22mila tonnellate di bombe su Gaza, finora

articoli e video di Chris Hedges, Eric Salerno, Mike Whitney, Saïd Boumama, Fawzi Ismail, Matteo Saudino, Raniero La Valle, Michele Giorgio, Jonathan Ofir, Nina Berman, Sergio Cararo, Salvo Ardizzone, Yanis Varoufakis, Carlos Latuff

Dall’inizio della guerra di Gaza gli Usa hanno fornito a Israele 21mila proiettili di precisione e 22mila tonnellate di bombe, come affermato giovedì dal capo del Pentagono Austin Powell al Congresso

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L’autoimmolazione di Aaron Bushnell – Chris Hedges

L’auto-immolazione di Aaron Bushnell è stato in definitiva un atto di fede, che delinea radicalmente il bene e il male e ci invita a resistere.

Aaron Bushnell, quando ha appoggiato il suo cellulare a terra per avviare una diretta video e si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington D.C., provocandosi la morte, ha contrapposto la Violenza Divina al Male Radicale. Come membro in servizio attivo dell’aeronautica americana, faceva parte del vasto apparato che sostiene il Genocidio in corso a Gaza, non meno moralmente colpevole dei soldati, dei tecnocrati, degli ingegneri, degli scienziati e dei burocrati tedeschi che oliarono l’apparato dell’Olocausto nazista. Questo era un ruolo che non poteva più accettare. È morto per i nostri peccati.

“Non sarò più complice del Genocidio”, ha detto con voce pacata nel suo video mentre camminava verso il cancello dell’ambasciata. “Sto per intraprendere un atto estremo di protesta. Ma rispetto a ciò che le persone hanno vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso sarà normale”.

Giovani uomini e donne si arruolano nell’esercito per molte ragioni, ma far morire di fame, bombardare e uccidere donne e bambini di solito non rientrano tra queste. In un mondo giusto, la flotta statunitense non dovrebbe rompere il blocco israeliano di Gaza per fornire cibo, riparo e medicine? Gli aerei da guerra statunitensi non dovrebbero imporre una zona interdetta al volo su Gaza per fermare i bombardamenti a tappeto? Non dovrebbe essere lanciato a Israele un ultimatum per ritirare le sue forze da Gaza? Non si dovrebbero fermare le spedizioni di armi, i miliardi di aiuti militari e strategici forniti a Israele? Coloro che commettono un Genocidio, così come coloro che sostengono il Genocidio, non dovrebbero essere ritenuti responsabili?

Queste semplici domande sono quelle che la morte di Bushnell ci costringe ad affrontare.

Poco prima della sua immolazione ha scritto in un post: “Molti di noi si chiedono: cosa avrei fatto se fossi vissuto durante la schiavitù?O sotto le leggi sudiste di Jim Crow? O l’Apartheid? Cosa farei se il mio Paese stesse commettendo un Genocidio? La risposta è quello che sto facendo. Proprio ora”.

Le forze della coalizione sono intervenute nel Nord dell’Iraq nel 1991 per proteggere i Curdi dopo la Prima Guerra del Golfo. La sofferenza dei Curdi è stata immane, ma minore rispetto al Genocidio di Gaza. È stata imposta una zona interdetta al volo per l’Aviazione irachena. L’esercito iracheno è stato espulso dalle aree curde settentrionali. Gli aiuti umanitari hanno salvato i Curdi dalla fame, dalle malattie infettive e dalla morte per stenti.

Ma quella era un’altra storia, un’altra guerra. Il Genocidio è un male quando viene compiuto dai nostri nemici. Viene difeso e sostenuto quando portato avanti dai nostri alleati.

Walter Benjamin, i cui amici Fritz Heinle e Rika Seligson si suicidarono nel 1914 per protestare contro il militarismo tedesco e la Prima Guerra Mondiale, nel suo saggio: “Critica Della Violenza” (Critique of Violence), esamina gli atti di violenza compiuti da individui che affrontano il Male Radicale. Qualsiasi atto che sfidi il Male Radicale infrange la legge in nome della giustizia. Afferma la sovranità e la dignità dell’individuo. Condanna la violenza coercitiva dello Stato. Implica la volontà di morire. Benjamin chiamò questi atti estremi di Resistenza “Violenza Divina”.

“Solo per il bene dei disperati ci è stata data speranza”, scrive Benjamin.

Il punto è che l’auto-immolazione di Bushnell, uno dei post più censurati sui social media e dalle testate giornalistiche, è pensato per essere visto. Bushnell ha posto fine la sua vita nello stesso modo in cui sono stati uccisi migliaia di palestinesi, compresi i bambini. Potremmo vederlo bruciare vivo. Questo è quello che sembra. Questo è ciò che accade ai palestinesi a causa nostra.

L’immagine dell’auto-immolazione di Bushnell, come quella del monaco buddista Thích Quảng Đức in Vietnam nel 1963 o di Mohamed Bouazizi, un giovane fruttivendolo in Tunisia, nel 2010, è un potente messaggio politico. Fa uscire lo spettatore dal torpore. Costringe lo spettatore a mettere in discussione le ipotesi. Invita lo spettatore ad agire. È teatro politico, o forse rituale religioso, nella sua forma più potente. Il monaco buddista Thích Nhất Hạnh ha detto dell’auto-immolazione: “Esprimere la volontà bruciandosi, quindi, non significa commettere un atto di distruzione ma compiere un atto di costruzione, cioè soffrire e morire per il bene del proprio popolo”.

Se Bushnell era disposto a morire, gridando ripetutamente: “Palestina Libera!” mentre bruciava, allora qualcosa deve essere tragicamente e terribilmente sbagliato.

Questi sacrifici individuali spesso diventano punti di incontro per l’opposizione di massa. Possono innescare, come è successo in Tunisia, Libia, Egitto, Yemen, Bahrein e Siria, insurrezioni rivoluzionarie. Bouazizi, infuriato per il fatto che le autorità locali gli avessero confiscato la bilancia e i prodotti, non intendeva avviare una rivoluzione. Ma le piccole e umilianti ingiustizie subite sotto il regime corrotto di Ben Ali hanno avuto risonanza presso l’opinione pubblica abusata. Se possono morire, possono scendere in strada.

Questi atti sono nascite sacrificali. Preannunciano qualcosa di nuovo. Sono il rifiuto totale, nella sua forma più drammatica, delle convenzioni e dei sistemi di potere imperanti. Sono progettati per essere orribili. Sono destinati a scioccare. Bruciare vivi è uno dei modi più temuti di morire.

L’autoimmolazione deriva dalla radice latina immolāre, cospargere di farina salata quando si offre in sacrificio una vittima consacrata. Le autoimmolazioni, come quella di Bushnell, collegano il sacro e il profano attraverso il mezzo della morte sacrificale.

Ma per arrivare a questo estremo è necessaria quella che il teologo Reinhold Niebuhr chiama “una sublime follia nell’anima”. Egli osserva che “nient’altro che tale follia potrà combattere il potere maligno e la malvagità spirituale nelle alte sfere”. Questa follia è pericolosa, ma è necessaria quando si affronta il Male Radicale perché senza di essa “la verità è oscurata”. Il liberalismo, avverte Niebuhr, “manca dello spirito di entusiasmo, per non dire di fanatismo, che è così necessario per spostare il mondo fuori dai suoi sentieri battuti. È troppo intellettuale e troppo poco emotivo per essere una forza efficace nella storia”.

Questa protesta estrema, questa “follia sublime”, è stata un’arma potente nelle mani degli oppressi nel corso della storia.

Le circa 160 autoimmolazioni avvenute in Tibet dal 2009 per protestare contro l’occupazione cinese sono percepite come riti religiosi, atti che dichiarano l’indipendenza delle vittime dal controllo dello Stato. L’autoimmolazione ci chiama a un modo diverso di essere. Queste vittime sacrificali diventano martiri.

Le comunità di resistenza, anche se laiche, sono unite dai sacrifici dei martiri. Solo gli apostati tradiscono la loro memoria. Il martire, attraverso il suo esempio di abnegazione, indebolisce e recide i vincoli e il potere coercitivo dello Stato. Il martire rappresenta un rifiuto totale dello status quo. Questo è il motivo per cui tutti gli Stati cercano di screditare il martire o di trasformare il martire in una non-persona. Conoscono e temono il potere del martire, anche dopo la morte.

Daniel Ellsberg nel 1965 vide un attivista pacifista di 22 anni, Norman Morrison, cospargersi di cherosene e darsi fuoco, le fiamme si sollevarono in aria per tre metri, fuori dall’ufficio del Segretario alla Difesa Robert McNamara al Pentagono, per protestare contro la guerra del Vietnam. Ellsberg ha citato l’auto-immolazione, insieme alle proteste contro la guerra a livello nazionale, come uno dei fattori che lo hanno portato a pubblicare i documenti noti come Pentagon Papers.

Il sacerdote cattolico radicale, Daniel Berrigan, dopo un viaggio in Vietnam del Nord con una delegazione di pace durante la guerra, ha visitato la stanza d’ospedale di Ronald Brazee. Brazee era uno studente delle superiori che si era cosparso di cherosene e si era immolato fuori dalla Cattedrale dell’Immacolata Concezione nel centro di Syracuse, New York, per protestare contro la guerra.

“Un mese dopo era ancora vivo”, scrive Berrigan. “Sono riuscito a vederlo. Ho sentito l’odore della carne bruciata e ho rivisto quello a cui avevo assistito nel Vietnam del Nord. Il ragazzo stava morendo tra i tormenti, il suo corpo era come un grosso pezzo di carne gettato su una griglia. Morì poco dopo. Sentivo che i miei sensi erano stati invasi in un modo nuovo. Avevo compreso il potere della morte nel mondo moderno. Sapevo che dovevo parlare e agire contro la morte perché la morte di questo ragazzo si stava moltiplicando mille volte nella terra dei bambini arsi vivi. Quindi sono andato a Catonsville, come ero stato ad Hanoi”.

A Catonsville, nel Maryland, Berrigan e altri otto attivisti, conosciuti come i Nove di Catonsville, irruppero in un centro di reclutamento il 17 maggio 1968. Presero 378 cartelle e le bruciarono con napalm fatto in casa nel parcheggio. Berrigan è stato condannato a tre anni in una prigione federale.

Ero a Praga nel 1989 come corrispondente durante la Rivoluzione di Velluto. Ho partecipato alla commemorazione dell’auto-immolazione di uno studente universitario di 20 anni di nome Jan Palach. Nel 1969 Palach si era fermato sulla scalinata del Teatro Nazionale in Piazza Venceslao, si era versato addosso della benzina e dato fuoco. Morì per le ferite tre giorni dopo. Lasciò un biglietto in cui affermava che questo atto era l’unico modo per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, avvenuta cinque mesi prima. Il suo corteo funebre è stato interrotto dalla polizia. Quando si tennero frequenti veglie a lume di candela sulla sua tomba nel cimitero di Olsany, le autorità comuniste, determinate a cancellare la sua memoria, dissotterrarono il suo corpo, lo cremarono e consegnarono le ceneri a sua madre.

Durante l’inverno del 1989, manifesti con il volto di Palach coprivano le mura di Praga. La sua morte, due decenni prima, fu celebrata come il supremo atto di resistenza contro i sovietici e il regime filo-sovietico instaurato dopo il rovesciamento di Alexander Dubček. Migliaia di persone marciarono verso la Piazza dei Soldati dell’Armata Rossa e la ribattezzarono Piazza Jan Palach. Aveva vinto.

Un giorno, se lo Stato Corporativo e lo Stato di Apartheid di Israele verranno smantellati, la strada in cui Bushnell si è dato fuoco porterà il suo nome. Come Palach, sarà onorato per il suo coraggio morale. I palestinesi, traditi dalla maggior parte del mondo, lo considerano già un eroe. Grazie a lui sarà impossibile demonizzare tutti noi.

La Violenza Divina terrorizza una classe dirigente corrotta e screditata. Mette a nudo la loro depravazione. Ciò dimostra che non tutti sono paralizzati dalla paura. È una chiamata a combattere il Male Radicale. Questo è ciò che Bushnell intendeva. Il suo sacrificio parla al nostro io migliore.

Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On Contact.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Strage in coda per il pane e ‘stallo nella trattativa’. Oltre l’immaginabile – Eric Salerno

104 morti per attacco israeliano su persone in fila e 760 feriti, a sud Gaza City. Stavano aspettando aiuti alimentari vicino ad al-Rashid Street, a sud di Gaza City questa mattina. «Durante l’ingresso dei camion degli aiuti nel nord di Gaza, residenti hanno circondato i camion, di cui i soldati israeliani assicuravano il transito»«Fonti militari riferiscono che i soldati hanno sparato contro chi aveva accerchiato i camion e che la folla si è accalcata in maniera da porre una minaccia per le truppe». Secondo fonti palestinesi il drammatico episodio porta al fallimento dei colloqui per la tregua e per la liberazione degli ostaggi, riporta Reuters sul suo sito.

Studiano, sperano, sono vicini, ma non c’è una svolta

Quattro parole che in italiano hanno comune la s iniziale e che descrivono lo stato  – altra ‘s’ – dei negoziati tra Hamas e Israele con la mediazione del Qatar. Gli attori esterni si dicono ottimisti, invocano pazienza; il presidente americano, alla ricerca di consensi e voti, si fa fotografare rilassato, con un gelato in mano, mentre indica lunedì prossimo, ossia il 4 marzo, come data in cui ci sarà quasi sicuramente una breve pausa nell’assalto di Tel Aviv a Gaza e inizierà uno scambio ostaggi – prigionieri.

Sola certezza, nella Striscia si continua a morire

Al momento, purtroppo, c’è una sola cosa sicura: i palestinesi di Gaza, bambini, donne, uomini, continuano a morire (quasi 30mila dal 7 ottobre); continuano a morire i loro fratelli nella Cisgiordania occupata; migliaia di israeliani manifestano ogni giorno solo per chiedere il rilascio dei loro famigliari prigionieri dei militanti islamisti nella striscia, non per fermare le armi; le notizie raccontano di morte e distruzione nel nord d’Israele e in Libano dove ogni giorno che passa aumenta il rischio di un allargamento del conflitto.

E il premier Netanyahu si è detto ‘sorpreso’ quando Biden ha detto di sperare, di credere possibile, un cessate-il-fuoco entro l’inizio della prossima settimana. Ossia una settimana prima dell’inizio del mese del Ramadan, una delle feste più importanti del calendario islamico.

Israele e Palestina, realtà complessa

Gli interessi dei mediatori non necessariamente corrispondono a quelli dei due giocatori principali. Israele è un governo eletto guidato da Netanyahu e la sua coalizione è da sempre contraria alla creazione di uno stato palestinese accanto a Israele; Hamas fu eletto solo nella striscia di Gaza ma oggi, rappresenta il legittimo desiderio dell’intero popolo palestinese – ossia anche quella parte che vive a Gerusalemme Est e in Cisgiordania – di avere uno stato.

L’Autorità Nazionale palestinese a Ramallah

Il governo palestinese siede a Ramallah, nella terra che va dalla città santa al fiume giordano, e ieri ha offerto le dimissioni al presidente Mahmoud Abbas perché venga formato un gabinetto tecnico capace di ricostruire Gaza e lavorare – un’idea di Biden – per far nascere uno stato palestinese indipendente accanto a Israele. Ma è proprio questo che non vuole Netanyahu, e che non vuole una maggioranza degli ebrei d’Israele.

Nessun negoziato e guerra ad oltranza

Molti dei ministri e anche il premier farebbero a meno di negoziare con Hamas. Mettono in secondo piano la salvezza degli ostaggi. Vorrebbero andare avanti con la caccia, (legittima e comprensibile, agli organizzatori della orribile strage di ottobre nel sud di Israele), ma vorrebbero anche cacciare tutti i palestinesi dalla striscia. E dopo, fosse possibile, dalla Cisgiordania per far posto alle colonie, gli insediamenti ebraici-israeliani che ormai controllano buona parte dei territori occupati.

Ramadan a spinta americana e Rafah

Sono soprattutto le pressioni della Casa Bianca e del mondo arabo a voler spingere Israele a fermare le armi durante il Ramadan. E soprattutto a non lanciare un attacco contro la città di Rafah, nel sud estremo di Gaza. La città e ormai una specie di enorme campo profughi creato per accogliere la popolazione che le forze armate israeliane hanno cacciato dal nord della striscia. In mezzo alle tendopoli e nella vasta rete di tunnel sotto di loro, si nascondono i leader di Hamas e parte importante dei combattenti. Una tregua, insistono a Tel Aviv, può essere al massimo una sosta, non lunga, della guerra. I profughi palestinesi dal nord verrebbero costretti a tornare ai loro villaggi e città d’origine dove, ammettono anche in Israele, le bombe hanno distrutto case e infrastrutture.

Tregua o no, la situazione resta esplosiva

Denunciando alcune parole provocatorie di esponenti dell’estrema destra israeliana, il ministro della difesa Gallant si è detto preoccupato. «C’è da parte di Iran, Hezbollah e Hamas un crescente interesse a trasformare il Ramadan nella seconda fase del 7 ottobre. Evitate parole e azioni sbagliate». Parole per mettere in guardia, per preparare nuove azioni militari contro i palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania o per far capire alla Casa bianca che devono arrivare presto i miliardi di dollari e i massicci rifornimenti di armi – sofisticati e non – promessi dal Congresso?

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I Palestinesi in cambio di un pacchetto di prestiti da 10 miliardi di dollari – Mike Whitney

Nonostante le proteste pubbliche, il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi sta aiutando Israele a trasferire 1,4 milioni di palestinesi da Rafah alle tendopoli nel deserto del Sinai.

Sabato le agenzie di stampa occidentali hanno riferito che a Parigi si sono svolti negoziati a porte chiuse per raggiungere un accordo sul cessate il fuoco a Gaza. Secondo la Reuters, i colloqui hanno rappresentato “il tentativo più serio da settimane per fermare i combattimenti nella martoriata enclave palestinese e per arrivare al rilascio degli ostaggi israeliani e stranieri”. Purtroppo, i resoconti di Parigi sono stati in gran parte un inganno mediatico, volto a distogliere l’attenzione dal vero scopo del vertice. Si tenga presente che i principali partecipanti all’incontro non erano diplomatici di alto livello o negoziatori esperti, ma i direttori dei servizi di intelligence, tra cui il capo del Mossad israeliano, David Barnea, quello dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel, e il direttore della CIA William Burns. Questi non sono gli uomini che si sceglierebbero per concludere uno scambio di ostaggi o un accordo per il cessate il fuoco, ma piuttosto per attuare la sorveglianza elettronica, lo spionaggio o le operazioni segrete. È quindi estremamente improbabile che si siano incontrati a Parigi per definire un piano per la cessazione delle ostilità. La spiegazione più probabile è che i vertici dei tre servizi segreti stiano dando gli ultimi ritocchi ad un piano di collaborazione che permetta l’apertura di una breccia nel muro di confine egiziano, in modo che un milione e mezzo di palestinesi gravemente traumatizzati possa fuggire in Egitto senza alcuna seria opposizione da parte dell’esercito egiziano.

Un’operazione del genere richiederebbe un notevole coordinamento per ridurre al minimo le vittime e, allo stesso tempo, raggiungere l’obiettivo generale. Naturalmente, qualsiasi violazione verrebbe imputata ad Hamas, che sarà senza dubbio il comodo capro espiatorio che avrà fatto saltare in aria una sezione del muro creando un’apertura per migliaia di palestinesi in fuga. In questo modo, Israele potrebbe definire l’espulsione di massa una “migrazione volontaria”, che è il termine sionista dal suono gradevole per la pulizia etnica. In ogni caso, la maggior parte della popolazione musulmana di Gaza sarà stata sfrattata dalla sua patria storica e costretta in campi profughi sparsi nel deserto del Sinai. Questo è il gioco finale di Netanyahu, che potrebbe avvenire in qualsiasi momento.

Qualcuno dubita del fatto che il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi potrebbe collaborare con Israele e permettere ai palestinesi di entrare in massa in Egitto, ma questi dubbi si basano su speculazioni e non su fatti. Per coloro che desiderano scavare un po’ più a fondo, c’è una chiaro flusso di soldi che collega il losco presidente egiziano ad un cambiamento politico che sarà più che adatto all’ambizioso piano di pulizia etnica di Netanyahu. In altre parole, la soluzione è già pronta. Questo è tratto da Reuters:

I colloqui con l’Egitto per accelerare il programma di prestiti del Fondo Monetario Internazionale stanno facendo ottimi progressi, ha detto giovedì il FMI, affermando che l’Egitto ha bisogno di un “pacchetto di sostegno onnicomprensivo” per affrontare le sfide economiche, comprese le pressioni della guerra a Gaza….

Interrogata sull’impatto che potrebbe avere sui colloqui il previsto ingresso dei rifugiati di Gaza in Egitto, la Kozack ha dichiarato: “C’è la necessità di avere per l’Egitto un pacchetto di sostegno onnicomprensivo e stiamo lavorando a stretto contatto sia con le autorità egiziane che con i loro partner per garantire che l’Egitto non abbia alcun bisogno di finanziamenti residui e anche per garantire che il programma sia in grado di assicurare la stabilità macroeconomica e finanziaria dell’Egitto”. IMF sees progress on Egypt loan program amid Gaza pressures, Reuters

Ripeto: “per garantire che l’Egitto non abbia alcun bisogno di finanziamenti residui”?

Caspita! Quindi il FMI ora fornisce sostegno finanziario alla pulizia etnica?

Sembra proprio di sì. Il FMI vuole assicurarsi che el-Sisi abbia denaro sufficiente a coprire i costi per nutrire e alloggiare un milione e mezzo di rifugiati. Ma è lì che andranno effettivamente quei miliardi di dollari, ai palestinesi affamati che hanno perso le loro case e tutti i loro beni materiali, o spariranno nei conti offshore di politici egiziani corrotti, proprio come è successo in Ucraina? Abbiamo già visto questo film molte volte e non finisce mai bene. Ecco un approfondimento del Financial Times:

La Georgieva ha chiarito che la guerra a Gaza è la ragione principale per cui il FMI sta portando avanti un accordo di prestito ampliato, nonostante avesse interrotto i pagamenti di un precedente prestito da 3 miliardi di dollari…

Secondo gli analisti, le discussioni tra Egitto e FMI si sono concentrate su un pacchetto di almeno 10 miliardi di dollari, di cui una parte proverrebbe dal finanziatore e il resto da altri donatori, tra cui probabilmente la Banca Mondiale. IMF ‘very close’ to fresh Egypt loan deal, Kristalina Georgieva says, Financial Times

Vediamo di capirci: il Fondo Monetario Internazionale aveva bloccato i pagamenti di un prestito di 3 miliardi di dollari all’Egitto, ma ora è pronto a consegnare 10 miliardi di dollari ad una nazione indebitata e a rischio di credito, la cui moneta l’anno scorso ha subito una svalutazione del 40% e la cui economia è attualmente allo sbando? Ha senso tutto ciò? Ovviamente no. Ecco altre informazioni da The Cradle:

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha dichiarato che ci sono “eccellenti progressi” nei colloqui con l’Egitto su un programma di prestiti che mira a “sostenere” il Paese nel superamento dei suoi problemi finanziari e nella gestione un potenziale diluvio di rifugiati palestinesi che Israele cerca di ripulire etnicamente da Gaza.

Finalmente qualcuno ha il coraggio di dire quello che tutti sanno già essere vero, cioè che il FMI sta finanziando la pulizia etnica di Gaza. Ecco altre informazioni tratte dallo stesso articolo:

La direttrice generale del FMI, Kristalina Georgieva, ha dichiarato a novembre che l’agenzia stava “considerando seriamente” un possibile aumento del programma di prestiti all’Egitto a causa delle “difficoltà economiche poste dalla guerra tra Israele e Gaza”.

“Il prestito potrebbe arrivare fino a 10 miliardi di dollari per aiutare l’economia egiziana a sopravvivere alle problematiche locali ed esterne, tra cui l’assalto israeliano alla vicina Striscia di Gaza e le tensioni nel Mar Rosso…

Ciò ha coinciso con l’inizio dei lavori di costruzione di una “zona di sicurezza isolata” nel deserto orientale del Sinai, al confine con la Striscia di Gaza, che, secondo molti, servirà come zona cuscinetto per i palestinesi sfollati.

I lavori di costruzione visti nel Sinai lungo il confine con Gaza – l’istituzione di un perimetro di sicurezza rafforzato intorno ad una specifica area aperta – sono seri segnali che l’Egitto potrebbe prepararsi ad accettare e permettere il trasferimento dei gazani nel Sinai, in coordinamento con Israele e gli Stati Uniti”IMF vows to support Egypt as nation braces for mass displacement of Gazans, The Cradle

Vale la pena notare che, accettando il prestito del FMI di 10 miliardi di dollari, el-Sisi ha accettato di agganciare la valuta egiziana ai tassi del mercato nero, il che significa che, il giorno in cui l’accordo sarà firmato, il suo valore sarà dimezzato. I lavoratori egiziani – la metà dei quali vive già al di sotto della soglia di povertà – saranno gravemente danneggiati dal salvataggio, anche se non come i palestinesi, che saranno lasciati a marcire nelle tendopoli nel deserto.

Inoltre, sembra che il Fondo Monetario Internazionale continuerà a far ballonzolare il prestito (tangente?) di 10 miliardi di dollari sotto il naso di El-Sisi fino a quando i palestinesi non saranno finalmente passati in Egitto e l’operazione sarà conclusa. È così che gli oligarchi occidentali usano le istituzioni internazionali, come il FMI, per costringere i loro burattini a fare ciò che vogliono. In questo caso, avevano bisogno di un Giuda malleabile che fosse disposto a fare il doppio gioco con i suoi concittadini musulmani per riempire le tasche sue e quelle dei suoi più stretti alleati. A quanto pare, in El-Sisi hanno trovato il loro uomo.

Questo può anche aiutare a spiegare perché l’Egitto sta attualmente liberando una vasta area a pochi passi dal confine con Gaza. Il Cairo sta preparando il terreno per accogliere il grosso flusso di rifugiati che presto si riverserà nel Paese. Questo è un articolo di Forbes:

L’Egitto sta allestendo un campo vicino al confine con Gaza per far fronte ad un potenziale esodo di palestinesi dall’enclave nel caso in cui Israele proceda con un’offensiva di terra su Rafah, la regione di confine in cui si è rifugiata più della metà della popolazione di Gaza, secondo quanto riportato da Reuters.…

Citando quattro fonti anonime, la Reuters ha riferito che l‘Egitto sta preparando una “zona desertica con alcune strutture di base” per ospitare i possibili rifugiati come “misura temporanea e precauzionale”.

Il gruppo per i diritti umani Fondazione Sinai ha condiviso immagini dei presunti campi, e ha mostrato camion e gru che stanno allestendo una “zona di alta sicurezza” in un’area circondata da recinzioni di cemento.

Il New York Times ha confermato le immagini e ha parlato con gli appaltatori presenti sul posto, che hanno dichiarato di essere stati ingaggiati per costruire un muro di cemento alto 15 metri intorno ad un pezzo di terra di cinque chilometri quadrati vicino al confine. Egypt Is Preparing Camps To Shelter Fleeing Palestinians Before Israel’s Offensive On Rafah, Report Says, Forbes

Riassumiamo:

  1. I capi dell’intelligence israeliana, americana ed egiziana si sono incontrati a Parigi per dare (secondo me) gli ultimi ritocchi al piano di espulsione dei palestinesi da Gaza.
  2. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) sta per fornire all’Egitto un prestito di 10 miliardi di dollari per “gestire un potenziale flusso di rifugiati palestinesi che Israele cerca di ripulire etnicamente da Gaza”. (The Cradle)
  3. L’Egitto sta preparando una “zona desertica con alcune strutture di base” per ospitare i potenziali rifugiati” nel prossimo futuro.
  4. L’IDF ha continuato i suoi attacchi aerei quotidiani sui civili di Rafah, al fine di incrementare l’ansia e il panico che contribuiranno a scatenare una fuga verso l’Egitto.
  5. Ai camion che trasportano cibo viene impedito di entrare a Gaza. Israele sta deliberatamente affamando i palestinesi in modo che fuggano dalla loro patria non appena si aprirà un varco nel confine.

Tutte queste misure sono finalizzate ad un solo obiettivo, lo sradicamento completo della popolazione palestinese. E ora, dopo una sanguinosa campagna militare durata quattro mesi, l’obiettivo di Israele è chiaramente in vista.

Ci vorrà uno sforzo monumentale per fermare questo piano malvagio.

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Il Medio-Oriente nel mondo multipolare – Saïd Boumama

Per comprendere la portata del genocidio in corso a Gaza e l’incondizionato sostegno europeo e degli Stati Uniti a Israele, dobbiamo collocarlo nel contesto globale del rapporto di forza tra BRICS e i paesi occidentali, che si riflette nella frenetica volontà di questi ultimi a contenere i primi e a frenarne lo sviluppo.

Il giornalista Richard Medhurst riassume questo contesto globale come segue:

Questa è una delle principali ragioni geopolitiche del massacro di Israele a Gaza. Gli Stati Uniti, principale sostenitore di Israele, sono alla disperata ricerca di un modo per cercare di contenere i BRICS, e, più in particolare, di contrastare la Nuova Via della Seta cinese. La costruzione di un corridoio rivale conterrebbe in un sol colpo Cina, Iran e Siria e aiuterebbe Israele e gli Stati Uniti a mantenere il loro dominio economico e politico contro un mondo multipolare”.

Per contrastare l’immenso progetto cinese di infrastrutture di trasporto della Via della Seta, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sviluppato un progetto concorrente che richiede il controllo di Gaza.

Annunciato al vertice del G20 a settembre 2023, questo progetto chiamato “Corridoio India-Europa-Medio Oriente” e presentato come segue da una nota informativa della Casa Bianca del 9 settembre:

Oggi noi dirigenti di Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Italia e Unione Europea abbiamo annunciato un memorandum d’intesa in cui ci impegniamo a lavorare insieme per stabilire un nuovo corridoio economico India–Medio Oriente–Europa.

Gli Stati Uniti e i suoi partner intendono collegare i due continenti a dei poli commerciali e facilitare lo sviluppo e l’esportazione di energia pulita, installare cavi sottomarini, collegare le reti energetiche e le linee di telecomunicazione, per promuovere un accesso affidabile all’elettricità, consentire l’innovazione nelle tecnologie avanzate e collegare le comunità a un Internet sicuro e stabile”.

Due mesi dopo è stato il turno di Netanyahu all’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 24 novembre 2023 di descrivere il suo impegno per il corridoio:

Il piano per un nuovo Medio Oriente, un corridoio economico che si estende dall’India agli Emirati Arabi Uniti, passando per l’Arabia Saudita, la Giordania, Israele e infine l’Europa, eliminerà le strozzature e ridurrà notevolmente il costo delle merci, delle comunicazioni e dell’energia per oltre 2 miliardi di persone”.

In maniera dimostrativa, Netanyahu nel suo discorso ha brandito una mappa che non mostrava la Palestina. Che questo piano arrivi oggi non è sorprendente. É stato concluso dopo un anno pieno di fallimenti per il campo occidentale, ovvero un tentativo fallito di imporre sanzioni contro la Russia, la conclusione di un accordo di pace tra Arabia Saudita, Iran e Siria, l’apertura di negoziati tra Yemen e Arabia Saudita, decine di Paesi che chiedono di aderire ai BRICS, l’ingresso di Iran ed Egitto negli stessi BRICS, l’adesione di 150 Paesi al progetto cinese della Nuova Via della Seta, la firma di un accordo ferroviario tra Iran e Iraq, la firma di un partenariato strategico tra Siria e Cina che apre l’accesso al Mediterraneo alla Nuova Via della Seta attraverso il porto siriano di Latakia.

 

La questione energetica al centro del conflitto

Il corridoio progettato dagli Stati Uniti e dai loro alleati in opposizione alla Nuova Via della Seta fa parte della stessa strategia generale, la cui fase precedente era quella di impedire l’approvvigionamento di gas russo e iraniano all’Europa. In merito al gas russo, è uno degli obiettivi della guerra in Ucraina, la cui prima concretizzazione fu la fomentazione del golpe di Maidan nel 2014. Il controllo dell’Ucraina è in realtà il controllo di una parte dei gasdotti che forniscono il gas russo all’Europa. L’altra parte è costituita dai gasdotti Nord Stream che sono esplosi “opportunamente” nel settembre 2022. Il risultato di questo sabotaggio è duplice: in primo luogo, l’interruzione della fornitura di gas russo all’Europa e poi l’indebolimento della Germania e, attraverso di essa, l’intera Unione Europea, che, pur essendo un alleato, è comunque un concorrente economico.

Per quanto riguarda il gas iraniano, la messa in scena dello pseudo pericolo nucleare ha reso possibile l’imposizione di sanzioni, tra cui quella di non poter più vendere il suo petrolio e il suo gas all’Europa. É già possibile prevedere la prossima tappa della strategia degli Stati Uniti. L’eliminazione di alcuni dei principali fornitori di gas dell’Europa in generale e della Germania in particolare, ovvero la Russia e l’Iran, segue la stessa sequenza storica della scoperta di un enorme giacimento di gas al largo delle coste di Palestina, Libano e Siria.

Denominato “Leviatano” e scoperto nel 2010, è stato oggetto il 15 giugno 2022 di un accordo tra Egitto, Israele e l’Unione Europea con l’obiettivo “il trasporto di gas naturale da Israele all’Egitto, per liquefazione e poi spedizione verso l’Europa”. Il controllo del “Leviatano” e dei giacimenti del “Karish” al largo delle coste del Libano, così come di quelli nella stessa Striscia di Gaza, è l’ultimo atto di una strategia israelo-statunitense che mira a rendere l’Europa dipendente del gas della regione. Dopo aver messo fuori uso i porti libanesi e siriani, aver eliminato gli altri concorrenti – l’Iran e la Russia – non resta che il porto di Haifa controllato da Israele per trasportare verso l’Europa il gas necessario per i paesi dell’Unione Europea e in particolare per la Germania.

Nel pieno del massacro a Gaza, il 29 ottobre scorso, Israele ha concesso 12 licenze per lo sfruttamento del gas del “Leviatano”. É questo nuovo contesto che spiega la violenza senza precedenti dello Stato sionista. Questa violenza non è certamente nuova, ma la sua portata supera in orrore tutti i precedenti episodi di violenza sionista. La questione del gas legata allo sviluppo dei BRICS, alle sconfitte degli Stati Uniti nell’ultimo decennio dal punto di vista economico, così come militare e diplomatico, al desiderio degli Stati Uniti di accerchiare, isolare e disgregare la Russia e la Cina, alla volontà di esplodere il progetto cinese della Nuove Via della Seta, questo aspetto dà allo Stato sionista la speranza di poter di poter realizzare il suo progetto storico di colonizzare l’intera Palestina.

Un tale progetto richiede una pulizia etnica attraverso il genocidio da un lato e la fuga dei palestinesi nel Sinai egiziano dall’altro. La proposta degli Stati Uniti di cancellare il debito dell’Egitto in cambio in cambio dell’accettazione dei rifugiati gazawi nel Sinai, conferma i suoi obiettivi di guerra, ovvero una nuova Nakba. Il rifiuto dei palestinesi di abbandonare Gaza nonostante gli orrori subiti spiega di aver compreso appieno i suoi obiettivi di guerra. L’ostinazione a restare, nonostante il dolore e la distruzione, è già un fallimento del progetto occidentale…

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Fawzi Ismail: “La resistenza palestinese è una lotta di classe mondiale”

(intervista di Giulia Bertotto)

Fawzi Ismail è presidente dell’associazione Amicizia Sardegna-Palestina attiva a Cagliari dal 1997, e direttore del Festival del Cinema di Cagliari Al-Ard film Festival, il quale propone opere palestinesi e arabe ormai da vent’anni. Informare, sensibilizzare e resistere contro l’occupazione israeliana, questo l’obiettivo della rassegna cinematografica. Ismail ha scelto lo strumento del cinema per informare e contrastare la manipolazione dei mass media schierati da sempre a favore di Israele, anche se oggi in maniera più eclatante che mai. Lo abbiamo intervistato.

Di cosa si occupa l’associazione?

L’associazione Amicizia Sardegna Palestina è nata nel 1997. In Palestina, c’era una situazione molto difficile dopo l’inganno degli accordi di Oslo. Con alcuni amici arabi, palestinesi e sardi, eravamo convinti che la questione palestinese non potesse essere risolta dalla stretta di mano tra Arafat e Rabin, alla Casa Bianca, nel settembre 1993. Non avevamo dubbi sul fatto che gli accordi di Oslo avrebbero generato una fase transitoria. Fallimentaree progressivamente catastrofica per i palestinesi e vantaggiosa per l’occupazione militare israeliana. Conoscevamo bene la logica sionistae il progetto coloniale d’insediamento israeliano in Palestina. Sapevamo che lo stato d’apartheid mirava alla continuazione della pulizia etnica, iniziata in Palestina nel 1947-48, che il suo obiettivo ultimo era la distruzione della società palestinese, la cacciata e lo sterminio della popolazione. Il tempo, purtroppo, ha mostrato che avevamo ragione.

La falsa pace di Oslo, la brutale aggressività dell’esercito israeliano e l’aumento esponenziale delle colonie e dei coloni ha ridotto la Palestina Occupatain diversi “bantustan” separati tra loro. Con lo scopo d’impedire ogni possibilità di creare uno Stato palestinese indipendente nei territori sottratti coi massacri della guerra del 1967, e di cancellare ogni diritto del popolo palestinese. Consapevoli di tutto ciò, come associazione Amicizia Sardegna Palestina, abbiamo continuato a far conoscere la questione palestinese e la Palestina, raccontando storia, cultura, arte, bellezza, sofferenza e l’eroica resistenza della sua gente.

Tra le diverse attività, nel 2002, abbiamo deciso di fondare un festival per mostrare al pubblico film e documentarti che testimoniassero la vita in Palestina, e quella dei palestinesi nei campi profughi in Siria, Libano e Giordania. La diffusione di creazioni cinematografiche e letterarie di rilevanza assoluta è stata accompagnata dalla contro informazione. La voce dei palestinesi è risuonata e risuona forte, potente e nitida. In contrapposizione ai media ufficiali e dominanti in occidente che fanno disinformazione, propaganda sionista e ci impediscono di esprimerci. Del resto, Israele è un avamposto del colonialismo occidentale in Medioriente.

Cosa pensa oggi della risoluzione ONU riassunta nel motto due popoli due stati?

Da più di un secolo, da quando il colonialismo europeo ha deciso di fondare un focolare sionista in Palestina, aveva previsto la cacciata dei suoi abitanti. Ossia la pulizia etnicaa cui facevo cenno prima. Un colonialismo d’insediamento che ha il suo basamento nell’espulsione dei palestinesi dalle loro case, dalla loro terra, e nel saccheggio e nel furto da parte degli ebrei – a suo tempo perseguitati dagli europei – di ogni nostro elemento vitale. Inglesi, francesi e italiani hanno addestrato e armato bande sioniste per seminare il terrore nella Palestina mandataria per annientare la popolazione che ci abitava, da ben prima della Shoah. Il fatto che simile progetto fosse antecedente è raccontato mirabilmente da Ghassan Kanafani ne “La rivolta del 1936-1939 in Palestina”.

Allora l’obiettivo sionista era impossessarsi di tutta la Palestina e costruire uno stato ebraico. La resistenza dei palestinesi li ha però frenati. Da qui nasce la risoluzione 181 dell’ONU di spartizione della Palestina. Una risoluzione ingiusta nei confronti dei palestinesi, una formula magica per la demagogia coloniale: due popoli due stati. Da più di 75 anni sentiamo questalitania. E, al contempo, vediamo il sostegno incondizionato dell’Occidente allo stato illegittimo e d’apartheid israeliano, con la fornitura di armi, denaro etecnologia. Quindi continuare asbandierare questo slogan ipocrita ha solo il significato di incoraggiare Israele a continuare la pulizia etnica cominciata nel 47-48 fino al genocidio ora in atto.

Israele è imputato al tribunale dell’AJA per genocidio, ma la risposta degli USA e dell’Unione Europea, complici del massacro, è ancora “due popoli, due stati”. Quando si parla di “due popoli e due stati” bisogna comprendere che uno stato coloniale, come quello israeliano, non ha confini e non vuole averne.

Al momento degli accordi di Oslo, i coloni sionisti in Cisgiordania e Gaza erano duecentomila. Adesso sono oltre ottocentomila. Hanno frammentato la Palestina e hanno minato ogni possibilità di trovare un’intesa di questo genere. Oggi è una possibilità tramontata, finita e inaccettabile. Oggi significa solo volontà di cancellare la Palestina.

I giovani manganellati a Pisa e in altre città per aver protestato per la causa palestinese. Come può commentare questa violenza antidemocratica. La protesta in Italia è un diritto sancito costituzionalmente.

Personalmente condanno queste aggressioni da parte del governo ed eseguite delle forze dell’ordine sugli studenti e sui giovani. C’è un clima di israelizzazione in Italia e in Europa. Il governo italiano è coinvolto nel supportare Israele nell’attuale genocidio nella striscia di Gaza e cerca di reprimere ogni dissenso contro la criminale politica sionista. Il governo italiano fornisce appoggio diretto all’esercito israeliano, sia con la vendita di armi a Tel Aviv (oggi intensificata), sia con i 1700 soldati israeliani cittadini italiani sul campo, come ha fatto sapere il Ministro degli esteri pochi giorni dopo il 7 ottobre. Nonostante più di trentamila morti, settantamila feriti e due milioni di sfollati in neanche cinque mesi. Come se non bastasse, sono state proibite le manifestazioni per la Palestina in alcune zone, nei centri storici, in alcune date, in totale inosservanza della volontà della popolazione italiana che vuole opporsi a questo genocidio. Ma questa concezione inautentica e ingannevole di democrazia non riguarda soltanto l’Italia, ma l’intera Unione Europea e gli Stati Uniti. I governi alleati di Israele dovrebbero smettere di ergersi a paladini della democrazia, dovrebbero smettere di parlare di diritto internazionale, diritti umani e libertà di espressione, dal momento che sono complici di crimini contro l’umanità.

Vediamo ogni giorno questo genocidio sui social: ha ancora fiducia in una Palestina libera dal colonialismo di Israele?

Assolutamente sì. Nella storia, nessuna occupazione coloniale è durata in eterno. La libertà è un istinto umano insopprimibile. La libertà è un’esigenza che nessuna donna, nessun uomo è disposto ad abbandonare. Più forte di ogni barbarie subita. La resistenza palestinese, anche quella armata, è un diritto dei palestinesi. Terrorista è chi ruba o distrugge le case di un altro popolo. Non chi difende la propria terra. Gaza sta combattendo contro il mondo per la libertà di tutti. L’Italia non poteva essere liberata dal nazifascismo senza la lotta armata dei partigiani, e lo stesso vale per la resistenza palestinese. Israele è una potenza nucleare, però la resistenza palestinese ha dalla sua la spinta alla giustizia. E questa paga sempre. I popoli che vogliono essere liberi vincono sempre.

Nessuno sostiene di fatto il popolo palestinese, neppure le nazioni islamiche.

Questo non mi sorprende. Vede, a separare gli esseri umani non è il credo o la religione. È la questione sociale, non quella confessionale. Il mondo non è diviso tra fedi diverse. È diviso tra poveri e ricchi, è diviso dalla lotta di classe. L’obiettivo reale dell’occupazione sionista non è dare una patria al popolo ebraico. Questo è il pretesto strumentale. In verità, lo scopo è avere un avamposto di controllo e una sanguisuga che saccheggi il Medio Oriente. L’alleanza è di tipo imperialistico-capitalistico. Non di segno religioso. Quella di Gaza è una lotta di classe internazionale.

Il soldato americano che si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington è deceduto. Il massacro del popolo palestinese porta atrocità e dolore in molti modi.

Esprimo la mia solidarietà e il mio cordoglio per questo ragazzo. È la dimostrazione che la coscienza può confliggere con l’indottrinamento. Qualcuno non regge alla convinzione indotta che sia giusto trucidare bambini. Questo massacro dei gazawi ha smascherato chi abbiamo vicino. Chi vuole la libertà per Gaza? I giovani, la classe operaia, le persone che si sentono libere. La Palestina sta pagando un prezzo altissimo, ma sta dando un impulso fortissimo di libertà mondiale. Grazie alla resistenza di Gaza, i popoli possono rendersi conto se coloro che li governano sono tiranni che agiscono contro la loro volontà oppure figure elette e chiamate dal popolo a rappresentarli.

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Come tante formichine affamate e schiacciate – Ennio Remondino

   

Israele prova a discolparsi perché l’ondata di indignazione questa volta rischia di sommergere la poca credibilità e simpatia rimasta al Paese nel mondo. Ma è il governo di Israele che ha gestito sino ad oggi i trentamila morti di Gaza a non essere più credibile. Perché far morire di fame è peggio che uccidere di bomba, e sparare su chi cerca la farina per sfamare i figli, è vigliaccheria ultima e imperdonabile.
Prepotenti di scarsa memoria e il loro braccio armato senza regole, non conoscono ciò che segnò nella Sarajevo assediata, l’allora strage del pane, nell’indignazione assoluta che isolò Karadzic e i sui killer dal grilletto facile, dal resto del mondo.

Il mondo si indigna e Israele inventa

Capi di Stato da mezzo mondo, costretti a volte anche malvolentieri a deprecare, sulla spinta della indignazione popolare in casa. Persino l’arsenale e il bankomat statunitense che la guerra alimenta. Arrivano tra i 30mila che li hanno preceduti, altri 120 palestinesi morti tra la folla, forse qualcuno calpestato mentre cercava di fuggire da chi sparava attorno.

Viste dall’alto sembrano formichine

«Viste dall’alto, sembrano formichine -la percezione di Chiara Cruciati del dramma visto dalle immagini di un drone dell’esercito israeliano-. Sembrano formichine, o stormi di uccelli. La folla di affamati non sembra fatta di persone». Poi, se si scende a terra, i volti si distinguono. «Nei video le facce sono bianche di morte e di farina, file di cadaveri su carretti trainati dagli asini e sul retro di furgoncini», la lapide quasi piangente sul Manifesto.

I pochi testimoni diretti

Alle quattro del mattino, alla luce di pochi falò accesi sulla sabbia, migliaia di civili di Gaza Nord aspettano l’arrivo dei tir carichi di sacchi di farina. Da trentasette giorni l’agenzia Unrwa ha smesso di distribuire cibo ai palestinesi nella metà nord «perché non riusciamo più ad arrivare lì». Dieci giorni fa anche il Programma alimentare mondiale ha smesso di portare cibo in quella zona. Perché ciò che resta delle Striscia di Gaza è diviso da una linea di posti di blocco militari, e chi è in un settore non può andare nell’altro. «Nella metà Nord centinaia di migliaia di persone sono tagliate fuori dai rifornimenti, a improvvisare la sopravvivenza giorno per giorno in un territorio che tra ottobre e dicembre è diventato il più bombardato al mondo», sottolinea Daniele Raineri, l’inviato di Repubblica.

I video e le contrapposte letture dei fatti

A un certo punto in un video girato prima dell’alba si sentono raffiche di mitragliatrice, la folla che si assiepava attorno ai camion sbanda. «C’è chi si tiene basso e chi invece corre via incespicando. Poche ore e arriva la luce dell’alba a mostrare l’orrore». Fares Awana, capo del servizio ambulanze dell’ospedale Kamel Adwan, racconta che il terreno era coperto di morti e feriti e che le ambulanze non sono bastate a portare via tutti. «I video che arrivano qualche ora dopo dalla zona del massacro mostrano corpi accatastati su carretti trainati da asini lungo la via al Rashid che costeggia il mare e da quel che si vede si può dire che non sono vittime di bombardamenti aerei, che è la morte più comune fra i civili di Gaza».

La versione israeliana

L’esercito israeliano invece sostiene che la maggior parte delle vittime sono morte schiacciate dalla calca e dai camion che avanzavano nel buio. Poi in un secondo momento una coda della folla si è spostata verso le posizioni dei soldati israeliani a bordo di carri armati, che a quel punto si sono sentiti minacciati, hanno aperto il fuoco, «prima hanno sparato colpi di avvertimento in aria, poi hanno puntato alle gambe e hanno colpito dieci persone».

Testimonianze che smentiscono

Shukri Filfil, un diciassettenne di Gaza, racconta su Instagram: «Un massacro, ero nel mezzo di un massacro. Morti a destra, a sinistra e ovunque. Il carro armato si muoveva e sparava sulle persone». Il dottor Jadallah al Shafi, che ha ricevuto le vittime all’ospedale al Shifa, dice di non avere visto casi di soffocamento, o ferite come se le vittime fossero morte schiacciate nella ressa. Dice invece che le ferite erano da schegge e da proiettili. Non solo spari ma anche granate? Kamel Abu Nahel racconta a Reuters, mentre è steso per terra all’ospedale al Shifa con una ferita da arma da fuoco: «Sono due mesi che mangiamo mangime per animali. Le truppe israeliane hanno aperto il fuoco sulla folla e l’hanno dispersa, alcuni si sono nascosti sotto le auto. Quando gli spari sono finiti siamo tornati verso i camion ma i soldati hanno sparato di nuovo, sono stato colpito a una gamba, sono finito a terra e un camion in fuga mi è passato sopra la gamba».

I conti dell’orrore e le poche verità sfuggite

Ieri il bilancio della guerra ha superato i trentamila morti. 30mila uccisi significa un gazawi su 75. Con 10mila dispersi e 70mila feriti, significa che un palestinese di Gaza su 20 è morto, ferito o disperso. Poi ci sono i vivi, ma la fame usata come arma non lascia scampo neppure a loro. E il segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, in un’audizione pubblica ha detto che il numero di donne e bambini uccisi a Gaza è venticinquemila, un numero superiore a quello dato da Hamas. Il Pentagono ha poi diffuso una nota per smentire la dichiarazione del suo ministro. Ancora Chiara Cruciati. «Gaza è una tomba, lo è anche dell’incapacità di dare un nome alle cose. Certe parole fanno paura all’Europa che non si interroga sul loro senso e la loro pratica. Razzismo, colonialismo, suprematismo: a Gaza ci sono tutte. Anche genocidio».

Custodia Terra Santa: «Qui si muore di fame due volte»

«A Gaza si muore di fame due volte perché gli aiuti umanitari non arrivano, vengono negati e si muore facendo la fila per un pezzo di pane». Padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, non usa mezzi termini, mentre sottolinea le contraddizioni della versione israeliana dei fatti. Due diverse versioni. Prima ricostruzione, l’esercito che conferma di aver sparato sulla folla poiché ritenuta ‘una minaccia’, e ora a sostenere di aver sparato qualche colpo in aria, o al massimo alle gambe. Salvo i morti e le centinaia di feriti per colpi di arma da fuoco. Il vicario della Custodia ricorda che a Gaza «manca tutto, cibo, acqua, elettricità e medicine per gli ospedali, rifugi sicuri. Nessuna cura a nessun tipo di malattia, anche le patologie più semplici. Muoiono neonati nelle incubatrici, muore chi ha bisogno di cure sistematiche, muore soffrendo chi potrebbe avere sollievo almeno negli ultimi giorni di vita».

«A Gaza si muore facendo la fila per un pezzo di pane». «Mi chiedo – conclude padre Ibrahim – come non si riesca a fermare questo continuo e incessante massacro. Mi chiedo come un essere umano possa infierire su altri esseri umani inermi, resi fragili dalla fame, su bambini stanchi e impauriti da cinque mesi di guerra».

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Oltre i due terzi degli israeliani si oppongono agli aiuti umanitari ai palestinesi che muoiono di fame a Gaza – Jonathan Ofir

Un nuovo sondaggio dell’Istituto Israeliano per la Democrazia mostra che il 68% degli israeliani si oppongono “al trasferimento di aiuti umanitari ai residenti di Gaza”.

Questo è un dato scioccante. L’Istituto Israeliano per la Democrazia ha pubblicato questa settimana un sondaggio che mostra che oltre i due terzi degli israeliani, cioè il 68%, si oppongono “al trasferimento di aiuti umanitari ai residenti di Gaza in questo momento”.

La situazione è anche peggio: il sondaggio ha abbassato il livello per escludere qualsiasi possibile opposizione all’UNRWA (contro cui Israele si sta incitando) o alle autorità di Hamas (che Israele considera terroristi). Oltre due terzi si oppongono ancora agli aiuti umanitari “tramite organismi internazionali che non sono collegati ad Hamas o all’UNRWA. La maggioranza degli intervistati (68%) si oppone al trasferimento di aiuti umanitari anche in queste condizioni”, rileva il sondaggio.

La percentuale aumenta quando si tratta degli israeliani di destra, dove l’opposizione è all’80%, quattro su cinque. E si consideri che circa i due terzi degli elettori israeliani sono considerati di destra.

Qui bisogna davvero fermarsi. Ci troviamo in una situazione in cui i palestinesi di Gaza muoiono di fame, le persone consumano mangimi per animali nella loro disperazione. La settimana in cui il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite ha riferito che le persone a Gaza stanno “già morendo per cause legate alla fame”, una analisi nutrizionale dell’UNICEF nel Nord di Gaza ha rilevato che 1 bambino su 6 sotto i due anni è gravemente malnutrito. Gli israeliani non ignorano la situazione. Stanno sostenendo il Genocidio a stragrande maggioranza.

È ormai prassi comune nella società israeliana discutere a partire da quale età sia accettabile che i bambini muoiano di fame. Una recente discussione sul programma di notizie dell’emittente pubblica ha raggiunto un consenso tra un ex funzionario del Mossad e la conduttrice della trasmissione sul fatto che i bambini di età superiore ai 4 anni potevano anche morire di fame.

Gran parte del mondo, compresi gli Stati Uniti, sembra negare quanto la società israeliana sia realmente Omicida ed esplicitamente Genocida. Nancy Pelosi continua a parlare di Israele come “dell’unica democrazia nella regione” mentre gli stessi israeliani sostengono la morte per fame dei bambini. Le persone semplicemente non sembrano capirlo.

L’aiuto umanitario è stato uno dei punti principali dell’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio, emessa quando il tribunale ha ritenuto plausibile che Israele stia commettendo un Genocidio, come addebitato dal Sudafrica. Era il punto 4 dei 6, che afferma:

“Lo Stato di Israele adotterà misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari per far fronte alle condizioni di vita avverse affrontate dai palestinesi nella Striscia di Gaza”.

Anche il giudice israeliano incaricato Aharon Barak, che ha votato contro 4 delle 6 misure urgenti, ha votato a favore di questa (è stata approvata 16 a 1, con l’eccezione della sola giudice ugandese Julia Sabutinde, che ha votato contro tutte le misure).

Questa è una cosa così basilare, un requisito così fondamentale, anche in guerra. Quando ci si oppone a una questione così cruciale, diventa qualcosa di diverso dalla guerra: diventa un Genocidio. Come stiamo vedendo.

Questo sondaggio sembra solo confermare ciò che abbiamo già visto. I manifestanti israeliani hanno bloccato i camion degli aiuti al confine meridionale vicino a Rafah. Si potrebbe essere tentati di inquadrarli come estremisti marginali, ma il sondaggio mostra che sono nella corrente principale. Il sondaggio rileva anche che i leader israeliani come il Ministro della Difesa Yoav Galant, che all’inizio del Genocidio disse: “Ho ordinato un assedio totale sulla Striscia di Gaza; niente elettricità, niente cibo, niente carburante, embargo totale, stiamo combattendo degli animali e agiremo di conseguenza”, sono realmente rappresentativi della popolazione più ampia.

Questo è il peggior livello di disumanizzazione nella società israeliana che posso ricordare da quando sono nato lì, 52 anni fa. Naturalmente, questa disumanizzazione non è iniziata il 7 ottobre, ed esisteva molto prima che io nascessi e anche prima che esistesse lo Stato. Ma ora sembra essere giunta al culmine. Agli israeliani non sembra importare più nemmeno di mantenere una parvenza di liberalismo: sono entrati in una vera e propria modalità di Genocidio. E quando dico disumanizzazione, non sono solo i palestinesi ad essere disumanizzati in questo processo. Gli israeliani si stanno riducendo a un livello di barbarie. È davvero qualcosa che abbiamo fatto a noi stessi mentre ci convincevamo che togliere decine di migliaia di vite palestinesi ci salverà in qualche modo da questo abisso. Non lo farà.

Jonathan Ofir è un direttore d’orchestra, musicista, scrittore e blogger israelo-danese, che scrive regolarmente per Mondoweiss.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Violare l’intimità – Nina Berman

I soldati israeliani si sono fotografati in posa con la lingerie delle donne palestinesi che hanno sfollato o ucciso a Gaza. Queste foto si uniscono a una lunga serie di immagini di conquista, da quelle di Abu Ghraib allo spettacolo dei linciaggi dell’era di Jim Crow.

 

Soldati israeliani fotografati con la lingerie di donne palestinesi a Gaza. (Foto: social media)

È stata la lingua a farmi fermare, impietrita. La lingua e il sorriso selvaggio da mangiatore di merda sul volto del soldato, mentre lui e il suo amico si avvicinano alla telecamera. Guardaci! Guarda cosa abbiamo trovato! È un reggiseno, un reggiseno da donna, il reggiseno di una donna palestinese lasciato in una casa da cui è stata costretta a fuggire. E ora è nostro, e ci giocheremo perché possiamo fare, e lo porteremo per strada, poseremo con esso e mostreremo al mondo chi siamo, ragazzi esaltati per il genocidio.

C’è qualcosa di indicibilmente vile e infantile nelle immagini delle truppe israeliane che circolano sui social media, che li mostrano mentre posano per delle foto con biancheria intima rubata dalle camere da letto delle donne di Gaza. In mezzo agli assalti quotidiani e all’infinita serie di omicidi, privazioni e fame forzata, per non parlare delle immagini di bambini palestinesi mutilati, ecco i soldati israeliani fuori di sé dalla gioia autocelebrativa, che esultano nello strappare reggiseni e nello sbirciare mutandine…

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La fine di un consenso ingiustificato. Israele verifica come le è cambiato il mondo intorno – Sergio Cararo

Alcuni anni fa lo storico israeliano Ilan Pappè inchiodava le responsabilità della comunità internazionale nella complicità con i crimini coloniali israeliani contro i palestinesi chiedendo: “Fino a quando il mondo permetterà a Israele di fare quello che fa?

L’incantesimo sbagliato, che ha consentito decenni di consensi e complicità del tutto ingiustificati a livello internazionale verso Israele, sembra però essersi spezzato in più punti di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza

Perfino in tre importanti paesi dove il livello di servilismo e complicità con lo Stato di Israele appariva inamovibile (Germania, Stati Uniti, Italia), si è rotto il silenzio e si palesano proteste sia verso la politica israeliana sia verso i suoi pervasivi – ma oggi meno efficaci – apparati ideologici di stato.

Mentre non si è ancora spenta né risolta la questione della partecipazione israeliana all’Eurovision, sul piano culturale si sono aperti altri fronti di contestazione contro Israele.

In Germania durante la cerimonia di premiazione del festival del cinema di Berlino sabato scorso ha fatto scalpore il regista statunitense Ben Russell ha accettato il premio per il suo documentario Direct Action indossando una kefiah palestinese sulle spalle e dichiarando che “Naturalmente siamo per la vita e siamo contrari al genocidio, e per un cessate il fuoco in solidarietà con i palestinesi”.

Applausi anche per la coppia di registi israeliano e palestinese Yuval Abraham e Basel Adra premiati per il loro documentario “No Other Land” e per le parole pronunciate durante la premiazione, quando hanno parlato di “carneficina e massacro dei palestinesi”. Le consuete reazioni di protesta di politici e ministri tedeschi a difesa di Israele non hanno avuto il potere interdittivo esercitato in passato. Se la diga si rompe si rompe.

Perfino nella pavida Italia, dopo le parole di Ghali al Festival di Sanremo, intorno alla Biennale di Venezia si è alzata la voce di Anga, sigla che sta per “Art Not Genocide Alliance”, un’alleanza di artisti che nel giro di poche ore ha raccolto oltre diecimila firme, intorno a un documento che dichiara: “Noi firmatari chiediamo l’esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia”.

La richiesta di escludere Israele è contenuta in una lettera diretta alla Fondazione della Biennale, che ha già raccolto migliaia di sottoscrittori. “Mentre il mondo dell’arte si prepara a visitare il diorama dello stato-nazione ai Giardini – si legge nell’appello –, affermiamo che è inaccettabile ospitare uno Stato impegnato nelle atrocità in corso contro i palestinesi a Gaza. No al Padiglione del Genocidio alla Biennale”.

I promotori dell’iniziativa hanno sottolineato che “la richiesta di riconoscimento delle atrocità commesse dai partecipanti” all’esposizione veneziana “non sono senza precedenti”. Dal 1950 al 1968, ricordano, “a causa della diffusa condanna globale e degli appelli al boicottaggio, il Sudafrica dell’Apartheid fu scoraggiato dall’esporre e messo da parte quando la Biennale assegnò gli spazi. Il Sudafrica non fu riammesso fino all’abolizione del regime dell’apartheid nel 1993“.

Viene poi citato il caso del conflitto russo in Ucraina: “Nel 2022 – si legge nella lettera – la Biennale ha condannato l’inaccettabile aggressione militare da parte della Russia, che includeva la dichiarazione di rifiutare qualsiasi forma di collaborazione con coloro che hanno compiuto o sostenuto un atto di aggressione così grave“.

I promotori hanno quindi puntato il dito anche contro “il silenzio” della Biennale “sulle atrocità di Israele contro i palestinesi. Siamo sconvolti da questo doppio standard – proseguono -. Qualsiasi lavoro che rappresenti ufficialmente lo Stato di Israele costituisce un’approvazione delle sue politiche genocide. Non esiste libera espressione per i poeti, gli artisti e gli scrittori palestinesi assassinati, messi a tacere, imprigionati, torturati”.

Infine, e proprio negli Stati Uniti, la protesta contro la complicità della Casa Bianca con Israele è detonata anche sul piano politico e non solo in quello universitario o nelle piazze.

Il presidente Biden, infatti ha vinto le primarie democratiche in Michigan con il 78,5 per cento dei voti, ma almeno il 16,5 per cento degli elettori ha scelto l’opzione “uncommitted” sulla scheda elettorale, accogliendo la richiesta avanzata da diversi attivisti e organizzazioni solidali con la Palestina che hanno protestato contro le politiche dell’amministrazione Biden su Israele Gaza. Si tratta di circa 17.300 voti: un dato già di gran lunga superiore ai 10 mila voti di scarto che hanno permesso a Trump di conquistare lo Stato alle elezioni del 2016.

Il fatto che questa clamorosa azione di protesta sia avvenuta in un meccanismo decisivo della politica negli Stati Uniti dà il segno di come il sistema di intimidazione dei gruppi sionisti sulla politica, la cultura e il mondo accademico Usa venga oggi contrastato apertamente.

Israele sta ormai verificando non solo che il mondo intorno è cambiato ma che le file di quelli disposti a chiudere gli occhi o abbassare la testa di fronte ai crimini di guerra israeliani si sono assottigliate. Forse il mondo sta finalmente cessando di “permettere a Israele di fare quello che fa”.

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Il segretario generale del movimento dei kibbutz conferma il ruolo del movimento nella creazione e nel mantenimento dell’Apartheid israeliano – Jonathan Ofir

Il kibbutz è stato a lungo celebrato dai liberali come un esempio del pedigree socialista di Israele, ma il capo del movimento Nir Meir afferma che la “prima missione” dei kibbutz era “conquistare la terra”, e oggi sono pronti a “mantenere avamposti” vicino a Gaza.

Per molti anni, in Israele la società dei kibbutz ha rappresentato l’“Israele liberale”, utilizzato per evidenziare il “bellissimo Israele”, e molti hanno raccontato la loro esperienza come volontari in uno dei kibbutz o in un altro – incluso Bernie Sanders. Naturalmente, i kibbutz erano molto altro: sono stati fin dall’inizio strumenti centrali nella pulizia etnica della Palestina. Centinaia di questi kibbutz, incluso il Kibbutz Givat Haim Ichud, dove sono nato e cresciuto, sono stati costruiti sulle rovine di villaggi palestinesi etnicamente puliti per impedire il ritorno dei rifugiati palestinesi e creare nuovi “stato di fatto sul terreno”.

Per molti anni, questa immagine liberale e di sinistra è servita a mascherare la distruzione sistemica di cui i kibbutz facevano parte. Ma ora cadono le maschere. In una lunga intervista ad Haaretz, il segretario generale del movimento dei Kibbutz, Nir Meir, che lo dirige da nove anni, afferma che è ora di abbandonare questa pretesa di sinistra. “La destra ha ragione”:

“I coloni non hanno torto. La destra ha ragione: questo è il modo di impadronirsi e di mantenere la terra, e la loro affermazione secondo cui, in qualunque posto noi israeliani dovessimo lasciare, gli arabi arriveranno al nostro posto, è corretta. La destra ha ragione ANCHE nel suo percorso: è attraverso l’accordo e solo attraverso l’accordo che la sovranità può essere imposta. Il dibattito è se la sovranità debba essere imposta. Gli insediamenti affermano di essere i successori del Kibbutz Hanita [al confine con il Libano], perché, proprio come ai tempi della “Tower and Stockade” [un metodo per stabilire nuovi insediamenti durante il periodo del mandato britannico], [è necessario] conquistare collina dopo collina, senza riguardo per la legge e creando situazioni di fatto sul campo. Loro [i coloni] hanno imparato da noi come stabilirsi e impossessarsi della terra. La discussione con loro non riguarda il modo o il metodo, ma l’intenzione e l’obiettivo”.

Questo è in realtà molto onesto. Le differenze tra i coloni della Cisgiordania e i kibbutz sono superficiali.

Meir racconta come ha collaborato con l’estrema destra, attraverso il ministro delle missioni nazionali del sionismo religioso Orit Strock:

“Ho collaborato con Orit e con la destra anche nel promuovere l’insediamento ebraico nel cuore della Galilea [riferendosi a una legge che consente a comunità di migliaia di famiglie di gestire comitati di ammissione per filtrare gli aspiranti nuovi residenti]. Questa legge va contro l’approccio politicamente corretto che avrebbe portato a una situazione in cui nel cuore della Galilea, invece del 50% di ebrei e 50% di arabi, ci sarebbero stati l’85% di arabi e solo il 15% di ebrei. Sono molto determinante [nell’approccio], promuovo i valori in cui credo, con tutti coloro che sono pronti a collaborare. La correttezza politica è post-sionista e io sono sionista”.

Quindi, Meir racconta apertamente come la legge sui “comitati di ammissione”, ampliata l’anno scorso, intende facilitare la demografia dell’apartheid. È d’accordo con l’estrema destra su questo. È anche “buon amico” dei leader del movimento dei coloni della Cisgiordania:

“Pinchas Wallerstein [ex capo del Consiglio degli insediamenti Yesha in Cisgiordania] è un mio buon amico e ha svolto un ruolo importante nella riabilitazione delle comunità di fronte a Gaza dopo l’operazione Protective Edge [2014]. Non è settario e lo stimo moltissimo”.

Meir non si considera di sinistra. “Mi definisco una persona che capisce dove vive.”

Pace con i palestinesi?

“Non ci sarà pace con i palestinesi. La mia opinione è cambiata molto prima del 7 ottobre. Non è stato il disimpegno [ritiro da Gaza del 2005] a fallire, è Oslo. Non mi racconto storie”.

Meir ritiene che ora  i kibbutz stiano virando più chiaramente a destra. E penso che abbia ragione su questo. L’intervistatore Meirav Moran gli chiede: “I kibbutz di fronte a Gaza sono sempre stati contrassegnati come di sinistra sulla mappa politica israeliana. Rifletti le loro opinioni?

Meir risponde:

“L’atteggiamento verso il conflitto e la sua soluzione è destinato a cambiare a tutti i livelli. Molti dei kibbutznik che hanno vissuto il 7 ottobre non sopportano di sentire l’arabo e vogliono vedere Gaza cancellata. Sono loro le nuove “vittime della pace”. Pochissimi dei kibbutznik le cui case segnano il confine pensano oggi che le persone che vivono dall’altra parte siano brave persone. Non riescono a superare razionalmente l’esperienza emotiva. Il trauma è più forte della loro visione del mondo”.

Ho effettivamente sentito alcuni di questi kibbutznik e la loro chiara difesa del genocidio. Meir dice che sono molti. E questi kibbutznik sono collegati alla società dei kibbutz in generale. Stanno passando da  sinistra al genocidio.

Ma Meir pensa che sia giusto spostarsi a destra, anzi è felice di guidare questa mossa: “Sono felice di passare alla storia come la persona che ha abrogato la storica alleanza tra il movimento dei kibbutz e i classici partiti di sinistra”.

Meir ha ben chiaro il ruolo storico del kibbutz, afferma che la “prima missione” dei kibbutz era “conquistare la terra. . . Non è un caso che ovunque si desiderasse impadronirsi di una parte della Terra d’Israele, sono sorti dei kibbutz”.

Ed è chiaro nel voler continuare questo tipo di missione, considerando persino gli attuali kibbutz come “avamposti civili”. “Anche oggi il kibbutz è il modo più efficace per mantenere un centinaio di avamposti civili lungo la recinzione di confine”, dice ad Haaretz.

Questo potrebbe lasciare a bocca aperta coloro che credevano che i kibbutz in Israele fossero una manifestazione di uguaglianza e armonia di sinistra e socialista, ma non è mai stato così. Israele sta commettendo un genocidio a Gaza, e il movimento dei kibbutz si sta mobilitando ancora una volta per svolgere un ruolo centrale nella Nakba, questa volta la Nakba del 2023-4. Non si tratta di un cambiamento improvviso di carattere: l’aspetto genocida è sempre stato lì, ma si nascondeva sotto una maschera. È giunto il momento che anche il resto del mondo rinunci alla sua romantica e falsa speranza che “l’altro Israele” un giorno risorga dalle ceneri. Non esiste un altro Israele.

Grazie a Ofer Neiman

Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

da qui

 

 

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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