Oltre l’utopia – per un futuro senza prigioni

intervista alla ricercatrice e attivista Giulia De Rocco (*)

Ciao a tuttә!

Questo è il #21 di Fratture, la newsletter che una volta al mese vi racconta il mondo penitenziario in Italia e le sue contraddizioni.

Oggi affrontiamo un tema che da sempre accompagna il nostro lavoro e che in altri numeri è già emerso in filigrana: l’abolizionismo carcerario. Lo facciamo insieme a Giulia De Rocco, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna e autrice del libro Aboliamo il carcere. Immaginare un futuro senza prigioni, uscito per Eris Edizioni.

In dialogo con lei, abbiamo ripercorso i nodi principali del suo libro, in cui si intrecciano narrativa, saggistica e pagine di diario. Tra i molti spunti, ci siamo interrogate soprattutto sul ruolo della punizione e del carcere nel mondo contemporaneo, sull’orizzonte abolizionista e sulle pratiche individuali e collettive per dare una forma più concreta a questo immaginario.

Prima di lasciarvi alla lettura, vi ricordiamo che, se vi piace Fratture e ne avete la possibilità, potete sostenerci economicamente su Ko-Fi, con una donazione singola o in forma di abbonamento mensile.

Per oggi è tutto, iniziamo!


Ti va di presentarti e raccontarci un po’ cosa fai e chi sei?

Volentieri! Mi chiamo Giulia De Rocco, sono un’assegnista di ricerca del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, sono un’attivista lesbica e abolizionista. Sono l’autrice di Aboliamo il carcere, che è un piccolo libro uscito questa primavera per Eris Edizioni. Cos’altro dirvi? Sono molto contenta di poter parlare con voi di come abolire il carcere.

Come è nata l’urgenza di scrivere un libro sull’abolizionismo carcerario?

Per rispondere a questa domanda, provo a raccontarvi come sono arrivata all’abolizionismo, perché non sono nata abolizionista e non lo ero neanche a vent’anni. È stato un processo a cui sono arrivata anche entrando in carcere per tanto tempo.

Ho iniziato a entrare in carcere quando ero all’università, perché ho fatto un servizio civile in un’associazione che si occupava di supportare i percorsi di fuoriuscita, ma anche di detenzione, delle persone in carcere e dei loro familiari. Si cercava quindi di ricostruire una rete sociale di supporto anche per le persone che erano impattate dalla detenzione, ma non per esperienza diretta. Sono entrata in carcere quasi da subito e mi occupavo inizialmente di una redazione interna: facevamo girare nell’istituto una sorta di foglio con riflessioni e notizie anche relative alle attività in carcere. L’impatto con questo luogo per me è stato subito molto forte. Di fatto, l’associazionismo e il volontariato carcerario sono molto legati a una prospettiva di assistenza, quindi, ad esempio, portare dentro delle cose materiali. Ci tengo sempre a dire che tutto quello che viene fatto in relazione alle persone che sono in carcere, secondo me, è importante. Ricordo però che pensavo non fosse possibile che in questo mondo esistesse ancora un posto dove delle persone si trovavano rinchiuse in gabbia. Ero angosciata all’idea di uno Stato che si dice democratico, ma che ha bisogno di gabbie per rinchiudere delle persone con uno scopo pedagogico ed educativo. Poi ho iniziato a incontrare persone in misura alternativa, altre impattate dalla detenzione di familiari minori e tutto mi sembrava sempre più assurdo. Ho frequentato anche un’associazione di vittime – si chiama così, anche se io non amo il termine “vittime” – perché ho pensato potesse farmi capire meglio la realtà del carcere. Lì mi sono imbattuta in un grande tema: delegare allo Stato la questione della giustizia significa anche, paradossalmente, lasciare completamente sole le persone che subiscono dei danni. Quando succede una cosa che ferisce o fa sentire una persona peggio di un’altra, lo Stato si occupa solamente di punire, mentre chi si considera vittima rimane senza alcun genere di supporto.

Successivamente ho incontrato il femminismo, il transfemminismo, gli studi queer, gli studi decoloniali e piano piano ho iniziato a capire che c’era dietro una questione di gerarchia di potere, di oppressioni che legittimava il carcere e aveva bisogno del carcere. Così ho chiuso il cerchio: sono approdata alle pratiche abolizioniste, che mi hanno aperta all’idea che esiste e può esistere un mondo in cui non ci sia bisogno del carcere. L’abolizionismo ha molte prospettive: è un termine, un’idea, un progetto che racchiude anime diverse, che vanno dalla decarcerizzazione al transfemminismo abolizionista, dall’abolizionismo più storico a quello che viene dalla matrice anarchica, più presente in Italia. Credo che quello che mi ha interessato sia stato cercare di capire quale potesse essere il modo per unire le istanze abolizioniste a quelle transfemministe e queer. Nel frattempo, ho conosciuto Eris Edizioni e ho cercato di fare un lavoro che permettesse a un concetto così gigantesco di essere letto come qualcosa che può effettivamente accadere. Spesso, anche nel mio attivismo, quando parlavo di abolizionismo, le persone mi rispondevano: “Sì, è una bella idea, però è un’utopia”. La questione dell’utopia mi disturbava, la vedevo come un alibi. Ho scritto quindi una lettera dal futuro, provando a immaginare di essere nel 2063 e di raccontare come abbiamo abolito il carcere.

A chi e a cosa servono il carcere e la punizione oggi?

A caldo risponderei che il carcere serve a mantenere intatta una certa idea di Stato neoliberale e una certa idea di sicurezza. Abbiamo cioè un uomo cis, bianco, relativamente benestante, con le risorse sufficienti per avere una vita buona, e un’idea di giustizia, sicurezza e Stato costruita intorno a lui. È quindi diventato necessario avere un luogo dove escludere tutto quello che si discosta o non nutre questa norma: il carcere, in questo senso, serve a mantenere lo stato delle cose così com’è, a preservare la gerarchia di potere, conservare le istituzioni e il loro ruolo.

Un altro punto è che il carcere risponde a un bisogno di punire e di utilizzare la punizione come strumento pedagogico. Basti pensare che a scuola la valutazione e la punizione sono effettivamente ancora pensate come strumenti che possono far capire qualcosa, che possono far crescere, che possono far pensare. Io mi ricordo di aver lavorato in una scuola materna e anche io mi comportavo così: quando un bambino era troppo agitato e non riusciva a stare nella dimensione collettiva, gli dicevo: “Vai nell’angolino e pensa!”. Mi autodenuncio. E questa persona piccola, con i suoi strumenti di persona piccola, andava nell’angolino, si arrabbiava ancora di più e usciva dall’angolino frustrato, innervosito. E nessuno nel frattempo era andato lì a chiedergli perché fosse agitato. Pensiamo alla punizione come a uno strumento che può servire a qualcosa e questo succede anche nelle relazioni intime, ad esempio. C’è l’idea che, se succede qualcosa che in un qualche modo ci fa soffrire, deve accadere qualcosa in risposta per comunicare una punizione. L’alternativa non è chiaramente cancellare le emozioni difficili come il bisogno di vendicarsi, come il bisogno di rispondere in un qualche modo ai danni che riceviamo, anzi. Delegare, però, questi processi alla punizione è paradossalmente come cancellare il bisogno di vendetta, la possibilità di avere degli spazi in cui esprimere la propria sofferenza e le emozioni difficili.

Il carcere secondo me è sorretto da questo doppio piano: da una parte serve per mantenere intatte le gerarchie di potere che sorreggono lo Stato neoliberale e dall’altra serve a rispondere a un bisogno interiorizzato di punire come unica risposta possibile alla sofferenza o a dei danni subiti.

Questa è una domanda che entra un po’ più nel vivo del libro, delle riflessioni che ha stimolato in noi. Alcuni dei pensieri che abbiamo trovato più interessanti si riferiscono alla necessità di alimentare un’intimità tra il dentro e il fuori, di rendere porose le mura che ci separano. Angela Davis nel libro “Abolizionismo. Femminismo. Adesso.” scrive a tal proposito che un orizzonte di lotta abolizionista dev’essere in grado di stare nella contraddizione. Lavorare per migliorare le condizioni presenti delle persone detenute e contemporaneamente organizzare movimenti che tendono a un futuro senza il carcere. In che modo però si può attraversare l’istituzione penitenziaria senza alimentare i sistemi di controllo, punizione e rieducazione che la sostengono?

Faccio una premessa: l’abolizionismo, come prospettiva politica, è un progetto che può includere diverse lotte. Ruthie Gilmore, una geografa abolizionista, dice che ci sono tante lotte abolizioniste che non sanno di esserlo, per esempio la lotta per la casa, per la distribuzione delle risorse, per il reddito, o la lotta anticapitalista, la lotta antirazzista, la lotta contro la violenza di genere. Queste lotte sono abolizioniste nella misura in cui, se queste istanze di giustizia sociale venissero risolte o comunque permettessero alle persone di stare bene, non ci sarebbe più bisogno del carcere. L’idea è quindi di lavorare sulle diverse oppressioni.

Dall’altra parte, è necessario abolire il carcere, è urgente abolire il carcere. Essendoci entrata per tanti anni, credo che sia un po’ contraddittoria quella postura che dice che, se si entra in carcere, si deve scendere a dei compromessi con l’istituzione. In parte è verissimo: lo si sente nel corpo e nella pelle che si sta facendo una cosa che ti pone in contraddizione con quello che credi. Già solo lasciare la carta di identità all’ingresso, dover chiedere “per favore” per farti aprire le porte, cercare di avere un atteggiamento disponibile nei confronti degli agenti di polizia: non è qualcosa che riesce facile. In più devi stare scomodamente anche in quell’evidentissimo privilegio per cui dopo due ore tu esci: qualsiasi sia la tua postura, il fatto di poter uscire ogni sera e andare a mangiare con un’amica qualcosa che ti piace, è qualcosa di scomodo da sentire. Al contempo, se noi stiamo solo fuori a progettare il superamento del carcere, lo stiamo facendo senza coinvolgere le persone direttamente interessate dalla detenzione, che la subiscono quotidianamente per mesi o per anni. Sono convinta che uno dei dispositivi che più nutre la necessità del carcere sia il fatto che le storie delle persone che stanno dentro rimangono dentro e che le storie delle persone che stanno fuori rimangono fuori: quel dispositivo di confine è violento sia per la società fuori che per le persone dentro. Li chiamano “mondi” non a caso: anche se in realtà siamo nello stesso mondo, parlare di “mondi” dà un’idea del fatto che quelle mura sono sopra tutto e legittimano un’esclusione, anche relativa alle storie e ai vissuti.

Una volta ho intervistato una persona che è stata tanti anni in carcere e che adesso non c’è più, e mi diceva questa cosa molto interessante: quando sei dentro ti rendi conto che la comunicazione con le persone che stanno fuori – che siano parenti, volontari, volontarie o insegnanti – rappresenta uno degli unici momenti in cui tu senti che è garantita la tua sopravvivenza, che c’è qualcuno che garantisce il fatto che tu rimarrai vivo o viva e che qualcosa succederà, che nella tua giornata accade qualcosa di vitale e di rassicurante. Di fatto, dentro il carcere sei in una situazione di asimmetria di potere enorme: non ci dobbiamo dimenticare il fatto che tu sei chiuso in un posto in cui c’è qualcuno che non sei tu che ha la chiave di dove tu vivi, e chi ha questa chiave ha un’arma sempre in tasca. Questo significa che il senso di precarietà della tua esistenza è enorme. I tuoi giorni passano in modo diverso e l’idea di sicurezza rispetto al tuo corpo e alla tua vita è molto compromessa da questa asimmetria, tanto che io spero che le persone se ne rendano conto il meno possibile, perché, quando lo si sa, si rischia di andare fuori di testa. La presenza di cittadini e cittadine che in questo momento sono libere, che entrano, ascoltano, parlano, portano fuori il mondo dentro, è, credo, l’unico modo per iniziare a superare il bisogno del carcere e anche a superare l’impatto del carcere nei vissuti.

Come si fa? Nello stesso modo in cui si fa fuori: entrando in relazione con le persone, portando la propria idea. Ricordo che a un certo punto, quando facevo soprattutto gruppi collettivi di lettura e scrittura autobiografica con le persone detenute, a un certo punto ho iniziato proprio a dire che io non volevo che il carcere esistesse, che secondo me il carcere è una cosa che si può abolire, che si può superare, e che io sono in questo momento libera, ma non mi ritengo una persona che sarà libera necessariamente per sempre.

Inoltre, in carcere si può entrare solo se ci sono delle cose da fare insieme, non è che io posso andare alla Dozza [il carcere di Bologna, ndr] per andare a vedere come stanno le persone. Bisogna perciò essere molto chiare, trasparenti, oneste con tutte le persone che incontriamo rispetto alle proprie idee. Senza pensare che si debba entrare in carcere senza parlare di abolizionismo o censurandosi rispetto alla propria idea: questo sarebbe un atteggiamento che rischia di rafforzare posture alterizzanti (*). Si entra con tutto quello che siamo, con tutte le nostre idee e ci si relaziona alle persone con sincerità e la consapevolezza che quello che stiamo costruendo insieme è un progetto politico che mira al superamento di quel posto.

(*) Per "posture alterizzanti", si intendono quegli atteggiamenti che creano una netta divisione tra il sé e l’altro, contribuendo a giustificare atti discriminatori nei confronti di chi è percepitə come diversə.

Nel tuo libro emerge un’idea di abolizionismo come prospettiva politica collettiva, ma anche come esperienza intima e personale. Affermi infatti che è necessario abolire la necessità del carcere, ma non il bisogno di sentirsi sicure, che dentro ognuna di noi c’è un piccolo o ingombrante poliziotto da cui liberarsi e che “essere abolizionisti significa essere disponibili a perdere qualcosa di sé”. Ti va di approfondire questi concetti?

Allora, la questione della micro-macro poliziotta che c’è dentro ad ognuna di noi è una questione che mi appassiona molto e che credo sia molto importante affrontare e nominare, per riconoscerne gli effetti. Dall’altra, però, mi preme condividere quella che è una mia preoccupazione: di non affidarci in questo lavoro di messa in discussione solo a noi stessi. La pratica abolizionista non può essere un lavoro individuale o individualistico. Si tratta piuttosto di una pratica per la giustizia sociale, di un progetto politico. Per inseguirlo, è importante capire qual è il lavoro da fare dentro di noi, senza estrapolare cosa ci serve del progetto abolizionista, che è un po’ una seduzione della contemporaneità. Lo scopo non è neanche imparare delle pratiche che ci rendono delle persone che stanno meglio. Poi, è chiaro che sia un lavoro che mette in circolo del benessere, perché l’obiettivo è raggiungere un benessere sociale collettivo, però per evitare di incappare in individualismi è importante avere in mente l’obiettivo in grande.

Riguardo alla punizione: io credo che sia un meccanismo talmente incastrato dentro di noi che, molto spesso, la agiamo nei confronti di noi stesse e delle persone che ci sono più care. E ci serve anche per domare i nostri corpi e i nostri affetti, in modo da adattarci a strade imposte che bisogna percorrere per non disturbare lo status quo. Credo anche che la parte più interessante di una riflessione sul poliziotto e la poliziotta interiore si riferisca alla nostra azione politica, al nostro stare nella collettività e a tutte quelle pratiche che agiamo in nome dell’integrità politica o di una giustizia un po’ astratta. Pensiamo così di sapere cos’è bene fare e cosa non è bene fare, e abbiamo imparato che chi non fa bene le cose deve essere escluso. Anche tutte quelle pratiche di esclusione che mettiamo in atto come prima soluzione per gestire il conflitto interpersonale hanno quindi un carattere punitivo e polarizzante: i buoni da una parte e i cattivi dall’altra.

Quindi è da mettere in discussione l’idea che in generale chi sbaglia o chi ferisce sia sempre una persona sola che si porta il peso dell’intera dinamica, che è così interpretata come unidirezionale. Non si può, però, delegare la risoluzione del conflitto all’esclusione, e anche escludere comunque non esime dal prendersi cura di tutte le conseguenze emotive di quanto messo in atto. Affrontare la questione della poliziotta o poliziotto che ognuno/a di noi ha dentro di sé significa iniziare un percorso per decostruire quegli automatismi che ci portano a rendere necessaria l’esclusione e la punizione.

Come si può trasmettere a chi è – o si sente di essere – molto distante dalla causa abolizionista l’idea che valga la pena intraprendere questi processi?

Credo che una soluzione possa essere quella di parlare del carcere, di cosa succede in carcere, della sofferenza che c’è in carcere, e alimentare una comunicazione che renda porose le mura. Significa provare a far uscire ed entrare il più possibile le storie, le testimonianze, perché ciò che succede quando senti la storia delle persone che sono in carcere, la complessità dei loro vissuti, contribuisce a rendere meno inevitabile il carcere. Il carcere è l’esclusione per eccellenza, le persone che hanno sbagliato vengono rinchiuse lì e attraverso quell’esperienza di esclusione e punizione devono capire che non dovranno più sbagliare. Dal punto di vista pedagogico, che poi è anche il mio ambito di ricerca, è dimostrato che un modo per aumentare la porosità e lo scambio tra il dentro e il fuori è l’utilizzo delle storie. Attraverso la loro condivisione si può avere accesso a una comprensione maggiore del carcere, delle gerarchie d’oppressione, dell’ingiustizia sociale. Inoltre, raccontare il carcere aiuta a riflettere sul perché ne abbiamo bisogno, a chi serve, e perché non ci vengono in mente altre idee. Angela Davis si chiede come mai, dal momento in cui abbiamo capito che il carcere non funziona come deterrente e contro la violenza di genere, non ci poniamo questa domanda: se il carcere non funziona, cosa possiamo fare per risolvere il problema della violenza, della polarizzazione, delle prevaricazioni?

Io non sto dicendo nulla di nuovo. Anche Mariame Kaba, che è un’altra attivista abolizionista, si chiede: perché non basiamo la nostra idea di sicurezza sull’accesso all’acqua pulita, sulla possibilità di fare viaggi, sulla possibilità per tutti di mangiare delle cose buone, di accedere a una buona educazione, di poter arricchire la propria vita con l’arte? La risposta è che, ora come ora, non sembra essere questo l’obiettivo della giustizia, ma piuttosto quello di gestire i conflitti punendo. Se tutti avessero una vita bella e ricca ci sarebbe ancora bisogno del carcere? Si tratta di provare a decostruire gli assunti e le abitudini di pensiero sul carcere e la punizione, dimostrando che molte delle cose che rendono necessario il carcere per sentirci sicure, in realtà, sono delle seduzioni. Basti pensare che l’aggravante giuridica di femminicidio è stata introdotta dal governo più fascista degli ultimi anni.

Un’ultima domanda. Il tuo libro si sviluppa su due piani, uno più narrativo e uno più saggistico. Riferendoti a un futuro non troppo lontano, libero dal carcere, descrivi i passaggi che hanno agevolato l’abolizione del sistema penitenziario. Da cosa deriva questa scelta? C’era l’intenzione, in qualche modo, di appoggiarsi all’immaginazione come pratica di liberazione? Quanto è stato facile o difficile immaginare e descrivere questo futuro?

Non ricordo bene come mi sia venuto in mente. O meglio, pensandoci, è andata così: Eris Edizioni fa dei formati piccoli, sulle tematiche della giustizia e della lotta sociale. Ricordo che quando ho parlato per la prima volta con la casa editrice e con Antonia Caruso, l’editor, hanno insistito molto sul fatto che sarebbe stato importante che le persone che leggevano il libro potessero capire bene ciò di cui stavo parlando. L’intenzione è quella di rendere il sapere il più possibile accessibile a chiunque e non solo a chi ha una formazione accademica. E io mi sono detta che la cosa più accessibile per capire i processi politici è proprio l’immaginazione, vedere e avere qualcosa che compare davanti allo sguardo quando leggi. Infatti, ho inserito anche delle pagine di diario, che sono effettivamente delle mie pagine di diario, perché ho pensato che vedere una persona che partecipa a un’assemblea fosse una cosa molto più accessibile che la teoria scritta nella forma di un saggio. Secondo me la narrazione e l’immaginazione sono degli appigli che ci permettono di ancorarci alla realtà e vedere delle cose.

In più, volevo contrastare l’idea che l’abolizionismo sia impossibile, che mi viene restituita anche dalle compagne: “Bel progetto politico, ma è un’utopia”. È una direzione, certo, è un progetto; se, però, continuiamo a dirci così, questa proiezione in avanti, in un avanti indefinito, ci scagiona dall’agire ora. Tra tutte, la parte più difficile è stata descrivere il momento in cui il carcere sarebbe stato abolito. Mi chiedevo: come posso raccontare quel momento in cui effettivamente tutti insieme facciamo scomparire il carcere? E allora, non spoilererò, ho proprio provato ad immaginarmi quel momento e a come avrei voluto che fosse. Mi ricordo che il punto era quello di rendere materiali i corpi che insieme aboliscono, perché spesso mi sembra che i progetti politici siano molto scorporati: senza sostanza di pelle, di carne, di tutto ciò di cui siamo fatte. Un punto per me importante era quindi proprio quello di tenere dentro l’idea di una corporeità collettiva che insieme si occupa di abolizione e di superamento del carcere.


Qualche consiglio

– La fanzine Spero sceglieremo l’amore, che è la traduzione di un estratto del libro I hope we choose love. A trans girl’s notes from the end of the world, di Khai Cheng Thom. Si può trovare sul sito di Anarco Queer.

– Il libro Abolizionismo. Femminismo. Adesso, scritto a più mani da Angela Y. Davis, Gina Dent, Erica R.Meiners e Beth E. Richie e pubblicato da Alegre.

– La serie podcast Transfemminismi abolizionisti prodotta da Maldusa, Collettiva Psicologica Anticarceraria e Radio Alquantara; è disponibile qui.

– Il libro Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, le discriminazioni, la violenza del capitale di Angela Davis, tradotto da Giuliana Lupi per minimum fax.


Free Palestine

– Sono quasi 2.000 le persone palestinesi che lunedì sono uscite dalle carceri israeliane come previsto dall’accordo tra Hamas e Israele: 154, scrive Tim Hume di Al Jazeera, verranno però costrette all’esilio in un Paese terzo.

– Nel carcere di Melfi, il detenuto palestinese Anan Yaeesh sta portando avanti uno sciopero della fame da oltre 10 giorni «in solidarietà con le mobilitazioni per la Palestina e per denunciare le violazioni dei suoi diritti». Lo ha reso noto la pagina Instagram “Free Anan”. Un articolo della giornalista italo-palestinese Dalia Ismail spiega chi è Anan Yaeesh e perché la sua storia è importante nel blog del Fatto Quotidiano.

– «Derisi, picchiati, senz’acqua»: il giornalista Lorenzo D’Agostino, che era a bordo di una delle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, ha raccontato per il manifesto i due giorni di detenzione dopo essere stato catturato dalle forze israeliane.


Grazie per essere arrivatə fin qui.

Se vi va di scriverci per feedback, commenti e segnalazioni in risposta a questa mail o tramite i nostri canali, a noi fa sempre piacere.

A presto!

Gina, Elisa, Nicolò e Mafalda


(*) Fratture è una newsletter indipendente. Se ti piace il nostro lavoro, puoi iscriverti o seguirci su Instagram, Telegram e Facebook, e sostenerci su Ko-fi. Per sapere qualcosa di più su di noi, visita la pagina About.

Enrico Semprini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *