Raccontare il carcere e la complessità del reale
Riprendiamo dalla rivista dell’associazione Voci di dentro vocididentro.it l’intervista di Marica Fantauzzi a Daniele Aliprandi, giornalista di Il Dubbio che si occupa di carcere e criminalità organizzata.
Da alcuni mesi viene sospeso, fino a essere rimosso, senza alcuna chiara ragione, il profilo Facebook di Damiano Aliprandi, giornalista de Il Dubbio impegnato sul fronte dei diritti umani nonché profondo conoscitore delle complesse dinamiche che riguardano mafia ed antimafia.
Damiano, come ti spieghi questa forma di accanimento? Hai mai ricevuto risposte chiare su quali contenuti avrebbero violato la policy di Fb? Hai mai avuto modo di appellarti o interloquire con un moderatore?
È la prima volta che mi trovo in questa situazione. Pensavo di essere al sicuro, dentro una fortezza alla maniera de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati — e, come insegna il romanzo, quella percezione non è davvero rassicurante, ma può trasformarsi in una trappola esistenziale. Per anni ho vissuto nell’illusione che il profilo fosse una mia proprietà esclusiva: lo usavo per pubblicare i pezzi, costruire contatti, trovare fonti. La sospensione, con motivazioni generiche e comunicazioni automatiche, mi ha dimostrato il contrario: quando una piattaforma ti cancella dopo un ricorso — senza confronto umano, affidandosi a un algoritmo — ti ritrovi esposto e fragile. Morale? Non eri proprietario, eri ospite. E quando l’ospite viene sbattuto fuori, ti senti inutile e precario.
Scorrendo il tuo profilo, è evidente che l’uso che ne fai è prioritariamente professionale e, quindi, fortemente collegato a quello che scrivi come giornalista. Nei mesi in cui non potevi accedere al tuo profilo, hai ragionato sulla possibilità di abbandonare definitivamente Facebook e trovare metodi alternativi? Come curare una tua newsletter?
Purtroppo ho dovuto fare i conti con la mia pigrizia, quindi sono un pessimo esempio. Per comodità ho affidato gran parte della mia visibilità a Facebook. Per me era il modo più rapido per far circolare i pezzi, tenere viva la rete di contatti, rapportarmi con persone affini (la cosiddetta bolla) e reperire fonti. Nel periodo in cui sono rimasto sospeso a lungo mi sono sentito come se fossi “sparito”. Non essendo una grande firma né scrivendo per grandi testate, la mia esistenza professionale dipende anche dagli articoli che raggiungono un pubblico il più ampio possibile. Da anni ormai il giornalista si autosponsorizza attraverso i social: Facebook è comodo, ma sappiamo bene quanto sia invecchiato e quanto non sia utile se si vogliono raggiungere i giovanissimi. La strategia — che io non ho messo in campo — è quella di diversificare: più impegno su un sito personale e nel costruire rapporti diretti con i lettori via newsletter; usare canali come Telegram per la distribuzione rapida, quando serve; creare contenuti giornalistici su Instagram o TikTok.
Allargando lo sguardo, credi che si possa fare giornalismo oggi senza passare per queste piattaforme? O, piuttosto, credi che la loro centralità sia talmente forte da condizionare non solo la distribuzione ma anche il contenuto e lo stesso linguaggio giornalistico?
Non se ne può fare a meno. Il limite è sia tecnico sia culturale: se il tuo lavoro vive di visibilità e di rottura dello status quo, perdere la platea che offrono le grandi piattaforme significa ridurre l’impatto immediato delle storie che scavi. Allo stesso tempo, però, queste piattaforme hanno concentrato l’audience e trasformato le pratiche: il titolo urlato, il tempo di lettura brevissimo, l’algoritmo che premia la viralità più che la qualità. Ormai il giornalista si sta trasformando in un influencer. Così si approfitta della polarizzazione, del bianco o nero, si punta sull’emotività e si cancellano le complessità. La maggior parte dei “giornalisti–influencer” scrive pensieri virali basandosi sulle notizie fornite dai giornalisti veri. E per veri giornalisti intendo quelli che stanno sul campo, che riportano i fatti o fanno inchieste approfondite, anche se oggi i ruoli tendono a confondersi. Alla fine ci si condiziona a vicenda. Il risultato? L’attendibilità della notizia si fonda più sul rapporto personale che su criteri oggettivi. E il valore del giornalista-influencer dipende dal numero di follower e dalla capacità di sfornare i contenuti imposti dall’algoritmo. Per quanto mi riguarda, io scelgo di usare lo strumento senza farmi condizionare, pur sapendo di rimanere inevitabilmente di nicchia.
Nelle tue inchieste ti occupi di detenzione, di criminalità organizzata e, più in generale, di diritti umani. Hai iniziato a fare giornalismo occupandoti da subito di questi temi o scrivevi di altro?
Ho iniziato occupandomi di detenzione fin da subito. Penso che il compito principale del giornalismo sia mettere in luce gli abusi che commette lo Stato: attraverso la logica punitiva, si sente legittimato a violare i diritti umani. Spesso si rischia di diventare impopolari nel denunciare questi abusi, non solo fisici, perché sono legittimati dall’opinione pubblica alimentata dallo stesso giornalismo. Credo che il carcere, e in generale tutte le strutture statali che tolgono la libertà, così come i tribunali, debbano essere seguiti dai giornalisti per spiegare la complessità delle realtà e rendere trasparenti poteri che rischiano — come tutti i poteri — di restare opachi. Non c’è argomento più delicato per il giornalismo di questo tipo di cronaca. Forse non c’è altro ambito in cui la sua funzione possa esprimere meglio la rilevanza civica. Anche perché è nei tribunali e nelle carceri che si esercita la forma più incisiva dei poteri: quello che toglie la libertà, la dignità, i beni e, in alcuni Paesi, anche la vita delle persone. Conoscere, per esempio, il sistema penitenziario e quello giudiziario mi ha portato ad approfondire temi che non avrei mai pensato di affrontare. Solo per fare un esempio: la conoscenza del 41 bis mi ha permesso di notare che qualcosa non tornava nel teorema della trattativa Stato–mafia. Per farla breve: l’unica “prova” che avrebbe dimostrato l’esistenza della trattativa, o meglio la minaccia al corpo politico dello Stato, sarebbe stata che l’ex ministro Giovanni Conso, fine giurista passato alla politica, nel 1993 non prorogò il 41 bis a circa 300 mafiosi. Allora, da semplice giornalista, ho cercato le fonti e ho scoperto una realtà banale: Conso dovette dare seguito alla sentenza della Consulta numero 349, depositata in cancelleria il 28 luglio 1993, che dichiarava la costituzionalità del 41 bis previa valutazione caso per caso e non collettiva. Ebbene, Conso — a meno che non si voglia sostenere che la Costituzione italiana sia frutto della trattativa Stato–mafia — mise in pratica la sentenza. Dei 336 decreti in scadenza, il 41-bis non fu rinnovato soltanto per 18 detenuti appartenenti a Cosa nostra (a sette dei quali fu, peraltro, riapplicato poco dopo), per 9 detenuti della ’ndrangheta, per 5 della Sacra Corona Unita e per 10 della camorra. Dunque la stragrande maggioranza di loro non era nemmeno mafiosa. È solo un esempio: approfondire il sistema carcerario aiuta anche a leggere meglio le altre bufale, anche in ambito giudiziario. Al costo di essere impopolari a causa del giornalismo oramai appiattito alle narrazioni che “vendono” di più.
Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, nel 1992 la presenza media dei detenuti nelle carceri italiane si attestava attorno alle 44.134 unità. In quell’anno i suicidi accertati furono 47. Nel 2024 la media delle presenze è stata di 61.507 con 83 suicidi (secondo il calcolo di Ristretti Orizzonti il numero sale a 91). Da cronista che ha seguito l’evoluzione del sistema penitenziario italiano in questi anni, quali credi che siano le derive più preoccupanti a cui stiamo assistendo oggi? Cosa ci dicono questi dati sullo stato di salute delle carceri italiane e sull’efficacia del sistema nel tutelare i diritti di chi è recluso e di chi lavora all’interno delle carceri?
I dati che hai citato parlano da soli. Partire dal 1992 è corretto: in quegli anni, quando il sovraffollamento era inesistente, si contavano quasi 3.000 omicidi all’anno. Ebbene, dal sito del Ministero si apprende che l’anno scorso ne sono stati registrati 319. Questo dimostra chiaramente che, mentre i reati — soprattutto quelli gravi — sono diminuiti drasticamente, le nostre carceri continuano a scoppiare. Il problema è che la politica corre dietro ai consensi e, se i giornali enfatizzano certi crimini, subito si approva una legge ad hoc per aumentare le pene o creare nuovi reati. Sono nati persino reati specifici per l’ambito penitenziario: pensiamo ai telefonini e alle rivolte, persino passive. Il risultato è paradossale: continuano a girare più telefonini e i detenuti, esasperati dalle condizioni, protestano — come è successo recentemente a Rebibbia. Non bisogna dimenticare che, con il Decreto Caivano, per la prima volta il sovraffollamento riguarda anche le carceri minorili, un tempo considerate il nostro fiore all’occhiello.
In “Les prisons de la misère”(1999) Loïc Wacquant sosteneva che non avesse senso analizzare le dinamiche della politica penale separandole dalla politica sociale nel suo complesso. Ovvero, la tendenza punitiva di uno Stato è strettamente legata a un arretramento delle sue funzioni sociali. In questo senso Wacquant scriveva che esistono forti legami «sia ideologici sia pratici, fra il deperimento dello stato sociale e il dispiegarsi del suo braccio penale». Sei d’accordo con questa lettura? Credi che dopo oltre vent’anni possa essere valida anche per comprendere l’attuale condizione italiana?
Sì, la lettura di Wacquant rimane attuale per capire il quadro: quando il welfare arretra, il territorio si svuota di risposte e la politica tende a spostare il problema sul piano penale. Non è un’idea astratta: si leggono gli effetti quotidiani nelle carceri piene e nelle politiche che trattano il carcere come l’unica soluzione, non come extrema ratio. Chi governa sceglie spesso il contenimento e l’inasprimento delle pene anziché la prevenzione, con conseguenze che ricadono sui più fragili. Bisogna però stare attenti anche all’altra faccia del populismo penale, quella speculare, secondo cui “in carcere ci finiscono solo i poveracci”. Cosa comporta? Se si parla di indulto o amnistia, da una parte c’è chi grida: “Servono a liberare rapinatori e stupratori”, dall’altra: “Così liberano i colletti bianchi amici dei politici”. Il risultato non cambia: si mantiene lo status quo delle carceri e delle politiche repressive. Nel corso del mio lavoro, ho scritto articoli che parlano di ingiustizie e abusi che vanno da un Marcello Dell’Utri all’ultimo migrante recluso. Così come gli abusi del 41 bis. È sbagliatissimo fare una selezione “di classe”. Ricordo quando l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando tentò di far passare la sacrosanta riforma penitenziaria: Il Fatto Quotidiano titolò: “Spacciatori in libertà!”. Oppure, più di recente, quando l’attuale ministro Nordio — finora solo a parole — ha espresso l’intenzione di limitare la carcerazione preventiva, lo stesso giornale ha scritto che si vogliono salvare i colletti bianchi indagati. Con questa retorica, secondo cui i colletti bianchi in carcere non ci finirebbero mai, alla fine ci rimettono tutti gli altri e non si avrà mai una riforma seria. Per semplificare: a destra domina il populismo penale, a sinistra quello giudiziario che ha sostituito la “lotta di classe” con la “lotta penale”. Il risultato è sempre lo stesso: quel giustizialismo che rappresenta l’inizio di ogni regime, la degenerazione dispotica dei poteri dello Stato che finiscono per annullare i cardini della democrazia liberale.
Marica Fantauzzi da qui https://vocididentro.it/media/News/Raccontare-il-carcere-per-raccontare-la-complessita-del-reale