Dilemmi della transizione ecosociale …

… dall’America Latina.

di  Maristella Svampa (*)

1. Introduzione (1)

L’obiettivo di questo saggio (2) è offrire uno sguardo su alcuni dei dilemmi, ostacoli e opportunità della transizione ecosociale in America Latina.
Lungi dal proporre un approccio esaustivo, data la lunghezza e gli obiettivi di questo scritto, cercherà di sviluppare alcune dimensioni della problematica e alcuni casi emblematici, che aiuteranno a illustrare e comprendere il processo di transizione ecosociale, i suoi limiti e ostacoli, per quanto riguarda la transizione energetica e, in misura minore, la transizione produttiva.

L’articolo è strutturato in quattro parti. In un primo momento, vengono trattati la definizione della transizione ecosociale e altri concetti quadro, al fine di avanzare in questo modo in una concettualizzazione della transizione energetica.
In un secondo momento viene affrontato il caso del cosiddetto Triangolo del Litio (Argentina, Bolivia e Cile), come esempio di colonialismo energetico. Allo stesso modo, viene presentata una sintesi delle strategie nazionali di questi tre paesi, nonché alcuni degli ostacoli esistenti per quanto riguarda l’attuazione delle politiche di integrazione energetica.
L’esempio preso per questo è il rapporto dell’America Latina con la Cina, un paese che ha una presenza di rilievo nel settore estrattivo nella regione latinoamericana. Terzo, viene fatto un confronto tra progressi e dilemmi della transizione energetica, prendendo a questo scopo due paesi del Cono Sud: Argentina e Uruguay. Allo stesso modo, sarà realizzato un excursus sulle possibilità aperte dalla vittoria del duo Gustavo Petro/Francia Márquez in Colombia.
La quarta e ultima sezione di questo articolo tratta molto brevemente della transizione produttiva, con particolare attenzione allo sviluppo dell’agroecologia.

2. Verso una comprensione integrale e strategica della transizione socio-ecologica

Il concetto di transizione è stato utilizzato in vari modi.
In termini generali, la transizione designa un cambiamento di stato, di modo di essere o di stare. Viene quindi inteso come un processo con una certa estensione nel tempo, che comprende tappe e può fare riferimento a un cambiamento di sistema sociale (come la transizione dal feudalesimo al capitalismo), o di regime politico (come la transizione da una dittatura a una democrazia in America Latina, o la transizione dal comunismo al capitalismo, nei paesi dell’est europeo).
Come viene trattato in questa sede, la transizione ecosociale deve essere intesa da una prospettiva olistica che punta a un cambiamento globale del regime socio-ecologico, a livello energetico, produttivo e urbano, verso modelli che articolano la giustizia sociale con la giustizia ambientale, verso pratiche economiche e produttive basate sulla reciprocità, la complementarità e l’attenzione; verso un nuovo patto con la natura, che garantisca la sostenibilità di una vita degna.

La nostra visione sulla necessità della transizione socio-ecologica parte da una diagnosi critica, che riunisce i concetti di “Antropocene” e “collasso ecologico” in un quadro comune. Come diagnosi, l’Antropocene fa riferimento a molteplici fattori di origine antropogenica, tra cui l’emergenza climatica, legata all’emissione di CO2 e altri gas serra; l’estinzione di massa di specie e la conseguente perdita di biodiversità; cambiamenti nei cicli biogeochimici, essenziali per mantenere l’equilibrio degli ecosistemi; l’aumento della popolazione mondiale e della concentrazione urbana, l’espansione di un modello di consumo insostenibile e un regime alimentare globale tossico, controllato da grandi multinazionali.

Di fronte ai limiti naturali ed ecologici del pianeta, l’Antropocene segnala l’imminenza di un punto di non ritorno e, soprattutto, ci avverte che il collasso ecologico è già iniziato. Non c’è bisogno di aspettare che il permafrost rilasci il metano che ha nascosto per millenni sotto le calotte glaciali o l’estinzione accelerata di più specie. Gli allarmi climatici sono già così tanti e di tale entità che è difficile compiere un rilevamento che non sia poi superato da nuove tragedie, senza che questo diminuisca la nostra capacità di restare stupiti. Ad esempio, gli incendi boschivi in ​​Amazzonia e in Australia tra il 2019 e il 2020 hanno mostrato nuovi fenomeni classificati come “tempeste di fuoco”, ovvero incendi che rilasciano una quantità di energia tale da modificare la meteorologia dell’ambiente circostante (El Periódico, 2017), e stanno installando un probabile scenario del prossimo futuro.

Stiamo attraversando una policrisi, le cui molteplici dimensioni presentano forti elementi macroscopici di incertezza, che tendono ad intensificarsi e rafforzarsi tra loro (Tooze, 2022). A più di due anni dalla dichiarazione della pandemia di COVID-19, e con un nuovo scenario catastrofico aperto dalle conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina, ciò che si intravede sotto il nome di “nuova normalità” rivela un peggioramento e un inasprimento — sociale, economico, ecologico e geopolitico — delle condizioni esistenti, un ingresso nell’era del collasso, non solo ecologico ma anche sistemico.

Come si evince dai numerosi studi che analizzano come e perché diverse società si sono estinte nel corso della storia, il collasso è un processo graduale, variabile e differente da crollo e da cambiamenti negativi su larga scala. Il suo transito coinvolge però diversi livelli (ecologico, economico, sociale, politico), così come diversi gradi (non deve essere necessariamente totale) e differenze geopolitiche, regionali, sociali ed etniche (non tutte soffrono il collasso nella stessa maniera). (Diamond, 2006; Fernández Durán e González Reyes, 2018; Taibo, 2017; Servigne e Stevens, 2020).

Tuttavia, il collasso può essere visto non solo come un processo negativo (crollo e decomposizione), ma anche come un’opportunità per ripensare quale Antropocene vogliamo attraversare come umanità.
Come affermano Servigne e Stevens (2020): “Il collasso non è la fine del mondo, ma è probabilmente la fine del mondo per come lo conosciamo”, il che ci obbliga a discutere elementi e politiche, per poterlo attraversare “il più umanamente possibile”. Comprendere il collasso come parte dell’Antropocene, cioè come una crisi straordinaria che comporta un cambio di regime socio-ecologico, significa riconoscere e affrontare la transizione come un processo inevitabile, ma consapevole. Come sostengono diversi movimenti sociali: “La Transizione è inevitabile, la giustizia non lo è” (3).
Così, la transizione può essere disordinata e irregolare, portare a un capitalismo del caos, ampliare le disuguaglianze sociali e aggravare i fenomeni di xenofobia e di estrema destra, oppure può essere una transizione programmata, giusta, democratica che conduca a una trasformazione del quadro di fattori ed elementi necessari alla vita, in cui si combinano valori egualitari e democratici e una società resiliente, basata su una visione relazionale della natura.

In questo contesto di crisi straordinaria e disputa di civilizzazione, emerge la questione di cosa s’intende per transizione giusta, non solo in termini di relazione tra il sistema sociale e il sistema naturale, ma anche in termini geopolitici, di rapporto Nord/Sud come fondamentale. In termini generali, il capitalismo è andato approfondendo un profilo metabolico insostenibile, attraverso l’accelerazione del metabolismo sociale, utilizzando meno lavoro intensivo e più uso intensivo di energie (Toledo, 2013: 47-48) (4).
Di pari passo con l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e la nuova architettura del commercio mondiale, la globalizzazione ha consolidato un modello di consumo non sostenibile che, per mantenersi nei paesi più ricchi, richiede una maggiore quantità di materie prime ed energie provenienti dai paesi del Sud del mondo, il che porta con sé una maggiore pressione sulle risorse naturali e sui territori, e favorisce i processi di espropriazione e criminalizzazione delle popolazioni locali.

Lo studio del metabolismo sociale mette in evidenza una geopolitica dell’Antropocene e la persistenza del debito ecologico, con le sue inequivocabili radici storiche e coloniali. I Paesi centrali industrializzati continuano ad essere importatori di natura, ruolo che ora stanno assumendo anche le grandi economie emergenti (Cina).
Questi Paesi presentano maggiori emissioni a seconda del loro consumo, superiori alle emissioni prodotte nei loro limiti territoriali, in quanto importano più commodities o prodotti primari e secondari, esternalizzando così gli impatti, in nome della cura dell’ambiente nei propri Paesi. Da parte sua, il Sud del mondo si fa carico dei costi di appropriazione ed estrazione delle commodities, nonché delle passività socio-ambientali, trasformando i propri territori in zone di sacrificio.

Il debito non è solo ecologico ma anche climatico.
Tra il 1751 e il 2010, solo 90 imprese furono responsabili del 63% delle emissioni cumulative di CO2. Nel 1900, Gran Bretagna e Stati Uniti rappresentavano il 60% delle emissioni cumulative di CO2; nel 1950, il 55% e quasi il 50% nel 1980. Attualmente, le emissioni di CO2 derivanti dalla combustione di combustibili fossili rappresentano il 65% delle emissioni totali di gas serra (GHG). Lungi dall’avere un’espressione uniforme, nell’ultimo decennio, i quattro principali emettitori (Cina, Stati Uniti, i 27 paesi membri dell’Unione Europea e India) hanno contribuito per il 55% alle emissioni totali di GHG (ONU, 2019).
Per quanto riguarda le emissioni dell’America Latina e dei Caraibi, queste rappresentano solo l’8,3% delle emissioni mondiali. Mentre il 70% delle emissioni globali proviene dal settore energetico, nella regione la partecipazione di questo settore è del 45%, seguita dal 23% dall’agricoltura e dall’allevamento e dal 19% dal cambiamento di uso del suolo (Rabi, Pino e Fontecilla, 2021), quest’ultimo strettamente associato alla deforestazione e al progresso dell’agrobusiness.

L’accelerazione del metabolismo sociale continua ad essere presente nei programmi di transizione presenti nei paesi del Nord, visibile nell’inasprimento dello sfruttamento delle risorse naturali, associato a un modello di crescita infinita.
In questa direzione, è necessario introdurre con forza nell’agenda globale della transizione ecologica il problema del debito ambientale del Nord nei confronti del Sud, e l’amplificazione delle disuguaglianze che il suo perdurare comporta nell’analizzare i processi di transizione oggi esistenti. (soprattutto la transizione energetica).
Tuttavia, il riconoscimento del debito ecologico e climatico non può essere utilizzato per assolvere i modelli di ‘malsviluppo’ che si dispiegano nei territori del Sud globale, ostruendo ogni loro critica, così come le discussioni che vengono proposte dal basso sulla transizione ecosociale.
In realtà, non c’è niente di più coloniale che accettare passivamente il ruolo assegnato all’America Latina come fornitore globale di materie prime, come se questo fosse un destino e non una decisione geopolitica globale, anche se questo viene fatto in nome della transizione. (Svampa e Viale, 2020).

Dal nostro punto di vista, la transizione socio-ecologica è un orizzonte più ampio che dovrebbe servire a porci domande più radicali sul tipo di società in cui vogliamo vivere, sui modelli di sviluppo che stiamo proponendo per il futuro. È chiaro che è necessario abbandonare la matrice energetica dipendente dai combustibili fossili, poiché oltre ad essere grandi inquinatori, minacciano la continuità della vita sul pianeta.
Ma la transizione energetica non può indurci a optare per false soluzioni, che continuino a espropriare le popolazioni e rafforzare le disuguaglianze sia sociali che territoriali, nonché la divisione internazionale del lavoro oggi esistente. Né può essere la scusa per consolidare e/o mantenere modelli di consumo non sostenibili. La transizione deve essere giusta, sia dal punto di vista ambientale e sociale, sia dal punto di vista geopolitico, includendo il Sud globale.

Comprendiamo che la transizione ecosociale, nelle sue varie modalità e ambiti, ci colloca in un campo di disputa di civilizzazione e pone come sfida la necessità di costruire una società giusta e sostenibile, che comprenda congiuntamente le realtà del Nord e del Sud globali, in chiave sociale, di genere, etnica e geopolitica, e che rompa con gli schemi della neodipendenza e del debito ecologico.

2.1. La transizione energetica in America Latina

La matrice energetica latinoamericana è costituita principalmente da idrocarburi, tra cui gas naturale (34%) e petrolio (31%), mentre l’energia idroelettrica contribuisce per l’8%; energia solare 6%, e l’energia geotermica e nucleare 1%. Il restante 19% corrisponde a varie fonti energetiche, come carbone, bagassa o legna da ardere (Téllez, 2020). Pertanto, sebbene la dipendenza della regione dai combustibili fossili sia inferiore alla media globale, la disponibilità di queste risorse fossili in diversi paesi dell’America Latina, nonché la persistenza di un immaginario ‘desarrolista’, fanno sì che la decarbonizzazione della matrice energetica sia ancora un obiettivo lontano.

Le caratteristiche del sistema energetico della regione latinoamericana sono state riassunte da Bertinat (2016):
Alta concentrazione per quanto riguarda la proprietà e la gestione delle risorse energetiche convenzionali; forti impatti sulle popolazioni interessate dall’intera catena di esplorazione, estrazione, trasformazione e utilizzo dell’energia; elevati impatti ambientali sulla biodiversità nelle aree rurali e urbane; emissioni di gas serra, che causano il processo di riscaldamento globale e cambiamento climatico; impatti delle grandi opere infrastrutturali energetiche — di tutti gli anelli della loro catena — sui territori, sulla biodiversità e sulle comunità interessate, molte delle quali sviluppate con denaro pubblico; disuguaglianze legate alle caratteristiche di appropriazione dell’energia e dei suoi benefici lungo tutta la catena produttiva; appropriazione privata e a scopo di lucro di beni e servizi energetici; la mercificazione delle catene energetiche in ​​tutte le loro fasi; in molti paesi, le normative vigenti nel settore energetico provenienti dal processo neoliberista degli anni ’90, nelle quali il consenso di Washington ha sempre spinto forti riforme; diminuzione dell’efficienza nella produzione di energia: è necessaria sempre più energia per produrre un’unità di energia utile; assenza di partecipazione dei cittadini alla costruzione delle politiche energetiche e soprattutto nella possibilità di decidere sugli usi del territorio.

Questa diagnosi-sintesi rivela la necessità di una riforma globale che, in termini di transizione energetica, scommetta sulla democratizzazione del sistema energetico. Per questo chiamiamo transizione energetica il passaggio da una concezione dell’energia, di natura concentrata, ad un’altra che la concepisce in termini di bene comune, rinnovabile e sostenibile in senso pieno, comune e decentralizzata (Svampa e Bertinat, 2022 ). Non si tratta, quindi, solo di decarbonizzare il modello energetico, ma anche di trasformare il modello produttivo e, più in generale, il sistema delle relazioni sociali e del legame con la natura.

Per questo, come già detto, è necessario abbandonare le concezioni settoriali e sviluppare una visione più olistica, collegando la transizione energetica con la transizione socio-ecologica. Una transizione energetica che non faccia parte di una visione complessiva, che non affronti il ​​problema della disuguaglianza nella distribuzione delle risorse energetiche — tra queste, la questione della povertà energetica —, che non promuova la demercificazione e non rafforzi le capacità di resilienza della società civile, porterà indubbiamente a una riforma parziale, senza modificare le cause strutturali del collasso socio-ecologico che stiamo attraversando né risolvere le disparità geopolitiche (Bertinat e Argento, 2022).

Con quali attori sociali, politici ed economici si può contare; come trasformare, quali sono le alternative, quali scale coinvolge, chi e come pagherà la transizione energetica, qual è il ruolo dello Stato nei paesi dipendenti, quali sono i limiti delle cosiddette energie rinnovabili, sono alcuni delle domande che attraversano i dibattiti sulla transizione energetica.

Risulta difficile trovare le caratteristiche di una transizione energetica sistemica nel contesto globale. Le esperienze attuali sono associate alla decarbonizzazione, cioè al progressivo abbandono della matrice basata sui combustibili fossili e il passaggio alle energie rinnovabili; una sostituzione delle fonti energetiche che non include la riforma del sistema energetico.
In questo contesto, in diversi paesi della regione latinoamericana, stiamo assistendo a una sorta di transizione energetica aziendale, mobilitata dal Nord al Sud globale, visibile nella continuità di un modello energetico con la stessa logica di concentrazione e di business propria del regime ‘fossilista’, che perpetua lo schema verticale di intervento territoriale, tipico dei già noti estrattivismi predatori.

Come sostengono Bertinat e Argento (2022), la transizione energetica guidata dalle corporations va oltre la sfera impreditoriale, poiché ha diversi sostenitori come le multinazionali, gli Stati (nei loro molteplici livelli), istituzioni e organizzazioni, che sostengono questa prospettiva come la forma più rapida di rispondere all’urgenza della crisi a partire dall’introduzione di nuove tecnologie più efficienti.
È una prospettiva che vede nella transizione energetica un’opportunità di business, un potenziale di accumulazione di ricchezza e posizionamento egemonico geopolitico, che cerca di assicurarsi il controllo della proprietà e l’accesso alle fonti energetiche, ai materiali e alle tecnologie necessarie per la stessa.
Si tratta di una transizione legata alla narrazione capitalista-tecnocratica (Svampa, 2018), ovvero a una prospettiva che confida sul ruolo delle tecnologie come strumento di efficienza, senza mettere in discussione l’attuale modello di crescita associato al capitalismo neoliberista né alterare le logiche di consumo né le relazioni sociali preesistenti.

In America Latina, questa tendenza è supportata dal modo in cui i media presentano il tema della transizione energetica. Secondo uno studio elaborato da Climate Tracker (Andrés, 2022), i maggiori media vedono la transizione energetica solo da una prospettiva economica e di business. Questo dato nasce dopo aver esaminato 1.200 articoli dei principali media di sei paesi (Argentina, Cile, Perù, Colombia, Brasile e Repubblica Dominicana) e segnala anche la scarsa presenza di giornalisti specializzati nella copertura regionale della transizione energetica.
Inoltre, la principale fonte di informazione sono i governi nazionali insieme ai rappresentanti delle imprese. Infine, l’assenza di spiegazioni scientifiche, così come della visione dei leader comunitari e approcci centrati su ecologia e povertà.

Di seguito una breve presentazione di uno dei casi testimoni della transizione gestita dalle multinazionali: l’estrazione del litio nel Cono Sud.

(1. Continua)

* Maristella Svampa è sociologa, scrittrice e ricercatrice presso il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET) Argentina. Professoressa all’Università Nazionale di La Plata. Laurea in Filosofia presso l’Università Nazionale di Córdoba e PhD in Sociologia presso la School of Advanced Studies in Social Sciences (EHESS) di Parigi. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il platino Kónex Prize in Sociology (2016) e il National Prize for Sociological Essay per il suo libro “Debates latinoamericanos. Indianismo, sviluppo, dipendenza e populismo” (2018). Nel settembre 2020 ha pubblicato “El colapso ecológico ya llegó. Una brújula para salir del (mal)desarrollo”, insieme a Enrique Viale, per la casa editrice Siglo XXI (www.maristellasvampa.net).

** Versione italiana tratta da Ecor. Network. Traduzione di Giorgio Tinelli.

*** Versione originale in spagnolo:

Dilemas de la transición ecosocial desde América Latina
Maristella Svampa
Fundación Carolina, Documentos de Trabajo Nº especial FC/Oxfam Intermón – 34 pp.

Download:


Note: 

(1) Questo documento fa parte del progetto congiunto tra Oxfam Intermón e la Fundaciòn Carolina “Patti sociali e giusta trasformazione: visioni incrociate dell’America Latina e dell’Unione Europea sulla triplice transizione”.
(2) In più sezioni, questo documento riprende e sintetizza le idee sviluppate in diversi libri di ricerca collettiva, principalmente quello del Grupo de Estudios Críticos e Interdisciplinarios de la problemática energética (GECIPE), coordinato da Pablo Bertinat e l’autore (2022), il Grupo de Estudios en Geopolítica y Bienes Comunes (GyBC), coordinato da Bruno Fornillo, e il libro pubblicato dall’autore insieme a Enrique Viale, “Il collasso ecologico è arrivato” (2020). L’autore è particolarmente grato per i commenti di Melisa Argento.
(3) Lo slogan appartiene alla Just Transition Alliance, creata nel 1997. Per il tema si veda Anigstein (2022).
(4) Sebbene il concetto di metabolismo sociale compaia in Marx — che ha evidenziato la “rottura metabolica” implicita nell’agricoltura capitalista —, è stato ripreso dagli economisti ecologici nei decenni più recenti e utilizzato per effettuare un’analisi dei flussi materiali.


Riferimenti bibliografici:

alexik

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *