Turchia, Kurdistan, Isis: i morti, le schede, i bambini scomodi

due articoli di Gianni Sartori e un’analisi di Murat Cinar

Si continua a morire nelle carceri del fascista Erdogan

di Gianni Sartori

Zülküf Gezen

Uğur Şakar

Ayten Beçet

Zehra Sağlam

Medya Cinar

Yonca Akici

Sirac Yuksek

Ormai sono sette. Sette in neanche quindici giorni

Il 2 aprile un altro prigioniero politico si è tolto la vita. Ancora un’azione di protesta contro l’isolamento a cui viene sottoposto il leader curdo Ocalan.

Militante del PKK, Sirac Yuksek era rinchiuso nel carcere di Osmaniye. Il suo cadavere è stato portato all’Istituto di medicina Forense e si teme che non venga riconsegnato ai familiari per il funerale.

Sette curdi (sei prigionieri nelle carceri turche e un militante in Germania) hanno già perso la vita con queste radicali azioni dimostrative contro il regime carcerario turco.

Il 17 marzo era stato Zulkuf Gezen nel carcere di Tekirdag a compiere l’atto di estrema protesta. Pochi giorni dopo – il 22 marzo – in un ospedale tedesco moriva Ugur Sakar che un mese prima si era autosacrificato con le fiamme a Krefeld. Rinchiusa a Gebze, Ayten Becet si era suicidata il 23 marzo. Il giorno successivo la medesima scelta veniva compiuta da Zehra Saglam in una prigione speciale della provincia di Erzurum, E ancora Medya Cinar, sempre in un carcere speciale, il 25 marzo. Yonka Akici era in sciopero della fame dal 1 marzo nella prigione di Sakram: aveva deciso di porre fine alla sua vita il 29 marzo, ma era sopravvissuta alle ferite fino al 1 aprile. Il giorno dopo – 2 aprile – è stata la volta di Sirac Yuksek.

Finora i corpi dei prigionieri che hanno scelto di immolarsi contro l’isolamento – e di conseguenza contro il regime carcerario– non sono stati restituiti ai familiari. Prima trattenuti dalle autorità, vengono poi sepolti di notte, clandestinamente. Impedendo a parenti, amici e militanti di onorarli. Solo a pochissimi membri della famiglia talvolta si consente di assistere.

Da un lato verrebbe da associarsi alle richieste di politici, associazioni e movimenti curdi (compreso il PKK) che hanno richiesto, quasi ordinato, di «finirla con queste azioni individuali». Proseguendo invece nello sciopero della fame, una lotta collettiva che al momento coinvolge circa settemila prigionieri.

Dall’altro lato si intuisce quale sia ormai la rabbia, se non la disperazione, dei prigionieri curdi che evidentemente percepiscono la vergognosa indifferenza delle istituzioni internazionali nei confronti delle loro sofferenze.

Onore al loro coraggio, alla loro determinazione.

(di tozlumikrofon)

Turchia: la sconfitta elettorale e la polvere sotto il tappeto

di Murat Cinar (*)

Le elezioni amministrative che si sono svolte il 31 marzo sono state una sconfitta storica per il Partito dello Sviluppo e della Giustizia, AKP, e la sua coalizione. Dopo circa trent’anni nella capitale del Paese, Ankara, e nella città più grande, Istanbul, hanno trionfato le opposizioni.

Le prime reazioni della coalizione di governo sono state di grande aggressività e paranoia. Ovviamente è stato avviato, ancora una volta, il motore delle calunnie da parte dei media mainstream che lavorano ormai come organi di stampa del governo.

Manipolazione politica

Nella notte delle elezioni, il candidato sindaco della coalizione di governo per la città di Istanbul, Binali Yildirim, si è presentato davanti alle telecamere dichiarando la sua vittoria. Questa manovra ha ricevuto la reazione del suo concorrente, Ekrem Imamoglu, che ha invitato il suo avversario ad aspettare i risultati ufficiali. Nelle ore successive il sito dell’agenzia nazionale di notizie, Anadolu Ajansi, ha smesso di tramettere i risultati. Nelle prime ore del primo aprile, il comune di Istanbul ha iniziato a tappezzare la città con i manifesti che riportavano la foto del candidato del governo insieme a quella del Presidente della Repubblica. Sopra queste due facce sorridenti c’era una frase che dichiarava la “vittoria” di Yildirim. A quel punto ormai era essenziale sentire una dichiarazione ufficiale da parte della Commissione Elettorale, YSK. Infatti nelle prime ore della mattinata Sadi Guven si è presentato davanti alle telecamere e ha dichiarato che la vittoria era più vicina a Imamoglu che Yildirim. Inoltre, Guven ha sottolineato che l’agenzia nazionale non era un loro cliente.

A quel punto il Paese si trovava di fronte un’agenzia che dichiarava risultati a suo modo, ea un candidato che si era già autodichiarato vincitore nonostante i risultati fossero diversi. Nelle ore successive, la coalizione di governo ha iniziato a imboccare la sua solita strada, quella di ignorare il passato e di avviare il motore della calunnia.

Diversi esponenti del partito al governo hanno iniziato a parlare di brogli. In pochi minuti gli organi di stampa del governo li hanno assecondati e pian piano è stata creata l’immagine di una tornata elettorale piena di irregolarità.

Il 2 aprile, Ali Ihsan Yavuz, il vice presidente dell’AKP ha parlato così: “Siamo di fronte alla tornata elettorale più irregolare della storia della Repubblica”. Secondo Yavuz c’erano più di 300 mila schede ritenute non valide che quindi andavano ricontate. In poche ore la Commissione Elettorale ha deciso di accogliere la richiesta dell’AKP ed è partito il riconteggio.

Tuttavia, secondo Canan Kaftancıoğlu, la presidentessa della sede del Partito Popolare della Repubblica, CHP, questa decisione della Commissione Elettorale non rispettava il regolamento interno. Kaftancıoğlu lo stesso giorno, in una conferenza stampa, ha dichiarato: “Le schede non valide ci sono sempre state. Quando si chiude un seggio, dopo lo scrutinio, se i membri della commissione locale ritengono che sia opportuno, scrivono una relazione, così quelle schede non valide possono essere ricontrollate. Ma nel nostro caso non si tratta di una situazione del genere, riguardo alle schede non valide. Quindi il partito al governo ha ottenuto una cosa che va contro il regolamento interno della Commissione Elettorale”.

Nonostante questo in 18 località si stanno riconteggiando i voti non validi. Finora, sembra che non ci siano cambiamenti nei risultati.

Manipolazione mediatica

Il 3 aprile il quotidiano nazionale, Star, è uscito in prima pagina con il seguente titolo: “Chi ha organizzato il golpe nei seggi”. Con questo articolo, il giornale filo-governativo sostiene che il successo elettorale delle opposizioni sia il frutto di un lavoro pilotato che punta a taroccare la tornata elettorale, “esattamente come hanno provato fare con Gezi”.

Lo stesso filone è stato inseguito anche da Ibrahim Karagul, caporedattore del quotidiano nazionale conservatore Yeni Safak. Nel suo articolo, Karagul sostiene che questo risultato elettorale sia il frutto di un progetto ideato dalla comunità di Gulen, quella realtà economica e politica accusata di stare dietro il fallito golpe del 15 luglio del 2016. In conclusione, il caporedattore chiede che le elezioni vengano rifatte, esclusivamente a Istanbul.

Anche secondo uno dei più grandi giornali del Paese, Sabah, si tratta di un’operazione studiata, e il titolo in prima pagina è “Il futuro di Istanbul sta nei voti rubati”. Altri quotidiani nazionali filo-governativi, Aksam, Gunes e Akit, hanno seguito la stessa linea di Sabah accusando le opposizioni di aver pianificato un broglio enorme che le ha portate a questo successo elettorale.

Riconteggio negato
Mentre i riflettori sono puntati su Istanbul, per certi versi legittimamente, in altre città la richiesta per il riconteggio delle opposizioni è stata rigettata.

Il Partito Democratico dei Popoli ha presentato la sua richiesta di riconteggio alla Commisione Elettorale, YSK. Secondo i candidati sindaco ed alcuni dirigenti locali e nazionali del Partito, in alcune località sono state registrate diverse irregolarità. Questa richiesta acquista senso sopratutto in quelle zone in cui gli avversari del partito richiedente hanno vinto con una differenza molto piccola: nella città di Muş con 538, nel municipio di Malazgirt con 3, nel municipio di Tatvan con 295, a Taşlıçay con 144, a Gercüş con 43, a Dargeçit con 634, a Viranşehir con 757, a Şemdinli con 154 e nel municipio di Esendere con 115, il Partito Democratico dei Popoli ha perso le elezioni. Quindi con un eventuale cambiamento numerico la situazione politica potrebbe essere diversa. Tuttavia, in queste zone, tutte le richieste di riconteggio dell’HDP sono state rigettate.

Un passato dimenticato

Le irregolarità hanno sempre fatto parte dell’esperienza elettorale della Turchia. In ogni tornata elettorale gli osservatori dei partiti delle opposizioni e quelli internazionali hanno sempre documentato, in vari modi, numerose irregolarità. Nonostante ciò, il partito al governo ha sempre sostenuto che in Turchia le elezioni si svolgono senza nessun broglio ed hanno invitato le opposizioni di accettare il risultato che esce dai seggi senza “lamentarsi”.

Esattamente come disse nel 2018 Bekir Bozdağ, l’ex vice Primo Ministro, in occasione delle elezioni politiche: “In Turchia, chiunque parli di brogli elettorali vuol dire che è stato sconfitto ai seggi”.

Anche Ibrahim Kalin, il portavoce del Presidente della Repubblica, durante le elezioni politiche del 2018, aveva detto: “Il sistema elettorale, in Turchia, è molto sicuro e trasparente. E’ impossibile fare brogli”

Il candidato sindaco per la città di Ankra, del partito al governo, Mehmet Özhaseki, durante quest’ultima campagna elettorale ha affermato: “Il giorno delle elezioni le opposizioni vedranno che hanno perso le elezioni ed inizieranno a lamentarsi dicendo che ci sono stati dei brogli”.

L’ultimo esempio arriva da Ali Ihsan Yavuz, il vice presidente dell’AKP, che ha pronunciato queste parole pochi giorni prima di questa tornata elettorale: “Forse siamo noi i più capaci a garantire la sicurezza del voto, nel mondo”.

Ma perché?

Senz’altro ci troviamo di fronte a una nuova campagna di grande manipolazione dovuta alla sconfitta elettorale subita dal disegno economico e politico che governa la Turchia da circa 20 anni. Nel caso di Istanbul e Ankara si tratta di un cambio di potere dopo 25 anni di monopolio. Non è certo un cambiamento facilmente accettabile, sopratutto per una volontà politica come quella dell’AKP.

D’altra parte in questi giorni si parla anche di altre questioni che possono essere alla base di questa campagna. Secondo alcuni giornalisti il governo sta cercando di guadagnare tempo. La giornalista, Çiğdem Toker, del quotidiano Sozcu, sostiene che il governo sta lavorando su un cambiamento legislativo che legherebbe i comuni, in quasi tutti i casi, direttamente al Presidente della Repubblica al momento di trattare di appalti importanti. Quindi con questa novità il governo centrale aumenterebbe il suo controllo sugli enti locali.

Al candidato sindaco delle opposizioni per la città di Istambul, Ekrem Imamoglu, in questi giorni pare arrivino diverse chiamate di denuncia che parlano di operazioni all’interno del municipio di Istanbul. Chi ha chiamato Imamoglu sostiene che con queste operazioni qualcuno distrugge cartelle, dischi rigidi e computer che contengono informazioni importanti.

Oltre alle idee ci sono anche fatti. Nel comune di Bismil, in provincia di Diyarbakir, il candidato vincente, Orhan Ayaz si è trovato senza un edificio dove poter svolgere le assemblee del consiglio. Il sindaco uscente, nominato dal governo centrale sotto lo stato d’emergenza, circa due anni fa, ha dato in donazione l’edificio del comune al commissariato di polizia della città.

In questi anni si è parlato molto delle grandi opere inutili, dei progetti di riqualificazione urbanistica che distruggono le città, di sussidi dati dai comuni con obiettivi elettorali e della corruzione che svuota le casse di numerose municipalità. Secondo il portale di notizie EuroNews, le prime cinque città più indebitate della Turchia, in questi ultimi 15 anni. sono state sempre governate dal partito al governo.

(*) da https://www.pressenza.com/it/

A QUANDO IL RIMPATRIO DEI FIGLI EUROPEI DEI MILIZIANI ISLAMICI?

di Gianni Sartori

Chissà cosa si aspettavano i governanti europei – e magari anche le “pubbliche opinioni” – dai curdi delle YPG che hanno sconfitto sul terreno le ultime roccaforti dell’Isis al prezzo della vita di quasi 10mila compagni (curdi, arabi, siriaci e internazionalisti). Forse che, poco elegantemente, non facessero prigionieri? Ma questo è un esercito di liberazione, non una banda di tagliagole e nemmeno di mercenari al soldo dell’imperialismo. Quindi ora i prigionieri e le loro disgraziate famiglie (i figli sono sempre innocenti, le donne – si presume – almeno in parte) rimangono acquartierati nei campi di raccolta o, fuori dagli eufemismi ipocriti, di concentramento. In attesa che la “vecchia Europa” si riprenda almeno i suoi concittadini e le rispettive famiglie.

Non si può certo pretendere che i curdi – incastrati fra l’imminente pericolo di ulteriori attacchi da parte di Ankara e la strumentale, precaria, alleanza con la coalizione occidentale – si facciano carico all’infinito del problema.

Ciò che maggiormente preoccupa è la situazione dei bambini, figli incolpevoli dei fanatici integralisti seguaci del Califfato.

Su tale problema è intervenuta, alla fine di marzo, una ONG belga, la Fondation Child Focus. Ricordo che il Belgio – insieme alla Francia e proporzionalmente al numero dei suoi abitanti (11 milioni) – ha fornito il maggior numero di combattenti di origine europea allo Stato islamico. Oltre 400 si calcola.

Sorta inizialmente per assistere i bambini maltrattati e sfruttati sessualmente, dal 2012 – in genere su sollecitazione dei nonni dei bambini – Child Focus si occupa anche di quelli portati in Siria da genitori belgi aderenti all’Isis. Ha richiesto un “rimpatrio rapido” dei bambini feriti o in condizioni di salute precarie, bambini che al momento si troverebbero – la maggior parte almeno – nei campi del nord-est siriano (Al-Hol, Roj e Ain Issa) sotto il controllo curdo. Viene anche riportata la notizia della morte di due di loro negli ultimi giorni. In un caso, il piccolo sarebbe morto per denutrizione, mentre l’altro (un bambino di un anno di età colpito da un proiettile vagante) non sarebbe stato curato adeguatamente. Un terzo decesso di minore risaliva all’anno scorso. Sempre recentemente, a una bambina rimasta ferita sarebbe stato amputato un braccio.

Ormai la situazione umanitaria nei campi è diventata insostenibile anche per l’arrivo di numerose famiglie di jiadisti da Baghuz, l’ultima “ridotta” dello Stato islamico caduta in mano alle Forze Democratiche Siriane (FDS, l’alleanza arabo-curda) il 23 marzo. Nel comunicato, la direttrice generale di Child Focus, Heidi De Pauw, ha mostrato preoccupazione – oltre naturalmente che per i feriti – soprattutto per gli orfani e per i bambini sequestrati o rapiti. Al momento nei campi sotto controllo curdo ci sarebbero una quarantina di bambini di nazionalità belga. La maggior parte avrebbe meno di sei anni e almeno quattro senza nessun parente in vita. Fra bambini e adolescenti, in totale i belgi sarebbero – secondo Child Focus – circa 160. In parte nati in Siria, in parte qui trasportati dal Belgio.

Redazione
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Un commento

  • Gianni Sartori

    STRASBURGO: CONDANNE DI MILITANTI CURDI PER I FATTI DEL 25 FEBBRAIO

    Sono 17 (due donne e quindici uomini di età compresa tra i 19 e i 32 anni) i giovani curdi condannati il 4 aprile, dopo un’udienza di nove ore, dal tribunale di Strasburgo per i danneggiamenti al Consiglio d’Europa risalenti al 25 febbraio. Sette di loro comparivano in aula da detenuti.
    Le condanne variano da un mese a un anno di detenzione. Le pene più pesanti riguardano il militante curdo ritenuto l’organizzatore della manifestazione (poi degenerata in disordini) e altri due per danneggiamenti e atti di violenza nei confronti della polizia. Uno soltanto degli imputati vive in Francia, tutti gli altri in Germania e quindi – dopo essere già stati rimessi in libertà – dovranno eventualmente scontare qui la loro pena. Inoltre dovranno indennizzare il Consiglio d’Europa (si parla di una cifra di 296.000 euro) e per due anni non potranno recarsi in Francia.
    Sostanzialmente “un giudizio equilibrato”- hanno spiegato i loro avvocati Florence Dole e Sendegul Aras – in quanto la pena è inferiore a quanto richiesto dal pubblico ministero che aveva prospettato una condanna a 18 mesi.

    Il 25 febbraio di quest’anno una quarantina di militanti curdi avevano danneggiato l’Agorà, un immobile del Consiglio d’Europa che ospita il CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura). Organismo a cui i curdi rimproverano una eccessiva prudenza (eufemismo) in merito alla situazione di Abdullah Ocalan, il leader settantenne curdo segregato a Imrali dal 1999.
    I danneggiamenti consistevano in alcuni vetri (blindati) infranti dalle sassate (sanpietrini) dei manifestanti.
    Tutti loro hanno dichiarato di non aver preso parte all’iniziativa con l’intenzione di compiere danneggiamenti, ma per visitare i curdi che da dicembre sono in sciopero della fame davanti al Consiglio d’Europa e di aver voluto entrare all’Agorà per parlare con un rappresentante del CPT in quanto turbati dalle condizioni di salute degli scioperanti.
    Gianni Sartori

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