità. Le case si serrano, le serrande si chiudono come occhi per la buonanotte. I cani si preparano a spadroneggiare per le strade, spavaldi netturbini dell’abbandono.

Non si dormirà, la notte sarà lunga. L’unico momento di quiete sarà verso le 3 di mattina.

Accendo la candela solo quando non riesco a trovare qualcosa. Per il resto mi orizzonto al buio quasi come un cieco. Aspetto l’inizio degli attacchi e raccolgo le idee sugli appunti presi durante il giorno e le mie perlustrazioni per la città per i prossimi reportage che, durante la notte, dovrò fare.

Nelle pause tra una chiamata e l’altra, non posso fare a meno di rimemorare la simpatica vitalità di Bellania, il quartiere di Rugosa, il futuribile Presidente di una futuribile Repubblica del Kosovo.

Quella febbrile vivacità durante il giorno. Decine di studenti dai 18 anni in poi la mattina, verso le 7,30, si ritrovavano in un allegro consesso nell’attesa di entrare nelle strette, anguste sale ricavate da case private.

Educazione, cultura, futuro. Tutti i giorni, da mesi oramai scendendo in centro li incontravo chiassosi quanto mai, irriverenti come tutte le generazioni studentesche. Dalla finestra li vedevo scherzosamente nell’ora sportiva per poi riconcentrarsi nelle aule, chini sui banchi anni ’60, dalla fòrmica verde e li scorgevo dalle grandi finestre di aule quattro metri per cinque, pigiati in 20 o più, stancamente assorti nelle lezioni.

Al mio passaggio ci incontravamo con gli sguardi fra il curioso e il gentilmente indispettito testimone della loro quotidianità, scambiandoci un implicito buon giorno.

Nonostante l’apparente normalità, la guerra era lì. Non c’è cosa più terribile delle guerre non dichiarate, dove solo la forza dei nervi aiuta a sopravvivere.

Un sussulto, inizia il carosello.

Sono circa le 8,30. La notte avvolge come in un piumone la città, quasi a voler attutire o nascondere quello che qui stava succedendo.

Un’offensiva feroce era da poco iniziata da parte serba, nella zona sud della città a circa 5 chilometri dal quartiere Matucian, situato alle spalle di Villania dove mi trovavo.

Si percepisce senza difficoltà l’avvicinarsi degli spari. E’ chiaro che è in atto una serrata offensiva per sbaragliare le posizioni sulle colline presidiate da soldati della HLK e dalla difesa civile e nel contempo, per finire di circondare, stringedoli in una morsa di ferro, i restanti quartieri a sud di Pristina, eliminando così l’ultima possibilità di fuga in direzione di Skopie.

La trappola si sta sempre più chiudendo nell’inesauribile piano di soluzione finale.

E’  chiaro a tutti noi che è una questione di ore prima che il destino si compia. E da questo impietriti, ci anestetizziamo in un’attesa infernale.

Ecco, di lì a poco, le 10 e 30 circa, iniziare i bombardamenti Nato.

Un amaro sorriso ci disegna i volti, un irrisorio scoppio di speranza dipinge un cuore stanco delle tante attese e infingimenti sulle nostre aspettative.

Che dire a me stesso? Cauto ottimismo, ferma diplomaticità nel nascondermi la premonizione di quello che là fuori, fuori dalla finestra come un film.

“Natenenia”, buona notte Pristina. E con le dita spegnevo la luce di una candela che quasi a faro illuminava il gioco di luce sul tavolo.

Inshallah –  Antonio Russo

da qui

QUI  una pagina dedicata ad Antonio Russo

il film completo

 

Cecenia – Leonardo Giuliano

destino strano per uno che si chiama Russo, quello di essere ammazzato dai russi.
il film racconta dell’ultimo viaggio di Antonio Russo, giornalista di guerra, e lo ricorda.
Gianmarco Tognazzi è bravo e il film merita di essere visto.

http://markx7.blogspot.it/2013/03/cecenia-leonardo-giuliano.html

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

 

 

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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