A Gaza sventola bandiera bianca

articoli, video e disegni di Guido Viale, Alberto Bradanini, Elena Basile, Gideon Levy, John Mearsheimer, Piero Orteca, Giacomo Gabellini, Maha Hussaini, Maurizio Brignoli, Alon Pinkas, Caitlin Johnstone, Ramzy Baroud, Chris Hedges, Mustafà Barghouti, Domenico Gallo, Pubble, Manlio Dinucci, Tareq Hajjaj, Bruna Bianchi, Khaled El Qaisi, Scott Ritter, Yisroel Dovid Weiss, Lina Abojaradeh, Carlos Latuff.

SE IL TITOLO NON FOSSE CHIARO…

Per gli assassini israeliani in divisa tre uomini a torso nudo, disarmati, con una bandiera bianca sono una minaccia.

Due Stati, uno o nessuno? – Guido Viale

Non è vero che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. Lo è solo nel suo ordinamento giuridico, che prevede un Parlamento elettivo e un governo eletto dal Parlamento. Ma di fatto è una repubblica razzista (“Stato ebraico”, cioè degli ebrei), militarista (armato fino ai denti, compresa l’atomica; anche se protetto dalle eventuali atomiche altrui, che ucciderebbero, insieme ai bersagli ebrei, anche milioni di arabi), che pratica apartheid e stragi (di un’organizzazione non statuale diremmo “terrorista”, come lo erano le organizzazioni armate ebraiche prima di costituirsi in Stato). L’unica vera democrazia del Medio Oriente è quella confederale del Rojava, fondata sulla convivenza di popoli, culture e religioni diverse (curdi, arabi, yazidi, sunniti, sciiti e cristiani), su un comunitarismo che si esprime nella partecipazione di tutti alla vita politica, su una cultura con una forte impronta femminista (la principale minaccia per il fondamentalismo degli Stati islamici, la cultura patriarcale e il maschilismo delle loro popolazioni).

Niente giustifica il razzismo e il militarismo di Israele. È vero che ha di fronte un’organizzazione militare che non esita a compiere stragi e un popolo i cui esponenti predicano l’eliminazione di Israele e la cacciata di tutti gli ebrei dai territori della Palestina; ma il Rojava non sembra aver meno nemici, anche molto potenti e molto violenti, che ha combattuto e combatte senza imboccare per questo una deriva analoga. D’altronde, forse con meno iattanza, il presupposto della costituzione dello Stato ebraico – “un popolo senza terra per una terra senza popolo” – non sono differenti: la negazione della esistenza degli abitanti della Palestina in quanto popolo. Fiamma Nirenstein insiste sul fatto che al momento dell’insediamento dei profughi ebrei in Palestina, questa non era uno Stato (infatti era una colonia, anzi un “mandato” inglese). Il presupposto è che per essere un popolo bisogna essere anche uno Stato. Israele lo è; la Palestina no. E da entrambe le parti si è sostanzialmente lavorato per anni perché non lo fosse. Ora questo passato di guerre e di sangue che dura da 75 anni, e anche più, non può essere dimenticato. Farlo ci impedirebbe di capire il presente; ma non può neanche essere tirato in ballo dagli uni e dagli altri per rendere sempre più difficile la ricerca di una soluzione che non comprometta, insieme alla vita dei due popoli, anche la pace in Medio Oriente e forse in tutto il mondo. Per questo occorre partire dall’oggi, ma cercando di guardare oltre l’orrore delle stragi di questi giorni.

La soluzione più invocata dalla comunità internazionale è quella dei due Stati; ma è sempre più irrealistica e rischia di essere un alibi per lasciare incancrenire ancora di più la situazione. Il territorio da riconoscere alla Palestina non esiste più: la “striscia di Gaza, con i suoi due milioni e mezzo di confinati, è inabitabile; la West bank è stata frantumata dagli insediamenti di 700mila coloni, da un muro che si insinua in tutto il territorio, dal sequestro di molti territori, da strade riservate solo agli occupanti, con contini check-point. Restituire al costituendo Stato palestinese quei territori richiederebbe la cacciata dei coloni. Ma se Sharon aveva dovuto usare la forza per trasferire fuori dalla striscia di Gaza 8mila coloni, nessuno può pensare che sia possibile cacciare dalla West bank i suoi 700mila occupanti abusivi. Poi i territori assegnati al costituendo Stato palestinese non rendono possibile la sua continuità territoriale: dunque la libera circolazione dei suoi cittadini, lo sbocco al mare, un proprio spazio aereo, e molto altro, senza sottostare al controllo di Israele. Infine, c’è la sproporzione delle forze: Israele ha una sua struttura industriale, un’agricoltura florida, una finanza autosufficiente, un esercito super armato, la bomba atomica. La Palestina e la sua popolazione sono state espropriate di tutto, vivono di sussidi dell’Onu, dell’Unione europea e di diversi paesi arabi che ne condizionano e ne condizionerebbero le politiche; non ha un’economia autosufficiente e non avrebbe mai un armamento anche lontanamente paragonabile.

Di fronte a questa impasse, nota a tutti ma ipocritamente taciuta per far finta di perseguire la pace, si è andata facendo strada l’ipotesi di un unico Stato, entro cui costruire nel tempo una pacifica convivenza dei due popoli, facendo leva sulle comunità e le reti che anche oggi, e nonostante tutto, antepongono le ragioni della pace e della convivenza a quelle, più che comprensibili, dell’inimicizia e del rancore. Ma l’ostacolo principale a questa soluzione non risale al passato, né ai più che fondati timori del presente, ma riguarda il futuro: la popolazione araba dell’intero territorio ormai supera per numero quella ebrea, nonostante gli apporti fortemente incentivati, soprattutto della popolazione ebraica delle colonie. Con la maggioranza molti ebrei di Israele temono di perdere anche la loro identità di Stato ebraico, l’approdo dopo 2000 anni di diaspora e persecuzioni, mentre molti palestinesi contano evidentemente sulla forza dei numeri per prendersi una rivincita sui 75 anni delle loro sofferenze.

Ma forse l’ostacolo maggiore sta proprio qui: nel non riuscire a concepire la convivenza se non nella forma di uno o più Stati e non in quella della loro dissoluzione a favore di una democrazia “dal basso” e confederale, che metta al centro i bisogni e le aspirazioni di ogni sua comunità. Può sembrare un’utopia, ma bisogna cominciare a parlane; e non solo a proposito di Israele e della Palestina. Il Rojava dimostra che è una strada percorribile. Certo un intervento della “comunità internazionale” (un’entità che esiste sempre meno) a tutela dei diritti e della incolumità di tutte le comunità sarebbe indispensabile; ma lo sarebbe anche nel caso che si optasse seriamente per le soluzioni dei due o di un solo Stato. Si tratterebbe in ogni caso non di una utopia, ma di un esperimento anticipatore di soluzioni da riproporre in tutte le situazioni sempre più numerose di conflitto e di crisi “interetnica”; un “esperimento” senza il quale il mondo sembra destinato a farsi seppellire dalle guerre o ad autodistruggersi per aver trascurato la minaccia che incombe su tutti più di ogni altra: quella del collasso climatico. La globalizzazione senza Stati è già stata in gran parte realizzata dalla finanza internazionale. Adesso è ora che perseguirla siano invece i popoli.

Senza pretendere di essere esaustivi, i passi che nella situazione concreta sono ineludibili mi sembrano essere:

L’abbattimento delle barriere fisiche e di controllo su tutti i territori;

L’istituzione di una commissione mista per la verità e la riconciliazione sull’esempio di quella messa in atto in Sudafrica;

La presa in consegna da parte di una commissione internazionale di tutti gli armamenti noti di entrambe le parti: dai kalashnikov all’atomica (molti sfuggiranno al controllo, ma si tratta di un work in progress);

La promozione di milizie miste per mantenere l’ordine pubblico composta di individui disposti a farne parte e a rispettarne le finalità;

La promozione di comunità miste tra tutte quelle reti che già ora ritengono di poter svolgere un lavoro comune (e tra queste un ruolo di primo piano spetta fin da subito alle donne);

La consegna a ogni comunità di territori sufficienti a garantirne la sopravvivenza;

Lo stanziamento di ingenti finanziamenti internazionali sotto un controllo congiunto degli enti donatori e dei rappresentanti delle due comunità.

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John Mearsheimer: morte e distruzione a Gaza.

<<Non credo che qualsiasi cosa io dica su ciò che sta accadendo a Gaza influenzerà la politica israeliana o americana in quel conflitto. Ma voglio che sia messo a verbale in modo che quando gli storici guarderanno indietro a questa calamità morale, vedranno che alcuni americani erano dalla parte giusta della storia.

Quello che Israele sta facendo a Gaza alla popolazione civile palestinese – con il sostegno dell’amministrazione Biden – è un crimine contro l’umanità che non ha alcuno scopo militare significativo. Come afferma J-Street, un’importante organizzazione della lobby israeliana, “la portata del disastro umanitario in atto e delle vittime civili è quasi insondabile”.

1) Israele sta massacrando di proposito un numero enorme di civili, di cui circa il 70% sono bambini e donne

2) Israele sta affamando di proposito la disperata popolazione palestinese limitando enormemente la quantità di cibo, carburante, gas da cucina, medicine e acqua che possono essere portati a Gaza

3) leader israeliani parlano dei palestinesi e di ciò che vorrebbero fare a Gaza in termini scioccanti [il che porta importanti studiosi] a concludere che Israele ha un ‘intento genocida.

4) Israele non si limita a uccidere, ferire e affamare un numero enorme di palestinesi, ma distrugge sistematicamente le loro case e le loro infrastrutture critiche – tra cui moschee, scuole, siti del patrimonio, biblioteche, edifici governativi chiave e ospedali

5) Israele non si limita a terrorizzare e uccidere i palestinesi, ma sta anche umiliando pubblicamente molti dei loro uomini che sono stati radunati dall’IDF durante le perquisizioni di routine

6) Anche se gli israeliani stanno facendo il massacro, non potrebbero farlo senza il sostegno dell’amministrazione Biden

7) Mentre la maggior parte dell’attenzione è ora rivolta a Gaza, è importante non perdere di vista ciò che sta accadendo contemporaneamente in Cisgiordania. I coloni israeliani, in stretta collaborazione con l’IDF, continuano a uccidere palestinesi innocenti e a rubare la loro terra.

Mentre guardo questa catastrofe per i palestinesi, mi rimane una semplice domanda per i leader di Israele, i loro difensori americani e l’amministrazione Biden: non avete un po’ di decenza? >>

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Pietra: materiale sovente impiegato per la costruzione di cuori – Alberto Bradanini

Nelle righe che seguono è assunta quale base di riflessione la coraggiosa analisi[1] della tragedia di Gaza da parte del politologo americano di scuola realista, John J. Mearsheimer.

Solo un cupo cinismo che rispecchia l’esecrabile deficit di etica umana che permea una società asservita a una capillare manipolazione consente di obliterare l’immensità dei crimini contro l’umanità che Israele (e personalmente i singoli membri del governo/esercito israeliani) continuano a commettere a Gaza contro persone inermi, uomini, donne e bambini, che muoiono sotto le bombe della sola democrazia del Medio Oriente, come i media al libro paga amano definire lo Stato Ebraico dell’Apartheid. Ciò che si dipana ogni istante sotto lo sguardo impotente del mondo eticamente evoluto costituisce un massacro deliberatamente pianificatoInsondabile è la profondità della tragedia umanitaria che si abbatte sul corpo di persone innocenti[2]. Che tale condotta cada o no sotto la definizione di genocidio è una questione che va lasciato ai legulei giustificazionisti.

Di certo non saranno queste parole di esecrazione a fermare i responsabili di tali atrocità, impermeabili come sono a ogni umana empatia. La storia, tuttavia, resta implacabile, ogni accadimento viene registrato e alla fine rimbalza. Sebbene oggi appaia improbabile, non si può tuttavia escludere che i criminali impuniti vengano un giorno tradotti sul banco degli imputati.

In ogni caso, se non a quello degli uomini essi dovranno rispondere delle loro nefandezze al tribunale della storia. A quel punto, insieme agli aguzzini, vedremo allungarsi le ombre dei loro complici, in prima fila le oligarchie americane che tollerano tutto ciò e a seguire quelle europee (e nella sua nota posizione del missionario anche quella italiana). A fianco di costoro vedremo quindi sfilare la schiera degli indifferenti, non certo caratterizzata da umana partecipazione, che farà i conti con la lacerazione della coscienza o quel che di essa sarà rimasto.

Resta dunque imperativo che il pensiero di chi si ostina a voler appartenere al genere umano non si confonda con la complicità degli indifferenti cosicché, quando in futuro gli storici volgeranno lo sguardo inorridito sul nostro tempo, potrà almeno apprezzare la differenza.

Lo Stato Ebraico – con il fondamentale sostegno politico e militare degli Stati Uniti (dove le potenti lobby pro-Israele controllano media e politica[3]) e l’usuale copertura dei vassalli europei – commette ogni istante crimini di pace e di guerra contro civili palestinesi (70% donne e bambini), senza nemmeno ottenere apprezzabili risultati contro il terrorismo. Del resto, solo i deboli di mente (o i corrotti) possono credere che esso si combatta massacrando civili innocenti e distruggendo città popolate da milioni di persone. È banale rilevare che rabbia e brama di vendetta cresceranno a dismisura tra i sopravvissuti.

I politici israeliani confessano candidamente di essere indifferenti al rischio di fare vittime civili. Secondo il portavoce dell’IDF (10 ottobre[4]),”l’enfasi è sul danno, non sulla precisione”, mentre il ministro della Difesa, Yoav Gallant, precisa: “non abbiamo restrizioni, uccideremo con ogni mezzo tutti coloro contro cui combattiamo”.

Secondo la stampa israeliana “i bombardamenti a Gaza sono una fabbrica di omicidi di massa di civili innocenti”[5], che aggiunge “l’esercito israeliano non ha freni, i dati mostrano uccisioni senza precedenti[6]“. Secondo il New York Times (novembre 2023) “I civili a Gaza vengono uccisi dal fuoco israeliano a un ritmo storicamente inaudito[7]“. Persino il mite Segretario Generale delle N.U., Antonio Guterres, afferma: “Stiamo assistendo a un massacro di civili che non ha precedenti dal tempo della mia nomina, nel gennaio 2017 (e sarebbe potuto andare assai più indietro!)[8]“.

Un ulteriore obiettivo di Israele che appartiene alla categoria della vendetta o pulizia etnica, non certo della lotta al terrorismo, è quello di affamare la misera popolazione palestinese, limitando l’ingresso a Gaza di cibo, carburante, gas per cucinare, medicine, e i risultati si vedono: l’assistenza medica è pressoché impossibile per gli oltre 50.000 civili feriti, anche molto gravi, al punto che persino i bambini (e ci si spezza il cuore al solo pensarci) vengono talora operati senza anestesia! Israele però non si limita a impedire gli approvvigionamenti per i pochi ospedali rimasti, ma li bombarda direttamente, ambulanze e pronto-soccorsi inclusi.

Risuonano poi umanamente sinistre le parole del citato ministro della cosiddetta Difesa, sempre lui Yoav Gallant (9 ottobre): “Ho ordinato un assedio totale a Gaza. Niente elettricità, cibo e carburanti, tutto chiuso. Stiamo combattendo animali umani e operiamo di conseguenza[9]“. Dietro (le minime) pressioni internazionali, Israele ha consentito qualche rifornimento, ma le quantità sono così esigue che secondo le Nazioni Unite: “metà della popolazione sta morendo di fame[10] e nove famiglie su dieci trascorrono giorni interi senza cibo[11]“.

Israele propone costantemente una narrativa piena di menzogne. Per tale ragione non siamo sorpresi quando vediamo che i responsabili dei crimini commessi a Gaza sono gli stessi che evocano come un ritornello gli orrori dell’Olocausto (v. in merito: L’industria dell’Olocausto, Norman Finkelstein). Secondo Omar Bartov e altri eminenti israeliani studiosi dell’Olocausto, è ormai evidente che “Israele punta al genocidio[12]“. Sia chiaro, a scanso di equivoci, che Israele e la sua orrifica strategia di distruzione della Palestina non ha a che fare né con la religione né con l’etnia ebraica. Razzismo e antisemitismo (che dovremmo semmai chiamare antigiudaismo) dovrebbero essere stati relegati per sempre alla spazzatura della storia.

I leader israeliani qualificano tutti i palestinesi “bestie umane, orribili animali disumani[13]“. Secondo il presidente israeliano, Isaac Herzog, “non solo Hamas, ma è l’intera nazione palestinese, là fuori, a essere responsabile[14]“. Il New York Times riporta che l’intero sistema politico israeliano vuole “la cancellazione di Gaza”[15]. Un ex generale dell’IDF afferma che “Gaza deve diventare un luogo in cui nessun essere umano potrà mai più vivere[16]” e aggiunge che “gravi epidemie nel sud della Striscia faciliteranno la vittoria[17]”. Un ministro israeliano, pur anche si presume in un momentaneo stato alterato, ma non tuttavia un isolato estremista, suggerisce di sganciare su Gaza un ordigno nucleare[18].

I palestinesi ricordano con orrore indelebile la Nakba del 1948 e gli israeliani (nelle parole del ministro dell’Agricoltura[19]) avrebbero in mente di riproporla nel 2023, a Gaza e in Cisgiordania[20]. Un’ulteriore, agghiacciante evidenza dell’abisso morale in cui è sprofondata la società israeliana è costituita da un video di bambini che celebrano in una canzone la distruzione di Gaza: “Entro un anno annienteremo tutti e torneremo così ad arare i nostri campi[21]“.

Israele non si limita a uccidere, ferire e affamare il popolo palestinese, perché ne distrugge anche le case e le infrastrutture critiche, moschee, scuole, siti storici, biblioteche, edifici governativi, luoghi di cura[22]. Al 1° dicembre 2023, l’IDF aveva sinistrato o distrutto almeno 100.000 (centomila!) edifici, interi quartieri ora ridotti in macerie[23]. Oltre il 90% dei 2,3 milioni di palestinesi di Gaza sono stati cacciati dalle loro case[24]. La NPR[25] rileva che Israele intende cancellare l’intero patrimonio culturale palestinese a Gaza: “più di cento siti sono già stati demoliti[26]“.

Israele poi umilia pubblicamente gli uomini arrestati. I soldati israeliani li obbligano a restare in mutande, li bendano e li espongono al pubblico nei loro quartieri, facendoli sedere in gruppo sul marciapiede o sfilare per le strade, prima di chiuderli in prigione per qualche tempo e poi rilasciarli, non avendo essi nulla a che vedere con Hamas[27].

Gli israeliani uccidono e massacrano perché possono contare sul perenne e incondizionato sostegno degli Stati Uniti, che con il veto impediscono l’approvazione di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle N.U. a favore del cessate il fuoco e che forniscono a Israele le armi per condurre in porto questo massacro[28]. Secondo il generale israeliano, Yitzhak Brick: “Tutti i missili, munizioni, bombe di precisione, aerei e via dicendo sono statunitensi. Se gli Usa lo volessero, con la fine dei rifornimenti cesserebbero anche i massacri. Punto[29].” L’amministrazione Biden invece accelera l’invio di munizioni a Israele, aggirando le normali procedure sulle esportazioni di armi[30].

L’attenzione mediatica è al momento concentrata su Gaza, sebbene non a sufficienza. Giornali e TV obliterano infatti le drammatiche immagini di distruzione e massacri di esseri umani (bambini compresi) sepolti sotto le macerie. Da qualche giorno inoltre relegano tali atrocità al fondo pagina o ne riferiscono solo sotto il profilo politico, omettendo di riferire che altre migliaia di persone rischiano di morire nei prossimi giorni (Israele ne ha già uccise 17.000), mentre tutti i 2,3 milioni di abitanti di Gaza rischiano di essere cacciate verso l’Egitto o altrove, per passarvi il resto della vita da rifugiati. Questo appare invero l’intento di Israele.

Occorre però non perdere di vista ciò che accade anche in Cisgiordania. I coloni israeliani, in coordinamento con l’esercito, continuano a uccidere palestinesi innocenti e a rubare loro casa e terra. In un articolo apparso sulla New York Review of Books, David Shulman riferisce di una conversazione con un colono che riflette la dimensione morale del comportamento israeliano verso i palestinesi. “è vero quello che stiamo facendo a queste persone è disumano”, ammette candidamente il colono, “ma se ci pensate bene, tutto è dipeso da Dio, che ha promesso questa terra agli ebrei, e solo a loro[31]“.

In buona sostanza, il governo israeliano si comporta allo stesso modo, violando sistematicamente il diritto umanitario, sia a Gaza che in Cisgiordania. Secondo Amnesty International, vi sono prove schiaccianti che i prigionieri palestinesi, spesso arrestati con futili pretesti, vengono regolarmente torturati o sottoposti a trattamenti degradanti “dalla sola democrazia esistente in Medioriente[32]. Ecco perché non dovrebbe sorprendere che alcuni preferiscono le autocrazie…

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Elena Basile – Sui burocrati che parlano di “soggettività esterna dell’Europa” e dimenticano il genocidio a Gaza

Leggo il solito burocrate sulla Repubblica, ottima carriera all’ombra della politica. Scrive quale secondo lui dovrebbe essere al Consiglio europeo di domani la ripresa della ” soggettività esterna del’Europa” .

Linguaggio burocratico e volutamente ermetico. Voi pensereste che si auguri un’Europa capace di battere un colpo sulle guerre in corso? Non so che si distacchi per motivi umanitari dagli USA e chieda il cessate il fuoco a Gaza procedendo a un riconoscimento simbolico della Palestina libera.

O un’Europa che spinga a una mediazione un popolo stremato ucraino cercando di evitare ulteriori morti e feriti?
Ma no! Il catechismo che ripete a pappagallo è il seguente : Gaza non viene nominata. L’inferno calato su una popolazione inerme, bambini operati senza anestesia o che muoiono sotto le macerie, una popolazione ridotta alla fame, preda delle infezioni, il genocidio di Gaza non merita l’attenzione dell’Europa: “l Europa deve dare un segnale di chiarezza e non di stanchezza”

Come? Nuovi miliardi ( oltre i 162 già dati) a Kiev per far vedere che non abbiamo perso.

Perchè nessuno possa pensare che “l invasione dell’ Ucraina sia foriera di dividendi politici”. Pierino, la Russia ha conquistato 4 Stati : Donesk, Lugansk zaporizhzhia e Kerson.
L’Ucraina è dimezzata e distrutta. 200.000 diciottenni morti. Altri mutilati feriti. Sopravvive grazie al sostegno estero.

Nel marzo del 2022 se l ‘Europa non si fosse opposta l’Ucraina neutrale avrebbe recuperato la sua integrità territoriale. E tu vuoi far continuare la guerra per dimostrare a chi che non abbiamo perso? Ai ciechi come te?
Cinismo e stupidità imperversano. Pierino addormentando il cervello ha fatto una bella carriera e forse ora si candida con quel partito di notabili che è il PD

Spero non con i 5 stelle. Un linguaggio cosí cinico sull Europa non dovrebbe essere di Conte che chiede il cessate il fuoco a Gaza e stop delle armi a Kiev.
Ah Pierino dove hai perso la tua anima? Leggete Alberto Bradanini uno dei pochi Ambasciatori integri. Il suo articolo è un grido di dolore e di indignazione.

Pierino scrive sulla Repubblica. L’Ambasciatore Bradanini su la Fionda. I venduti sono visibili. I competenti e integri sono oscurati

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Cercando di umiliare Gaza nel profondo, è Israele a essere umiliato – Gideon Levy

Come se tutto ciò non bastasse: le migliaia di bambini morti, il bilancio delle vittime che sfiora i 20.000, le centinaia di migliaia di persone sradicate dalle loro case, le decine di migliaia di feriti e la fame, le malattie e la distruzione a Gaza, oltre a tutto questo, devono anche essere umiliati. Umiliati fino in fondo, affinché imparino.

Dobbiamo mostrare loro (e noi stessi) chi sono (e chi siamo). Per mostrare quanto siamo forti e quanto loro sono deboli. Fa bene al morale. Fa bene ai soldati. È positivo per il fronte interno. Un dono di Hanukkah per i palestinesi umiliati: cosa potrebbe portare più gioia?

Non c’è prova più grande del fatto che abbiamo perso la strada degli spregevoli tentativi di umiliare pubblicamente i palestinesi, affinché tutti possano vederlo. Non c’è prova più grande di debolezza morale della necessità di umiliarli nella loro sconfitta.

Siamo come Hamas; se loro sono tali mostri, allora possiamo esserlo anche noi, solo un po’. Dopo aver cancellato le vite degli abitanti di Gaza, le loro proprietà, le loro case e i loro figli, ora distruggeremo anche ciò che resta della loro dignità. Li costringeremo a inginocchiarsi, fino a quando non si arrenderanno.

Immagini e video della scorsa settimana: decine di uomini in ginocchio, con indosso solo le mutande, le mani legate dietro la schiena, gli occhi bendati, lo sguardo abbassato. Un gruppo è su una strada spianata con le ruspe, un altro in una cava di sabbia, con i soldati in piedi sopra di loro.

Bingo, un’immagine di vittoria. Alcuni soldati sono mascherati; forse si vergognano del loro comportamento, possiamo solo sperare. Le loro vittime sono giovani e anche anziani; alcuni sono paffuti, con la pancia, altri scarni, alcuni hanno la pelle pallida e altri sono segnati dalle difficoltà della guerra. Forse i loro figli li osservavano, forse le loro mogli; ciò aumenterebbe il risultato.

Secondo i rapporti, sono stati prelevati da un rifugio dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Impiego (UNRWA) a Beit Lahia e arrestati per essere interrogati. Nessuno sa con certezza se qualcuno di loro fosse membro di Hamas. Dopo la foto della vittoria, sono stati portati in un luogo sconosciuto, il loro destino non era chiaro. A chi importa, oltre ai loro cari?

A cosa serve? Questa non è la prima volta che l’esercito israeliano spoglia i palestinesi in questo modo per umiliarli. Tali “marcie della vergogna” si sono svolte in passato nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Uomini ricercati e indesiderati in mutande, sotto gli occhi di tutti.

Questo è ciò che fa Israele, ed è importante registrare l’evento e diffondere le immagini. Ma la verità è che le immagini umiliano le Forze di Difesa Israeliane molto più di quanto umiliano le sue vittime nude.

Ma anche questa pubblica svestizione non fu sufficiente per umiliarli in questa guerra maledetta. Due settimane dopo lo scoppio della guerra, le forze dell’IDF e dei servizi di sicurezza dello Shin Bet hanno preso il controllo della casa dell’alto funzionario di Hamas Saleh al-Arouri, nel villaggio di Aroura in Cisgiordania, Arouri ora si trova in Libano, e hanno attaccato alla sua facciata un enorme striscione in lingua araba che recita: “Qui c’era la casa di Arouri, che divenne il quartier generale di Abu Al-Nimr dello Shin Bet”. Povero Abu Al-Nimr: il suo quartier generale è stato distrutto pochi giorni dopo, e con esso la spettacolare dimostrazione di forza, ma rimane il sapore puerile dell’umiliazione.

A Gaza, le nostre forze hanno distrutto il palazzo del Parlamento e il tribunale. Perché? Perché no? Nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, hanno distrutto tutti i monumenti, compresa la “Chiave del Ritorno” all’ingresso.

L’esercito ha anche distrutto e saccheggiato il grande cavallo di latta all’ingresso dell’ospedale, costruito da uno scultore tedesco con i rottami delle ambulanze palestinesi distrutte, un monumento alle vittime. A Tul Karm è stato demolito il memoriale di Yasser Arafat. Presto bruceremo anche la loro coscienza.

E il culmine del grottesco: il comandante del 932° Battaglione della Brigata di Fanteria Nahal, in un video dell’Unità del Portavoce dell’IDF, ostenta la carta di credito di Ismail Haniyeh, scaduta nel 2019. Complimenti all’IDF. “Siete fuggiti come dei codardi e siamo arrivati anche alla vostra carta di credito”, balbetta l’ufficiale.

I commentatori hanno spiegato che forse si trattava della carta di credito di qualcuno con il suo stesso nome: Il nostro Haniyeh non vive qui da molto tempo. Ma il figlio di Haniyeh vive qui, e il Portavoce dell’IDF non riposa né dorme: ecco le ricevute che dimostrano che ha acquistato gioielli. La grande vittoria è più vicina che mai.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Fosforo Bianco’ vietato, proiettili Usa sui civili rivela il Washington Post – Piero Orteca

Proiettili al Fosforo Bianco, frammenti d’inferno che se solo ti sfiorano ti consumano il corpo da dentro. La denuncia sul Washington Post e l’Israeliano Haaretz. «Israele va indagato per crimini di guerra», dichiara Amnesty International, per avere utilizzato munizioni al fosforo bianco fornite dagli Stati Uniti in zone abitate, severamente vietato dal diritto umanitario internazionale.

La notizia ha aperto ieri l’edizione on line del Washington Post, e sulla prima pagina di Haaretz, il prestigioso quotidiano di Tel Aviv. Per ora, la possibile violazione delle leggi di guerra riguarda il fronte del Libano, sul villaggio di Dheira. Ma i sospetti del Washington Post si allargano e arrivano fino a Gaza. Inviati del WP hanno trovato, al confine sud libanese, i resti dei bossoli d’artiglieria al fosforo usati dagli israeliani. Erano tutti con codici di riconoscimento americani, «prodotti e stoccati in depositi della Louisiana e dell’Arkansas». Da Dheira l’attacco a una torre radar israeliana, appena oltre il confine. E nei successivi combattimenti, sono morti quasi un centinaio di libanesi (in maggioranza Hezbollah) e 11 israeliani. Come scrive il Washington Post, «le forze armate dello Stato ebraico hanno continuato a bombardare la città con munizioni al fosforo bianco per ore, intrappolando i residenti nelle loro case finché non sono riusciti a scappare».

Le armi del terrore

I proiettili al fosforo bianco possono essere usati sotto rigorose condizioni e solo nel campo di battaglia. In genere, si sparano per creare cortine fumogene o segnare bersagli. Ma non era questo, assolutamente, il caso in questione. Per capire cosa può significare vivere e morire in un simile bombardamento, basta guardare l’immagine di copertina. Il WP spiega che «il fosforo bianco si accende a contatto con l’ossigeno e brucia a temperature fino a 1500 gradi, causando gravi lesioni». Secondo un rapporto di Human Rights Watch, le sostanze chimiche rimaste nel corpo possono danneggiare gli organi interni, talvolta in modo fatale.

Bombe al fosforo anche su Gaza

E ora, la parte per certi versi più inquietante dell’articolo proposto dal WP: «L’origine americana delle bombe al fosforo è stata verificata da Human Rights Watch e da Amnesty International. Gli stessi codici di fabbricazione compaiono anche sui proiettili al fosforo bianco allineati accanto all’artiglieria israeliana nella città di Sderot, vicino alla Striscia di Gaza, in una foto del 9 ottobre scorso». Che ci facevano li? La risposta più ovvia è che siano stati usati contro l’enclave palestinese. Per fare ‘fumo’ o per provocare disastrosi incendi? Una domanda che dovrebbero porsi prima di tutto gli americani, i fornitori delle munizioni e, in un certo senso, corresponsabili del loro utilizzo. E di fronte al rovinoso tracollo d’immagine che riguarda gli Stati Uniti, legato ai bombardamenti indiscriminati di Gaza, la Casa Bianca è dovuta intervenire…

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Un Vietnam israeliano? – Giacomo Gabellini

Qualche giorno fa, il «Washington Post» ha rivelato che, a partire dallo scatenamento dell’Operazione Spade di Ferro, Israele ha lanciato contro la Striscia di Gaza oltre 22.000 bombe messe a disposizione dagli Stati Uniti, come si evince dai dati di intelligence di cui il Congresso ha recentemente autorizzato la divulgazione. Entro l’arco temporale in oggetto, Washington avrebbe fornito a Israele circa 15.000 ordigni (comprese le bombe anti-bunker da 2.000 libbre) e più di 50.000 proiettili di artiglieria. Un tipo di munizionamento smaccatamente incompatibile le cosiddette “operazioni chirurgiche”, ma perfettamente coerente con una campagna di bombardamenti a tappeto come quella che le forze israeliane stanno conducendo contro la Striscia di Gaza.

All’11 dicembre, il Ministero della Sanità di Gaza quantificava in oltre 18.200 morti e circa 47.000 feriti il numero delle vittime palestinesi mietute dagli attacchi israeliani, senza distinguere tra civili ed effettivi di Hamas. All’interno di un rapporto stilato dall’Israeli Defense Force, invece, si giudica “verosimile” un ammontare complessivo pari a circa 15.000 morti, tra cui “oltre 5.000” membri di Hamas. Un rapporto di due vittime civili per ogni miliziano di Hamas assassinato, che secondo il portavoce dell’esercito israeliano Jonathan Conricus certificherebbe il successo delle operazioni militari. A suo avviso, «qualora, come credo, i nostri numeri verranno confermati, si tratterebbe di un bilancio straordinariamente positivo e forse unico al mondo, se si confrontano questi dati con quelli afferenti a qualsiasi altro conflitto combattuto in territorio urbano tra un esercito e un’organizzazione terroristica incorporata nella popolazioni locale che utilizza i civili come scudi umani».

Anche prendendo per oro colato le valutazioni israeliane, sebbene in ogni contesto bellico la cortina fumogena della propaganda sparsa dai vari contendenti pregiudichi sistematicamente la formulazione di stime realistiche circa il reale numero delle vittime, resta da chiedersi quale costo abbia sostenuto Tel Aviv per conseguire un risultato così “straordinariamente positivo”, stando alle esternazioni pronunciate dal portavoce dell’Israeli Defense Force. Il 10 dicembre, il Ministero della Difesa israeliano informava che, a partire dal 7 ottobre, le forze armate israeliane avevano registrato in 425 morti e 1.593 feriti. Nello specifico,  255 soldati avevano riportato lesioni gravi, 446 ferite moderate e 892 escoriazioni o poco più. Attualmente ospedalizzati risulterebbero 40 feriti gravi, 211 feriti non gravi e 165 feriti lievi.

Un prezzo tutto sommato “contenuto”, ma che i vertici dell’esercito israeliano avevano inizialmente rifiutato di divulgare nonostante le pressanti richieste formulate in proposito dal quotidiano «Haaretz», il quale aveva sottolineato come questa irrituale questa “politica del silenzio” si ponesse in sostanziale discontinuità rispetto alla linea tenuta dalle forze armate israeliane nel corso delle guerre e delle operazioni militari del passato, caratterizzata dalla regolare pubblicazione di dati attestanti il numero dei feriti e di rapporti in merito alle attività di combattimento svolte e ai programmi di riabilitazione dei soldati.

Senonché, la cifre fornite infine dell’esercito israeliano al fine di evitare che la “politica del silenzio” continuasse a sollevare inquietanti interrogativi in tutto il Paese sono state contestate alla radice da «Haaretz», che ha sottolineato una macroscopica discrepanza tra i dati forniti dal Ministero della Difesa di Tel Aviv e quanto si ricava dall’analisi dei registri ospedalieri. Secondo cui le strutture israeliane avrebbero ricevuto ben 4.591 feriti, e non 1.593 come annunciato dall’esercito. Per esempio, si legge nell’inchiesta realizzata dal quotidiano, «il solo centro medico Barzilai di Ashkelon riferisce di aver curato 1.949 soldati feriti a decorrere dal 7 ottobre (su un ammontare di 3.117 pazienti curati durante la guerra), mentre l’esercito riferisce un totale di 1.593 soldati feriti. Altri 178 soldati sarebbero stati curati presso l’Assuta di Ashdod, 148 presso l’Ichilov di Tel Aviv 148, 181 presso il Rambam di Haifa, 348 presso le strutture di Hadassah e Sha’arei Tzedek di Gerusalemme. Inoltre, circa 1.000 soldati addizionali sono stati curati presso il centro medico Soroka di Beer Sheva, mentre altri 650 sono stati curati presso l’ospedale Sheba a Tel-Hashomer. Si tratta di un elenco parziale, poiché i dati non includono i soldati attualmente in riabilitazione che erano già stati conteggiati come feriti all’arrivo nei reparti di emergenza e di degenza». Nel computo, evidenzia ancora «Haaretz», non rientrano inoltre i feriti riportati nel corso del conflitto dai corpi istituzionali preposti alla sicurezza non inquadrati nelle forze armate, quali i gruppi speciali da ricognizione, i nuclei Swat, la polizia, la polizia di frontiera, lo Shin Bet e le quadre di emergenza e salvataggio come Magen David Adom.

L’Israeli Defense Force, dal canto suo, ha precisato che i numeri forniti in precedenza facevano riferimento soltanto ai soldati classificati come inabili a tornare in servizio, nell’ambito di un disperato tentativo di ridimensionare l’impatto dirompente delle rivelazioni di «Haaretz» che è risultato tuttavia vanificato dalle cifre ancor più allarmanti indicate dal quotidiano «Yedioth Ahronot». Secondo cui, a partire dal 7 ottobre, gli ospedali israeliani avevano accolto oltre 5.000 soldati, di cui più di 2.000 ufficialmente riconosciuti come disabili dal Ministero della Difesa. «Non abbiamo mai sperimentato nulla di simile. Oltre il 58% dei feriti che riceviamo è afflitto da gravi lesioni alle mani e ai piedi, in alcuni casi talmente ampie da richiedere amputazioni», ha dichiarato al giornale Limor Luria, a capo del dipartimento di riabilitazione del Ministero della Difesa israeliano. La quale ha aggiunto che «il 12% delle lesioni è di natura interna e consiste in danni alla milza, ai reni e alla lesione più o meno irreparabile degli organi interni. Il 7% circa soffre dei disagi psicologici causati dal disturbo post-traumatico da stress; una percentuale che è inesorabilmente destinata ad aumentare in maniera notevole». Nella sommatoria vanno ricomprese anche le centinaia di soldati israeliani che hanno subito gravi ferite oftalmologiche, culminate nel 15% circa dei casi con la perdita della vista da uno o da entrambi gli occhi.

La situazione sul campo potrebbe rivelarsi addirittura peggiore, come si evince dalla inquietante ma eloquente vicenda relativa all’allontanamento dalla redazione di «Yediot Ahronot» di Ariel Shimon. Vale a dire il giornalista le cui rivelazioni esplosive avevano gettato un’ulteriore ombra sulla trasparenza comunicativa del governo israeliano. Secondo il suo rapporto esclusivo, i dati diramati dall’esecutivo di Tel Aviv sottostimerebbero enormemente il reale bilancio del conflitto, che a suo dire avrebbe prodotto un numero di perdite di almeno tre volte superiore rispetto a quello ufficialmente riconosciuto.

Shimon sostiene che, dall’inizio del conflitto, oltre 250 tra soldati e ufficiali avrebbero riportato una perdita totale della vista, e più di 500 mezzi militari, inclusi carri armati, veicoli blindati, bulldozer e Hummer, sarebbero stati completamente distrutti. Ma soprattutto, il giornalista afferma con forza che il numero reale dei caduti, tra ufficiali e sottoposti di vario grado, ammonterebbe a 3.850 unità; quello dei soldati feriti, addirittura a 7.000, di cui ben 3.700 ridotti in stato di disabilità permanente…

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Guerra Israele-Palestina: cosa vuol dire partorire in casa a Gaza – Maha Hussaini

a Gaza, Palestina occupata -11 dicembre 2023

Usando forbici generalmente utilizzate per tagliare la carta, mollette di plastica per i panni e la luce fioca dei cellulari, Nour Moeyn ha tagliato il cordone ombelicale della nipote appena nata.

Sotto un intenso bombardamento israeliano, non c’erano né attrezzature, né elettricità per l’infermiera venticinquenne, mentre faceva nascere la bambina di sua sorella in mezzo ai boati degli attacchi aerei e dell’artiglieria.

L’ospedale più vicino era aperto. Ma la famiglia non poteva rischiare di uscire di casa nel cuore della notte e andare in ospedale, mentre i quartieri intorno a loro erano sotto attacco.

Inoltre, gli ospedali e le ambulanze a Gaza sono affollate di palestinesi uccisi o feriti negli attacchi israeliani. La sorella di Moeyn, Aya, non ha avuto altra scelta che partorire nella casa della sua famiglia, dove si era trasferita all’inizio della guerra.

“Intorno all’una di notte, il dolore del travaglio di Aya è iniziato, ed era così forte che non poteva sopportarlo. Nel giro di mezz’ora, la testa della bambina ha iniziato a emergere e abbiamo dovuto agire immediatamente”, racconta  Nada Nabeel, 31 anni, cognata di Aya.

“Non potevamo nemmeno pensare di andare in ospedale, perché sarebbe stata una condanna a morte per Aya, la bambina e tutti coloro che l’avessero accompagnata. I bombardamenti erano intensi e potevamo sentire i carri armati israeliani muoversi nelle zone vicine.”

Sebbene in passato Moeyn abbia assistito a numerosi parti, non lo aveva mai fatto da sola. “Ma ha deciso di procedere, altrimenti sua sorella e la bambina sarebbero morte”, ha detto Nabeel.

Uno dei problemi più basilari, quando si esegue tale procedura a casa, di notte, è la mancanza di elettricità.

Subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha tagliato tutte le forniture di elettricità e carburante all’enclave costiera. Da allora, i palestinesi hanno fatto affidamento sulla luce delle candele, sui LED alimentati a batteria e sui pannelli solari.

“Durante la guerra ci siamo abituati a sederci al buio, a volte con una piccola candela o una luce a LED. Ma questa volta non potevamo fare affidamento sulla luce delle candele e, anche se le batterie del nostro telefono stavano per scaricarsi, tutti noi abbiamo acceso le torce sui nostri cellulari per aiutare Nour a vedere bene,” ha detto Nabeel.

Aya, suo marito e i loro due figli avevano lasciato  la loro casa in al-Rimal Street, nel centro di Gaza City, durante la prima settimana di guerra, e si erano rifugiati  nella casa della sua famiglia nel quartiere di al-Sahaba, a est.

“I suoni dei bombardamenti erano molto forti, mescolati alle grida di Aya  e alle voci dei suoi parenti e di altri sfollati che pregavano” – Nada Nabeel, sorella di Aya

La casa ha diversi piani e appartamenti, quindi l’intera famiglia allargata è stata  la benvenuta.

Durante i tempi di guerra, le famiglie di Gaza tendono a riunirsi in un unico luogo, in cerca di protezione e conforto. C’è un desiderio comune di vivere o morire insieme.

Nabeel ha descritto la nascita del nuovo membro della famiglia come qualcosa uscito dallo schermo di un film e “oltre la realtà”.

“Le donne dirigevano le loro torce verso Aya e gli uomini fuori pregavano per la sua salvezza. Tutti nell’edificio, tutti gli sfollati in tutti gli appartamenti, erano svegli e ripetevano ‘ya rab, ya rab’ [in arabo significa oh, Dio], “.

“I suoni dei bombardamenti erano molto forti, mescolati alle grida di Aya mentre lottava per partorire e alle voci dei suoi parenti e degli altri sfollati che pregavano e le dicevano di essere forte e di resistere. Tutto era surreale. Per quanto possa descrivere i dettagli, nessuno può immaginare la scena”.

Nessuna attrezzatura medica

Secondo il ministero della Sanità palestinese, l’esercito israeliano ha distrutto 52 strutture mediche e 56 ambulanze nella Striscia di Gaza, e ha ucciso almeno 283 operatori sanitari. Finora sono stati uccisi circa 18.000 palestinesi, la stragrande maggioranza civili.

La famiglia di Aya non si aspettava che partorisse così presto, quindi non era stato concordato alcun piano di emergenza. Senza attrezzature mediche, hanno dovuto utilizzare oggetti domestici che avevano in casa.

“Il tempo stava per scadere e temevamo per la vita della bambina mentre Nour e Aya stavano lottando per tirarla fuori. Si udivano le voci delle preghiere e io tenevo il cellulare con la torcia, leggevo il Corano e piangevo”, ha continuato Nabeel.

“Pochi minuti dopo, la bambina è finalmente nate e una volta uscita, Aya e tutti sono scoppiati in lacrime. È stato un momento di sollievo per tutti noi. Nour ha abbracciato forte Aya e l’ha baciata sulla fronte, e gli sfollati applaudivano e ringraziavano Dio.”

Nabeel ha detto che sono riuscite a cavarsela con forbici disinfettate e mollette da bucato, ma quando si è trattato della placenta, non c’era niente di appropriato a portata di mano per estrarla.

“Nour ha dovuto eseguire le cure postpartum a mani nude, pulendo l’utero di Aya ed estraendo manualmente la placenta. E per fortuna, non ha dovuto tagliare parte della vagina durante il parto, quindi non ha avuto bisogno di suturarla”, ha aggiunto.

“La mattina dopo, sono andati al complesso [medico] di al-Sahaba per controllare la salute di Aya e della bambina, e grazie a Dio erano in perfette condizioni.”

Secondo il dottor Adan Radi, ostetrico e ginecologo dell’ospedale al-Awda nel nord della Striscia di Gaza, ci sono circa 55.000 donne incinte a Gaza che necessitano di assistenza sanitaria regolare.

“Abbiamo chiamato la piccola Massa [diamante, in arabo] perché le condizioni in cui è nata erano insolite, ma anche perché è preziosa e testarda”, ha detto Nabeel.

“Ha insistito a nascere, nel mezzo di tutte le circostanze avverse.”

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ISRAELE STA SPINGENDO LA PROSSIMA GENERAZIONE ALL’ODIO CONTRO SE STESSO – Gideon Levy

Un padre in lutto, il cui figlio di 8 anni è stato ucciso dai soldati, questa settimana si trovava all’ingresso della sua casa al confine del campo profughi di Jenin e ha affermato la semplice verità: “Questi bambini non perdoneranno mai i soldati. State crescendo un’altra generazione di resistenza. Ora i nostri figli vogliono che anche i bambini israeliani vengano uccisi.”

Ho visitato la casa del padre, Samer al-Ghoul, dopo una visita al campo di Jenin dove le forze di difesa israeliane ancora una volta hanno seminato distruzione negli ultimi giorni, in misura spaventosa. Circa 80 case sono state demolite, tutte le strade del campo sono state sradicate dai loro luoghi e i liquami, le cui infrastrutture sono state distrutte, scorrono nelle strade provocando fetore. Vi sguazzano i bambini del campo di Jenin.

All’ altra estremità del regno dell’occupazione, i bambini vengono ora uccisi a migliaia. Le recenti immagini di Jabalya mostrano che né Dio né l’IDF hanno pietà dei bambini piccoli. Ogni 15 minuti un bambino viene ucciso a Gaza. Ogni pochi minuti, un bambino viene portato d’urgenza in ciò che resta di un ospedale, gettato sul pavimento sporco, a volte senza che nessuno lo accompagni.

A volte nessuno sa se è rimasto qualcuno della sua famiglia, e il bambino lancia uno sguardo vitreo e senza capire ciò che accade intorno a lui. Il suo corpo e il suo viso sono coperti di polvere; è stato tirato fuori dalle rovine. Questi spettacoli vengono trasmessi continuamente su tutti i canali televisivi che conoscono il significato del giornalismo, ad eccezione della televisione israeliana, che non mostra nulla di tutto ciò, dopo essersi pienamente mobilitata al servizio della guerra.

Tutti questi bambini – i morti, i moribondi, i sanguinanti, i gemiti, i feriti, i disabili, gli orfani, i terrorizzati, i senza casa e senza un soldo, hanno fratelli e amici che crescono con loro. Sono la prossima generazione e non dimenticheranno mai. Mentre Israele è preoccupato della sua rabbia terribile e giustificata per ciò che Hamas gli ha fatto, e di curare le sue ferite e i suoi feriti, quasi nessuno è turbato da ciò che l’IDF sta facendo a Gaza e Jenin.

Nessuno pensa al trauma all’ombra del quale cresceranno i bambini di Gaza, alla sofferenza inconcepibile di decine di migliaia di bambini che ora vagano inermi, nella paura esistenziale, per le strade devastate. Non hanno un rifugio antiaereo, un centro di resilienza, una consulenza psicologica e nemmeno una casa.

Forse è lecito e naturale che una nazione si concentri esclusivamente sul proprio dolore e ignori il dolore molto più grande che sta causando a un’altra nazione. Questo è molto dubbio. Ma questa ignoranza avrà anche un prezzo che gli israeliani saranno costretti a pagare un giorno, e il prezzo – almeno quello – dovrà disturbarli.

Un attacco sfrenato e terribilmente crudele contro Gaza crea odio verso Israele a livelli mai visti prima, a Gaza, in Cisgiordania, nella diaspora palestinese, nel mondo arabo e ovunque nel mondo dove le persone vedono ciò che gli israeliani non vedono e non vogliono vedere. E ciò che è ancora più terribile è che questo odio sarà giustificato. Niente sarà più giustificato.

Guardate quale odio è stato seminato nei cuori di quasi tutti gli israeliani da un attacco barbaro. Ha distrutto le vestigia del campo pacifista, ha trasformato il grido “morte agli arabi” in qualcosa di anacronistico e moderato. Ora è “morte per tutti gli arabi”. Alcuni lo dicono ad alta voce, altri lo pensano solo. Immaginate quali semi di odio stanno germogliando in ogni luogo che ora è esposto agli orrori, da Shujaiya a Manhattan ad Amman.

È possibile vedere gli orrori di Gaza e non odiare coloro che li stanno infliggendo? Sperimentare cosa sta succedendo a Gaza e non sognare vendetta? Generazioni di palestinesi hanno lasciato in eredità l’odio per Israele come risultato della prima Nakba, e altre generazioni ora lasceranno in eredità un odio ancora maggiore, come risultato della seconda Nakba che è stata loro promessa.

“La prossima generazione sta dormendo nella stanza accanto / La sento respirare / La prossima generazione sta sognando nella stanza accanto / e mormora paure nel sonno”, canta Hanan Yovel sulle parole di Ehud Manor; la prossima generazione palestinese mormora la paura nel sonno, ma non è nella stanza accanto: non ha spazio.

E tra pochi mesi, i buoni israeliani viaggeranno ancora una volta a Parigi e Londra, Dubai e New York, e rimarranno scioccati da come ci odiano. Perché? Cosa abbiamo fatto di sbagliato?

(traduzione a cura della redazione)

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Le cause economiche dietro il massacro di Gaza – Maurizio Brignoli

Gli eventi come le guerre, notoria continuazione della politica di stato con altri mezzi, hanno alle spalle una struttura economica. Proviamo ad allargare quindi la prospettiva e a cercare motivazioni allo sterminio dei palestinesi che vadano al di là della rappresaglia scatenata dopo la sanguinosa operazione Tempesta di al-Aqsa del 7 ottobre.

I piani di pulizia etnica, trasferimento forzato di popolazione e, in ultima istanza, genocidio non corrispondono solo al razzismo intrinseco alla dottrina sionista, che nasce con tutte le peculiarità di un’ideologia colonialistica, e alla necessità di stroncare la lotta di liberazione nazionale palestinese, ma corrispondono anche agli interessi del capitale occidentale (israeliano e non solo). Questi piani si inseriscono a loro volta nel contesto più ampio dello scontro interimperialistico che vede gli Usa (e il subordinato europeo) sempre più in difficoltà sul piano strutturale nei confronti dei concorrenti cinesi. Difficoltà che porta l’imperialismo occidentale a cercare di utilizzare l’unica arma efficace che ha ancora a disposizione e uno dei pochi settori produttivi in cui mantiene una predominanza: la guerra.

Guerra per i giacimenti e piani di deportazione

Che peso hanno gas e petrolio nel contesto del massacro in atto? Nel momento in cui l’Ue ha ridotto fortemente gli approvvigionamenti dalla Russia, il Medioriente e il Nord Africa (dove si trovano il 57% delle riserve mondiali di petrolio e il 41% di quelle di gas) hanno visto aumentare le richieste per le loro risorse energetiche.

In una situazione in cui la crisi economica diventa sempre più pesante, e la crisi che colpisce l’economia occidentale colpisce allo stesso modo Israele, controllare le riserve e le vie di transito degli idrocarburi e la moneta con cui si valutano diventa sempre più importante all’interno dello scontro interimperialistico con la Cina che ha messo a segno importanti colpi garantendosi gli approvvigionamenti con accordi siglati con Russia, Iran e petromonarchie, favorendo il processo di pacificazione della regione con un’importante azione diplomatica culminata con gli accordi fra Iran e Arabia Saudita e, quel che è ancor più pericoloso per gli Usa, ponendo le basi per la realizzazione del petroyuan.

Lo United States Geological Survey, agenzia scientifica del governo statunitense, fra il 2009 e il 2010 scopriva nel Bacino del Levante (Mediterraneo orientale) una quantità di gas e petrolio sufficiente a garantire per 50 anni le riserve mondiali di energia fossile. Gli stati interessati a questa posizione geostrategica determinante, che risolverebbe il problema energetico dell’Ue e la sua dipendenza dai rifornimenti russi, sono Siria, Libano, Israele, Gaza, Egitto, Turchia e Cipro. Paventando il pericolo il capitale russo firmava subito una serie di accordi con i paesi rivieraschi per costruire infrastrutture con l’obiettivo di indirizzare il flusso energetico verso i mercati asiatici col fine di procurarsi nuovi clienti mantenendo, al contempo, la posizione egemonica di cui godeva nel rifornire l’Europa. I progetti russi incontravano però la reazione degli imperialismi concorrenti: il governo cipriota subiva un pesante attacco finanziario, dopo l’accordo siglato fra russi e palestinesi per lo sfruttamento delle risorse prospicenti la striscia di Gaza scattava l’aggressione israeliana con l’operazione Piombo fuso e la Siria diventava oggetto prioritario dei processi di cambio di regime per mano jihadista.

Fra i diversi giacimenti di gas e petrolio alla fine del 2010 veniva scoperto Leviathan situato a meno di 200 chilometri dalle coste della Striscia di Gaza e di Israele e che si trova dunque in parte nelle acque territoriali di Gaza, dove si trova anche il giacimento denominato Gaza Marine (si stima contenga 1.000 miliardi di metri cubi di gas) appartenente ai palestinesi e scoperto nel 1999 dalla British Gas (ora assorbita da Shell)[1]. Le vicende del Gaza Marine sono interessanti: nel 1999 l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che deteneva il 10% delle quote, siglava un contratto con British Gas (60%) e con Consolidated Contractors (30%), una compagnia privata palestinese, ma Israele, puntando a impossessarsi del gas a prezzi stracciati, impediva l’operazione. Con la mediazione del primo ministro britannico Tony Blair (1997-2007) si raggiungeva un nuovo accordo che permetteva a Israele di impossessarsi dei tre quarti dei futuri introiti del gas, versando la quota palestinese su un conto internazionale controllato da Usa e Regno Unito. Nel 2006, dopo aver vinto le elezioni, Hamas bocciava l’accordo. Nel 2007 Moshe Ya’alon, futuro vice primo ministro (2009-2013) e ministro della difesa israeliano (2013-2016), avvertiva che «il gas non può essere estratto senza una operazione militare che sradichi il controllo di Hamas a Gaza»[2] e nel dicembre 2008 scattava contro la Striscia di Gaza l’operazione “Piombo fuso”, di cui l’operazione Spade di ferro in atto costituisce la prosecuzione su più ampia scala, con l’obiettivo di impossessarsi definitivamente delle riserve marittime palestinesi. Al termine dell’operazione i giacimenti di gas palestinesi venivano confiscati da Israele in violazione del diritto internazionale. Nel 2012 l’Anp, con l’opposizione di Hamas riprendeva i negoziati con Tel Aviv, ma gli israeliani boicottavano la trattativa impedendo ai palestinesi di trarre profitto dai giacimenti. Agli inizi del 2014, previo accordo fra Anp e Russia, veniva affidato a Gazprom lo sfruttamento dei giacimenti marini e di un giacimento petrolifero in Cisgiordania. L’accordo si avvicinava sempre più alla realizzazione effettiva nel momento in cui il 2 giugno 2014 nasceva il nuovo governo di unità nazionale palestinese, ma pochi giorni dopo scattava l’operazione Margine di protezione con un nuovo attacco a Gaza. Il tentativo della Russia di inserirsi nella lotta per il controllo delle riserve energetiche dell’intero Bacino di Levante (Palestina, Libano, Siria) determinava il nuovo attacco israeliano con beneplacito statunitense.

I governi israeliani hanno delineato nel corso degli anni un progetto per trasformare il loro paese in un punto di snodo per il trasporto del gas verso l’Europa. Fra il 2021 e il 2022 Israele ed Egitto, in concomitanza con l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche determinato dalla guerra in Ucraina e dalla disperata ricerca di risorse alternative da parte degli europei, hanno tenuto incontri segreti aventi per oggetto lo sfruttamento dei giacimenti al largo delle coste di Gaza, accompagnati dalla firma di un memorandum tra Egitto e Israele con il beneplacito dell’Anp[3].

L’obiettivo di Israele è quello di impossessarsi delle immense ricchezze costituite dai giacimenti di gas che spetterebbero ai palestinesi, sia il Gaza Marine che parte del Leviathan. Come rilevato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) le perdite per i palestinesi si stimano in centinaia di miliardi di dollari[4]. D’altronde l’investimento militare nello sterminio dei palestinesi deve essere ripagato dato che comporta perdite economiche valutate in 260 milioni di dollari al giorno[5].

I giacimenti del Mediterraneo orientale e (in subordine) i progetti statunitensi di una via alternativa alla Bri (Nuova Via della Seta) sono due elementi che aiutano a comprendere il massacro in atto volto a un controllo della costa palestinese con conseguente gestione dei canali commerciali. Questo aiuta a capire i progetti di deportazione di oltre due milioni di persone – e perché vengano scientemente bombardati abitazioni civili, ospedali, campi profughi, scuole, rifugi – con l’obiettivo di fare piazza pulita della Striscia. Quando Netanyahu all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel settembre 2023 ha mostrato una mappa del “nuovo Medioriente” in cui non compariva la Palestina stava già delineando la realizzazione di questi piani.

Un documento del ministero dei servizi segreti israeliano, datato 13 ottobre, raccomanda la deportazione degli abitanti di Gaza (2,3 milioni o quel che ne resterà) nella zona desertica del Sinai egiziano, impedendo ai palestinesi la possibilità di rimettere piede vicino ai confini israeliani (non giuridicamente delimitati visto che i sionisti puntano alla realizzazione del Grande Israele). Il piano si articola in tre fasi: 1) costringere la popolazione stanziata nel nord della Striscia (oltre un milione di persone), sottoposto a bombardamenti massici, a spostarsi verso sud; 2) far entrare l’esercito israeliano a Gaza in modo da occupare l’intera Striscia ed eliminare le postazioni di Hamas; 3) trasferire la popolazione in territorio egiziano da cui non dovrà fare più ritorno[6]. All’Egitto, le cui condizioni economiche sono gravi, è stato proposto l’annullamento dell’intero debito estero (135 miliardi di dollari). Al-Sisi ha però rifiutato, almeno per ora, l’offerta probabilmente perché non vuole trovarsi in casa gli uomini di Hamas originatasi dai Fratelli musulmani che l’Egitto ha messo fuorilegge.

A scanso di equivoci conviene ricordare che questi piani non sono dettati dalla rabbia suscitata per le vittime israeliane dell’attacco del 7 ottobre, ma costituiscono l’attuazione di un progetto preesistente insito nella natura e negli obiettivi finali del sionismo. Netanyahu proponeva questa soluzione già nel 2017[7]

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“Netanyahu delenda est” – Alon Pinkas

Il fatto che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu non si sia ancora dimesso è un affronto alla decenza. Il fatto che nessun membro della sua coalizione di sicofanti al governo non gli abbia chiesto di farlo – o non lo abbia fatto lui stesso – è la prova scientifica che gli invertebrati possono formare un esecutivo. È un triste profilo di vigliaccheria di gruppo.

Il disinvolto rifiuto di Netanyahu di prendere anche solo in considerazione questa possibilità è un cinico ripudio dell’integrità e un insensibile disprezzo per i principi fondamentali della responsabilità e dell’affidabilità. Più di ogni altra cosa, è un insulto all’intelligenza del pubblico israeliano. Questa nazione merita di meglio. La sua arrogante e compiaciuta promessa che “tutto sarà indagato dopo la guerra” è una tipica ma non meno rivoltante menzogna volta a prendere tempo, ritardare e ingannare.

So di averlo già scritto diverse volte, come molti altri, ma vale la pena ripeterlo. È come disse Catone il Censore nel Senato romano prima della Terza Guerra Punica nel II secolo a.C.: Carthago delenda est (Cartagine deve essere distrutta) – una versione abbreviata di una frase che usava alla fine di tutti i suoi discorsi.

Sì, sappiamo che la responsabilità e il senso di responsabilità sono termini estranei al premier israeliano. Gli sono stati estranei per tutta la sua vita politica, quindi non c’è da sorprendersi. Sì, sappiamo che non fanno parte del suo DNA politico. Sì, sappiamo che è guidato non solo dal carattere, ma da un cocktail tossico di vulnerabilità politiche, dal processo per corruzione in corso e dalle sue manie di grandezza di essere una figura storica posta dalla provvidenza per salvare Israele e la civiltà occidentale dall’islamofascismo, e che non può essere disturbato da nozioni terrene di fallimento e responsabilità.

Sì, sappiamo che non ha un’etica e dei valori fondamentali, né una bussola morale, altrimenti non si sarebbe presentato alle elezioni per quattro volte tra il 2019 e il 2021 mentre era sotto accusa. Eppure vale la pena ribadirlo: Netanyahu Delenda est. Netanyahu deve essere distrutto politicamente, altrimenti Israele affonderà con lui.

La sua responsabilità per la debacle del 7 ottobre, il giorno peggiore della storia di Israele, è stata e sarà sempre più ampiamente affrontata. Lo stesso vale per la sua gestione della guerra, che era legata alla sua sopravvivenza politica.

Tuttavia, c’è un altro aspetto che merita di essere esaminato più da vicino: il suo curriculum in politica estera. Dopo tutto, si tratta di un uomo che ha costruito una carriera sulla falsa premessa di essere un astuto statista, sostenendo ancora oggi che la sua esperienza è fondamentale per vincere la guerra.

Anche i suoi critici più severi sono caduti in questa trappola e, pur criticandolo politicamente, hanno mostrato un’inspiegabile venerazione per il suo acume nelle relazioni estere contro ogni evidenza.

Diamo un’occhiata al suo curriculum. Ci sono sette errori fondamentali e concettuali di politica estera che ha commesso nel corso degli anni.

Il primo – e la sua fama – è l’Iran. Le sue critiche all’accordo sul nucleare iraniano (noto anche come JCPOA) e il suo discorso al Congresso degli Stati Uniti nel 2015 contro il presidente Barack Obama e il vicepresidente Joe Biden sono state accompagnate da promesse di “un accordo migliore”, che ovviamente non ha mantenuto. Ha isolato Israele, rendendo di fatto l’Iran una questione israeliana agli occhi del mondo.

Poi, nel 2018, ha incoraggiato l’allora presidente Donald Trump a ritirarsi dall’accordo, non riuscendo a proporre una politica sostitutiva. Il risultato: l’Iran, sotto il suo controllo, ha arricchito più uranio e accumulato più materiale fissile che mai, diventando praticamente uno Stato sulla soglia nucleare…

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Caitlin Johnstone – La reazione quando leggo dei crimini di Israele

Secondo quanto riferito, le forze israeliane hanno lanciato i bulldozer sui pazienti dell’ospedale nelle tende e hanno sepolto le persone vive. I funzionari palestinesi chiedono un’indagine urgente sulle accuse di un attacco con bulldozer dell’IDF contro i pazienti dell’ospedale Kamal Adwan, nel nord di Gaza, che ha ucciso una ventina di persone.

 

Questa è una di quelle cose che, anche dopo tutto quello che è successo, si guarda ancora e si dice: “Devo aver letto male”. Se si uccidesse del bestiame in questo modo, si verrebbe considerati dei mostri.

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Le truppe dell’IDF hanno ucciso ostaggi israeliani in fuga che sventolavano una bandiera bianca, apparentemente perché li hanno scambiati per civili palestinesi che tenevano una bandiera bianca (le forze israeliane hanno una lunga e ben documentata storia di uccisioni di gazawi mentre sventolano bandiere bianche). L’unico motivo per cui si sono preoccupati di controllare se i rapiti potessero essere persone di cui si preoccupano è stato, secondo quanto riferito, perché uno di loro aveva un “aspetto occidentale”, cioè sembrava bianco.

Immaginate di essere tenuti in ostaggio da Hamas per mesi, di riuscire a fuggire, di cercare di tornare a casa e di essere uccisi dalle vostre stesse forze militari perché vi hanno scambiato per civili palestinesi.

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I sostenitori di Israele dicono sempre: “Hamas deve solo arrendersi e tutto andrà bene”.

Arrendersi? Vuoi dire sventolare bandiera bianca?

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Fuoco amico durante il 7 ottobre, fuoco amico sul campo di battaglia a Gaza, esecuzioni a fuoco amico di prigionieri israeliani. Le IDF sono così brave a uccidere gli israeliani che dovrebbero iniziare a girare video GoPro con triangoli rossi.

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“Il Mossad scopre un sinistro complotto di Hamas per sedersi e aspettare che l’IDF distrugga Israele con il fuoco amico”.

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Non è la guerra Israele-Hamas, è la guerra Israele-bambini e donne e giornalisti e operatori sanitari e personale ONU e pazienti di ospedali e infrastrutture civili e ostaggi israeliani e a volte occasionalmente Hamas.

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È interessante notare come all’esterno dell’IDF Israele e i suoi sostenitori siano prevalentemente favorevoli alla liberazione degli ostaggi, ma all’interno dell’IDF l’atteggiamento nei confronti degli ostaggi sembra essere, nel migliore dei casi, di depravata indifferenza e, nel peggiore, di vera e propria ostilità.

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Alcune settimane fa ho visto circolare su Twitter un’affermazione di Hamas secondo cui i combattenti di questo gruppo avrebbero attirato le truppe dell’IDF in un’imboscata facendo ascoltare registrazioni di suoni di bambini, e che la cosa funzionava perché le truppe israeliane vanno sempre a caccia di bambini. Sul momento non ho prestato molta attenzione alla rivendicazione, pensando “Non è possibile, non può essere vero”, ma ora l’IDF si lamenta indignata: “Nel tentativo di tendere un’imboscata alle nostre truppe, i terroristi di Hamas hanno collegato bambole ad altoparlanti che riproducevano suoni di pianto e le hanno sistemate in un’area attrezzata con esplosivi”…

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Le forze israeliane assaltano l’ospedale Kamal Adwan di Gaza dopo giorni di bombardamenti

L’ONU afferma che all’interno si trovano decine di pazienti e circa 3.000 sfollati e il Ministero della Sanità di Gaza chiede l’aiuto internazionale.

Varie fonti e il Ministero della Sanità palestinese hanno detto che le forze israeliane hanno assaltato l’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, dopo averlo assediato e bombardato per diversi giorni.

Ashraf al-Qudra, un portavoce del ministero, ha detto che le truppe israeliane martedì hanno radunato uomini e ragazzi nel cortile dell’ospedale a Beit Lahiya, compreso il personale medico.

Temiamo che li arrestino e che arrestino il personale medico o li uccidano”, ha detto, invocando l’intervento internazionale.

Facciamo appello alle Nazioni Unite, all’Organizzazione Mondiale della Sanità e al Comitato Internazionale della Croce Rossa perché agiscano immediatamente per salvare la vita delle persone

Dentro ci sono pazienti, personale medico e migliaia di civili che vi si sono rifugiati dopo essere stati costretti a fuggire dalle loro case.

Nella sua cronaca di martedì dal sud di Gaza Hani Mahmoud di Al Jazeera ha detto che l’assalto avveniva “sotto un intenso fuoco di armi leggere e artiglieria”.

Carri armati hanno sfondato i cancelli e l’intera struttura è sotto un pesante bombardamento”, ha detto. “Vengono usati megafoni per intimare a chiunque abbia più di 15 anni di uscire dall’edificio con le mani in alto.”

Ha aggiunto che le forze israeliane che hanno assaltato la struttura hanno anche chiesto alle guardie di sicurezza a protezione dell’ospedale di consegnare le armi. 

Kamal Adwan è l’unica struttura sanitaria rimasta nella parte nord di Gaza, ha detto il nostro corrispondente.

“Negli ultimi giorni è finito sotto pesanti bombardamenti, attacchi aerei e granate di carri armati che hanno distrutto la gran parte delle sue strutture e tutte le principali strade che vi conducono.”

Ospedale ‘assediato’

L’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite OCHA ha detto che due madri sono state uccise quando il reparto maternità del Kamal Adwan è stato colpito lunedì.

L’ospedale resta assediato dalle truppe e dai carri armati israeliani”, ha detto OCHA, aggiungendo che l’ospedale in quel momento ospitava 65 pazienti, compresi 12 minori in terapia intensiva e sei neonati in incubatrice.

Circa 3.000 sfollati restano intrappolati nella struttura e attendono di essere evacuati in mancanza di acqua, cibo e energia”, ha aggiunto.

La situazione al Kamal Adwan è catastrofica, ha detto a Al Jazeera Leo Cans, capomissione in Palestina di Medici Senza Frontiere (MSF).

Siamo indignati per ciò che sta accadendo”, ha detto, aggiungendo che i medici a Gaza operano in condizioni simili a quelle della prima guerra mondiale.

Operiamo sul pavimento. I bambini arrivano con ferite molto gravi e i chirurghi devono fare diverse operazioni allo stesso tempo ma non ci sono più letti”, ha detto.

Le truppe israeliane precedentemente hanno assalito ed evacuato altre strutture mediche a Gaza, compreso l’ospedale indonesiano e al-Shifa, l’ospedale più grande del territorio.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) afferma che solo 11 dei 36 ospedali di Gaza restano parzialmente funzionanti e supplica che non vengano danneggiati.

Non possiamo permetterci di perdere strutture sanitarie e ospedali”, ha detto Rik Peeperkorn, rappresentante dell’OMS per i territori palestinesi occupati, in una conferenza stampa ONU in videocollegamento da Gaza. “Speriamo, scongiuriamo che non accada.”

Da quando Israele ha iniziato la guerra contro Gaza il 7 ottobre sono stati uccisi più di 18.000 palestinesi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Israele uccide chi racconta Gaza, ma non può cancellare la storia – Ramzy Baroud

Almeno 75 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi da Israele dall’inizio della guerra.

Ciò che sta accadendo a Gaza è destinato ai libri di storia: il racconto epico di una piccola nazione sottoposta a un lungo e brutale assedio per molti anni, alle prese con una delle più grandi potenze militari del mondo. Eppure rifiuta di essere sconfitta.

Nemmeno la leggendaria tenacia dei personaggi di “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj può essere paragonata all’eroismo degli abitanti di Gaza, che vivono in una minuscola landa di terra mentre sopravvivono al limite, da molto prima dell’odierno Genocidio israeliano.

Ma se Gaza è stata effettivamente dichiarata inabitabile dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo già nel 2020, come ha potuto far fronte a tutto ciò che è accaduto da allora, in particolare all’estenuante e senza precedenti guerra israeliana iniziata il 7 ottobre?

“Ho ordinato un assedio totale sulla Striscia di Gaza. Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto è chiuso”, ha dichiarato il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant il 9 ottobre. Infatti, Israele ha commesso Crimini di Guerra ben più gravi che la costrizione di 2,3 milioni di persone.

“Nessun posto è sicuro, nemmeno ospedali e scuole”, ha pubblicato su X (Twitter) l’11 novembre l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari. Le cose sono peggiorate molto da quando è stata fatta quella dichiarazione.

E poiché gli abitanti di Gaza si rifiutano di lasciare la loro terra, i 365 kmq della Striscia sono stati trasformati in un terreno di caccia di esseri umani, che vengono uccisi in ogni modo immaginabile. Coloro che non sono morti sotto le macerie delle proprie case e non sono stati uccisi dagli elicotteri d’attacco mentre tentavano di fuggire da una regione all’altra stanno ora morendo di malattie e di fame.

Non una sola categoria di palestinesi è stata risparmiata da questo orribile destino: bambini, donne, insegnanti, medici, soccorritori e persino artisti e poeti. Ognuno di questi gruppi ha un elenco di vittime in continua crescita, aggiornato quotidianamente.

Pienamente consapevole della portata dei suoi Crimini di Guerra a Gaza, Israele ha sistematicamente preso di mira i narratori della Striscia: i giornalisti e le loro famiglie, i blogger, gli intellettuali e persino gli influencer dei social media.

Mentre i palestinesi insistono affinché il loro dolore collettivo, e la loro Resistenza, debbano essere mostrati in televisione, Israele sta facendo tutto ciò che è in suo potere per eliminare i narratori.

Il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha dichiarato in un comunicato della scorsa settimana che almeno 75 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi da Israele dall’inizio del della guerra. Ciò non include i numerosi giornalisti cittadini o scrittori che non operano necessariamente in veste ufficiale. Inoltre non include i familiari, come la famiglia del giornalista Wael Dahdouh o quella di Moamen Al-Sharafi.

Consapevoli che i loro intellettuali sono obiettivi di Israele, gli abitanti di Gaza tentano da anni di produrre sempre più narratori. Nel 2015, un gruppo di giovani giornalisti e studenti ha formato il collettivo We Are Not Numbers (Noi Non Siamo Numeri). Questo gruppo mira a “raccontare le storie dietro il numero di palestinesi nelle notizie” e a difendere i loro diritti umani.

Un co-fondatore di We Are Not Numbers, il Professor Refaat Alareer, era un amato docente universitario palestinese di Gaza. Giovane intellettuale la cui genialità era pari solo alla sua gentilezza, Alareer credeva che la storia della Palestina, e di Gaza in particolare, dovesse essere raccontata dagli stessi palestinesi, coloro il cui rapporto con la questione palestinese è diretto.

“Mentre Gaza continua ad annaspare per sopravvivere, lottiamo perché non venga dimenticata, non abbiamo altra scelta che reagire e raccontare le sue storie. Per la Palestina”, ha scritto Alareer nel suo contributo al volume “Light in Gaza: Writing Born of Fire” (Luce a Gaza: La Scrittura Nata dal Fuoco).

Ha curato diversi libri, tra cui “Gaza Write Back” (Riscrivere Gaza) e “Gaza Unsilenced” (Gaza Sotto Silenzio), che gli hanno anche permesso di portare il messaggio di altri intellettuali palestinesi di Gaza al resto del mondo.

“A volte una Patria diventa un racconto. Amiamo la storia perché parla della nostra Patria e amiamo ancora di più la nostra Patria grazie alla storia”, ha scritto in “Gaza Writes Back”.

Secondo quanto riferito, Alareer si sarebbe rifiutato di lasciare il Nord di Gaza, anche dopo che Israele era riuscita a isolarla dal resto della Striscia, sottoponendola a innumerevoli massacri. Come se fosse consapevole del destino che lo attendeva, Alareer ha twittato questa frase, insieme a una poesia che aveva scritto: “Se devo morire, che sia una storia da raccontare”.

Il 7 dicembre, We Are Not Numbers ha dichiarato che il suo amato co-fondatore era stato ucciso in un attacco aereo israeliano.

Alareer non è l’unico membro del collettivo di scrittori ad essere stato ucciso da Israele. Yousef Dawas è stato ucciso a ottobre e Mohammed Zaher Hamo a novembre, insieme ai membri delle loro famiglie, durante gli attacchi israeliani in varie parti della Striscia di Gaza.

In uno dei seminari che ho tenuto con il gruppo prima della guerra, Dawas si è distinto. Non solo per i suoi capelli insolitamente lunghi, ma per le sue domande intelligenti e argute. Voleva raccontare le storie degli abitanti comuni di Gaza, in modo che altre persone comuni in tutto il mondo potessero apprezzare la lotta quotidiana del popolo palestinese, la loro sacrosanta ricerca di giustizia e la loro speranza per un futuro migliore.

Questi narratori furono tutti uccisi da Israele, che sperava che le storie sarebbero morte con loro. Ma Israele fallirà perché la storia collettiva è più grande di tutti noi. Una nazione che ha prodotto personaggi del calibro di Ghassan Kanafani, Basil Al-Araj e Alareer produrrà sempre grandi intellettuali che svolgeranno il ruolo storico di raccontare la storia della Palestina e della sua liberazione.

Questa è l’ultima poesia condivisa da Alareer: “Se devo morire, devi vivere, per raccontare la mia storia, per vendere le mie cose, per comprare un pezzo di stoffa, e delle funi per fare un aquilone bianco con una lunga coda, così che un bambino, da qualche parte a Gaza, mentre guarda il cielo, aspettando suo padre che se ne è andato tra le fiamme, senza poter dire addio a nessuno, nemmeno alla sua carne, nemmeno a se stesso, vede il mio aquilone, l’aquilone che hai costruito, volare su, in alto, e pensa per un momento che ci sia un angelo che riporta l’amore. Se devo morire, che porti speranza, che sia una storia da raccontare”.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Ramzy Baroud è un ricercatore senior non di ruolo presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Il male che Israele fa è il male che Israele riceve – Chris Hedges

Il progetto coloniale israeliano perpetua il ciclo di violenza contro gli abitanti nativi della Palestina storica. I palestinesi sono stati costretti a rispondere nella lingua parlata da Israele.

Conoscevo il dottor Abdel Aziz Al-Rantisi, cofondatore di Hamas, insieme allo Sceicco Ahmed Ismail Yassin. La famiglia di Al-Rantisi fu espulsa nella Striscia di Gaza dalle milizie sioniste dalla Palestina Storica durante la Guerra Arabo-Israeliana del 1948. Non corrispondeva all’immagine demonizzata del leader di Hamas. Era un medico pediatra pacato, articolato e altamente istruito che si era laureato primo della sua classe all’Università di Alessandria d’Egitto.

Quando aveva nove anni, fu testimone dell’esecuzione di 275 uomini e ragazzi palestinesi, compreso suo zio, a Khan Younis, quando Israele occupò brevemente la Striscia di Gaza nel 1956, oggetto del magistrale libro di Joe Sacco: Footnotes in Gaza. Decine di palestinesi sono stati giustiziati dai soldati israeliani anche nella vicina città di Rafah, dove decine di migliaia di palestinesi sono attualmente costretti a fuggire ora che Khan Younis è sotto attacco.

“Ricordo ancora i lamenti e le lacrime di mio padre per suo fratello”, ha detto Al-Rantisi a me e a Sacco quando lo abbiamo incontrato a casa sua. “Non sono riuscito a dormire per molti mesi dopo. Ha lasciato una ferita nel mio cuore che non potrà mai rimarginarsi. Quando racconto la storia mi viene quasi da piangere. Questo tipo di azione non potrà mai essere dimenticato, hanno piantato l’odio nei nostri cuori”.

Sapeva che non avrebbe mai potuto fidarsi degli israeliani. Sapeva che l’obiettivo dello Stato Sionista era l’Occupazione di tutta la Palestina Storica: Israele conquistò Gaza e la Cisgiordania nel 1967 insieme alle Alture del Golan in Siria e la Penisola del Sinai in Egitto, e l’eterna sottomissione o sterminio del popolo palestinese. Sapeva che avrebbe vendicato quegli omicidi.

Al-Rantisi e Yassin furono assassinati nel 2004 da Israele. La vedova di Al-Rantisi, Jamila Abdallah Taha Al-Shanti, aveva un dottorato in inglese e insegnava all’Università islamica di Gaza. La coppia ebbe sei figli, uno dei quali venne ucciso insieme al padre. La casa della famiglia è stata bombardata e distrutta durante l’assalto israeliano a Gaza del 2014 noto come Operazione Margine di Protezione. Jamila è stata uccisa da Israele il 19 ottobre di quest’anno.

Il Genocidio di Israele a Gaza sta crescendo una nuova generazione di palestinesi infuriati, traumatizzati e privati ​​di tutto, che hanno perso familiari, amici, case, comunità e ogni speranza di vivere una vita normale. Anche loro cercheranno vendetta. I loro piccoli atti di terrorismo contrasteranno il continuo terrorismo di Stato di Israele. Odieranno come sono stati odiati. Questa sete di vendetta è universale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, un’unità clandestina di ebrei che prestava servizio nella Brigata Ebraica dell’esercito britannico, chiamata “Gmul”, in ebraico “Ricompensa”, diede la caccia agli ex nazisti e li giustiziò.

“Noi tutti sappiamo ciò che tutti gli studenti imparano”, ha scritto Wystan Hugh Auden. “Coloro ai quali viene fatto del male, contraccambieranno con il male”.

Chaim Engel, che prese parte alla rivolta nel campo di sterminio nazista di Sobibor in Polonia, descrisse come, armato di coltello, attaccò una guardia nel campo.

“Non è pianificato”, disse Engel. “Reagisci e basta, istintivamente reagisci a quello, e ho pensato: va fatto, e lo faccio. E l’ho fatto. Sono andato con un altro uomo nell’ufficio e abbiamo ucciso questo tedesco. Ad ogni fendente dicevo: Questo è per mio padre, questo è per mia madre, questo è per tutte queste persone, tutti gli ebrei che hai ucciso”.

Ciò che Engel ha fatto alla guardia nazista non è stato meno brutale di quello che i combattenti di Hamas hanno fatto agli israeliani il 7 ottobre, dopo essere fuggiti dalla loro stessa prigione. Preso fuori contesto, è inspiegabile. Ma se posto nel contesto del campo di sterminio, o dei 17 anni di prigionia nel campo di concentramento di Gaza, ha senso. Questa non è un assoluzione. Comprendere non è condonare. Ma bisogna capire se si vuole fermare questo ciclo di violenza. Nessuno è immune dalla sete di vendetta. Israele e gli Stati Uniti stanno scioccamente orchestrando ancora un altro capitolo di questo incubo.

  1. Glenn Gray, un ufficiale combattente della Seconda Guerra Mondiale, scrisse sulla peculiare natura della vendetta in “The Warriors: Reflections on Men in Battle” (I Guerrieri: Riflessioni sugli Uomini in Battaglia):

“Quando il soldato perde un compagno a causa del nemico o forse la sua famiglia è stata distrutta dai bombardamenti o da persecuzioni politiche, come accadeva così spesso nella Seconda Guerra Mondiale, la sua rabbia e il suo risentimento si trasformano in odio. Allora la guerra per lui assume il carattere di una vendetta. Fino a quando non avrà distrutto il maggior numero possibile di nemici, la sua sete di vendetta difficilmente potrà essere placata. Ho conosciuto soldati che erano ansiosi di sterminare fino all’ultimo nemico, tanto era feroce il loro odio. Tali soldati provavano grande piacere nell’ascoltare o leggere la distruzione di massa causata dai bombardamenti. Chiunque abbia conosciuto o sia stato un soldato di questo genere è consapevole di come l’odio penetri in ogni fibra del suo essere. La sua ragione di vita è cercare vendetta; non occhio per occhio e dente per dente, ma una ritorsione dieci volte superiore”.

Per coloro che sono brutalizzati, intorpiditi dal trauma, sconvolti dalla rabbia, coloro che senza tregua li attaccano e li umiliano non sono esseri umani. Sono rappresentazioni del male. La sete di vendetta, di ritorsione decuplicata, genera fiumi di sangue.

Gli attacchi palestinesi del 7 ottobre, che hanno provocato la morte di circa 1.200 israeliani, alimentano questa brama in Israele, proprio come la distruzione di Gaza da parte di Israele alimenta questa brama tra i palestinesi. La bandiera nazionale blu e bianca di Israele con la Stella di David adorna case e automobili. La folla si riunisce per sostenere le famiglie i cui membri sono tra gli ostaggi a Gaza. Gli israeliani distribuiscono cibo agli incroci stradali ai soldati diretti a combattere a Gaza. Striscioni con slogan come “Israele in guerra” e “Insieme vinceremo” costellano le trasmissioni televisive e i siti dei media. Nei media israeliani si parla poco del massacro di Gaza o della sofferenza dei palestinesi, 1,7 milioni dei quali sono stati cacciati dalle loro case, ma si ripete costantemente le storie di sofferenza, morte ed eroismo avvenute durante l’attacco del 7 ottobre. Contano solo le nostre vittime.

“Pochi di noi sanno fino a che punto la paura e la violenza possano trasformarci in creature feroci, pronte con denti e artigli”, ha scritto Gray. “Se la guerra mi ha insegnato qualcosa, è che le persone non sono ciò che sembrano o addirittura pensano di essere”.

Marguerite Duras nel suo libro “The War: A Memoir” (La Guerra: Memorie) scrive di come lei e altri membri della Resistenza francese torturarono un francese di 50 anni accusato di collaborazionismo con i nazisti. Due uomini torturati nel carcere di Montluc, a Lione, spogliano il presunto informatore. Lo picchiano mentre il gruppo grida: “Bastardo. Traditore. Feccia”. Presto sangue e muco gli colano dal naso. Il suo occhio è ferito. Geme: Si accascia sul pavimento. Duras scrive che era “diventato qualcuno senza nulla in comune con gli altri uomini. E ad ogni minuto che passava la differenza aumentava e si consolidava sempre più”. Osserva passivamente il pestaggio. “Più colpiscono e più sanguina, più è chiaro che colpire è necessario e giusto”. E continua: “Bisogna colpire. Non ci sarà mai giustizia nel mondo a meno che noi stessi non facciamo giustizia, adesso. I giudici, le aule dei tribunali, fanno finta di giudicare, non fanno giustizia”. E nota: “Ogni colpo risuona nella stanza silenziosa. Stanno colpendo tutti i traditori, le donne che se ne sono andate, tutti quelli a cui non è piaciuto quello che hanno visto da dietro le finestre”.

Israele ha abusato, umiliato, impoverito e ucciso arbitrariamente i palestinesi, provocando un’inevitabile controviolenza. È il motore avviato da un secolo di spargimenti di sangue. Il Genocidio di Gaza supera anche i peggiori eccessi della Nakba, o Catastrofe, che vide 750.000 palestinesi cacciati dalle loro terre nel 1948 e da 8.000 a 15.000 uccisi in massacri da parte di milizie terroristiche sioniste come Irgun e Lehi.

La Resistenza Palestinese ha poco più che armi leggere e granate a razzo per combattere contro uno degli eserciti meglio equipaggiati e tecnologicamente più avanzati del pianeta, il quarto esercito più forte del mondo, dopo Stati Uniti, Russia e Cina. I combattenti palestinesi, affrontando queste difficoltà schiaccianti, sono diventati semidei con un enorme seguito popolare non solo tra i palestinesi, ma in tutto il mondo musulmano. Israele potrebbe essere in grado di dare la caccia e uccidere il leader in seconda di Hamas, Yahya Sinwar, ma se lo farà, diventerà la versione mediorientale di Ernesto “Che” Guevara. I movimenti di Resistenza si fondano sul sangue dei martiri. Israele garantisce una fornitura continua.

La decisione degli Stati Uniti di difendere, finanziare e partecipare ai bombardamenti a tappeto, ai massacri e alla Pulizia Etnica di Israele a Gaza è inconcepibile. Il proprio sostegno al Genocidio ha distrutto ciò che restava della loro credibilità in Medio Oriente, già a pezzi dopo due decenni di guerre, così come nella maggior parte del resto del mondo. Hanno perso il diritto di agire come mediatore; quel ruolo sarà assunto dalla Cina o dalla Russia. Il suo rifiuto di condannare l’aggressione e i Crimini di Guerra israeliani mettono in luce l’ipocrisia statunitense riguardo all’invasione russa dell’Ucraina. Fila con la possibilità di una conflagrazione regionale. Il processo di pace, una farsa per decenni, è irrecuperabile. L’unico linguaggio rimasto è quello della morte. È così che Israele parla ai palestinesi. È così che i palestinesi sono costretti a rispondere.

L’amministrazione Biden ha poco da guadagnare dalla distruzione e dallo spopolamento di Gaza, anzi sta allontanando enormi fasce di elettori del Partito Democratico, soprattutto mentre attacca i manifestanti che chiedono un cessate il fuoco in quanto “pro-terroristi”. Il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer ha guidato gli slogan “Siamo con Israele” e “Nessun Cessate il Fuoco” durante una manifestazione filo-israeliana il 4 novembre a Washington D.C., nonostante un sondaggio Reuters/Ipsos indicasse che il 68% degli intervistati era convinto che Israele dovrebbe attuare un cessate il fuoco e negoziare la fine della guerra. Questa cifra sale al 77% tra i democratici. Biden ha un triste indice di gradimento del 37%.

Venerdì il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato con 13 voti favorevoli e 1 astenuto a favore di un cessate il fuoco immediato a Gaza e del rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi. Gli Stati Uniti hanno votato contro la Risoluzione. Il Regno Unito si è astenuto. La proposta di Risoluzione non è stata adottata a causa del veto statunitense.

La vera base di Biden non sono gli elettori disincantati, ma la classe dei miliardari, le multinazionali, come l’industria delle armi, che sta ricavando enormi profitti dalle guerre a Gaza e in Ucraina, e gruppi come la lobby israeliana. Sono loro a determinare la politica, anche se ciò significa la sconfitta di Biden alle prossime elezioni presidenziali. Se Biden perde, gli oligarchi prendono Donald Trump, che serve i loro interessi con la stessa tenacia di Biden.

Le guerre non finiscono. La sofferenza continua. I palestinesi muoiono a decine di migliaia. Questo è stato pianificato.

Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On Contact.

Traduzione di Beniamino Rocchetto  – Invictapalestina.org

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Pulizia Etnica di Gaza: l’obiettivo inequivocabile dell’assalto genocida di Israele – Mustafà Barghouti

Israele non riuscirà nei suoi obiettivi di Pulizia Etnica di Gaza a causa dell’eroica Fermezza dei palestinesi, ma il prezzo sarà il loro sangue, a meno che tutte le persone di coscienza non utilizzino tutti i canali possibili per costringere Israele a fermarsi.

 

Dopo che Israele ha ripreso il suo assalto a tutto campo su Gaza, il bombardamento da parte dei suoi aerei da guerra, artiglieria e carri armati ha travolto l’intera Striscia, da Rafah nel Sud fino all’estremo confine settentrionale.

L’esercito israeliano sta disperatamente cercando di rimediare al suo fallimento dopo 50 giorni di guerra, con questo nuovo tentativo di schiacciare la Resistenza nel Nord di Gaza e Gaza City per assicurarne il controllo. Finora non è riuscito a raggiungere questo obiettivo, nonostante la ferocia dei suoi attacchi.

Sta anche, cosa ancora più importante, tentando di spostare gli abitanti risoluti di queste aree, che sono rimasti, nel Sud di Gaza, terrorizzandoli attraverso bombardamenti incessanti.

Israele non ha nascosto le sue intenzioni: i suoi aerei hanno lanciato volantini sui residenti di Al-Qarara, Khuza’a e Abasan, tre città nella provincia di Khan Younis, avvertendoli che ormai era una “zona pericolosa” e ordinando loro di andarsene e dirigersi a Sud fino a Rafah, al confine con l’Egitto.

L’obiettivo è evidentemente lo sfollamento di tutti i residenti da Nord a Sud, e da lì, un ulteriore spostamento verso Sud, verso Rafah e il confine egiziano. Gli israeliani sperano chiaramente che il conseguente inasprimento delle sofferenze umane, dato che milioni di persone sono stipate in un’area sempre più piccola, possa esercitare il tipo di pressione necessaria per spezzare la coraggiosa Fermezza palestinese e costringere l’Egitto a rinunciare al suo fermo rifiuto di consentire agli abitanti della Striscia di Gaza di essere spinti nel deserto del Sinai.

Il quotidiano israeliano Israel Hayom, testata che ha buoni rapporti con Netanyahu, ha scoperto le sue reali intenzioni discutendo di questo piano di sfollamento. Ha scritto che Netanyahu voleva “ridurre” la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza “al minimo”, espellendone quanti più palestinesi possibile.

L’articolo presentava ulteriori scenari di espulsione attraverso il valico di Rafah, come l’espulsione della popolazione via mare, che è ciò che accadde ai palestinesi di Yaffa e Haifa durante la Nakba nel 1948. Tuttavia, poi tornò a descrivere il piano di Netanyahu come “fantasia politica”, a causa della sua incapacità di fare i conti con la Fermezza del popolo palestinese e la sua insistenza nel rimanere nella propria Patria anche se il prezzo è la morte e il martirio.

A ciò si aggiunge la linea politica dell’Egitto, nonché una diffusa opposizione internazionale, anche da parte di molte figure dell’amministrazione statunitense. Il giornale ha inoltre aggiunto che anche i membri del gabinetto di guerra israeliano, come Gantz, Gallant e Eisenkot, considerano i piani di Netanyahu irrealistici e inverosimili, anche se vorrebbero che potessero essere realizzati.

Alcuni media occidentali, che hanno mostrato un vergognoso e ignobile livello di condiscendenza nei confronti di Israele, hanno negato che il suo obiettivo sia la Pulizia Etnica, anche se questa è già stata effettivamente effettuata dato che l’80% della popolazione di Gaza è stata costretta a lasciare le proprie case, e centinaia di migliaia, sotto feroci bombardamenti, costretti a spostarsi verso Sud. Non solo, ma coloro che hanno tentato di tornare a Gaza City e nel Nord durante il cessate il fuoco temporaneo sono stati colpiti.

Questi media ignorano ciò che Netanyahu stesso ha dichiarato apertamente nei primi giorni dell’aggressione, cioè che tutti gli abitanti della Striscia di Gaza devono lasciare le proprie case. Inoltre, ignorano che il portavoce militare israeliano Richard Hecht ha detto in modo ancora più chiaro che l’intera popolazione della Striscia di Gaza doveva lasciare le proprie case e dirigersi in Egitto, una dichiarazione che ha riempito i titoli del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth.

Ma i palestinesi non se ne andranno, perché hanno sperimentato lo sfollamento forzato nel 1948 e conoscono profondamente l’amarezza e l’umiliazione subite da coloro che sono costretti a diventare profughi. Sono anche pienamente consapevoli che se lasciano la Palestina, la loro Patria, e lasciano la Striscia di Gaza, non gli sarà mai permesso di tornare.

L’eroica Resistenza del popolo di Gaza al barbaro assalto di cui il mondo è stato testimone passerà alla storia; ma ogni essere umano degno oggi deve mobilitare tutte le proprie energie per costringere Israele a fermare la sua selvaggia aggressione e impedire la Pulizia Etnica che Netanyahu sta pianificando di attuare.

Il bilancio del primo giorno in cui Israele ha ricominciato i bombardamenti su Gaza è stato di 200 morti e circa 600 feriti. Israele ha anche bloccato l’ingresso di tutti gli aiuti a Gaza attraverso il valico di Rafah, il che costituisce la punizione collettiva di 2,3 milioni di persone. Tutto ciò si aggiunge all’insopportabile pressione sugli ospedali e sulle strutture sanitarie private di medicinali e attrezzature mediche.

Ribadiamo pertanto la nostra richiesta ai governi dei 57 Stati arabi e islamici riuniti a Riad, di organizzare un convoglio di aiuti umanitari che li rappresenti collettivamente e di invitare le organizzazioni umanitarie internazionali a prendervi parte, affinché rompano il blocco in atto imposto illegalmente da Israele al valico di Rafah.

Se ciò dovesse accadere, Israele oserà davvero bombardare un convoglio rappresentativo di 57 Stati, la cui popolazione conta oltre due miliardi di persone, un quarto della popolazione mondiale?

Parallelamente, con la ripresa dell’assalto israeliano, rinnoviamo la nostra legittima richiesta da parte di tutti gli Stati che hanno normalizzato le relazioni con Israele, di annullare i loro accordi, interrompere le relazioni ed espellere i suoi ambasciatori.

Allo stesso modo chiediamo che tutti gli Stati arabi e islamici inviino un messaggio chiaro agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e a tutti gli Stati che sostengono la continuazione dell’assalto israeliano e rifiutano di sostenere un cessate il fuoco completo e permanente. Questo messaggio dovrebbe affermare chiaramente che i loro interessi negli Stati arabi e islamici subiranno danni se persisteranno nella loro posizione.

Israele e la sua Occupazione non spezzeranno la volontà del popolo palestinese, né la sua Fermezza. Né riuscirà a raggiungere il suo obiettivo di sfollamento e Pulizia Etnica. Tuttavia, il prezzo di questa Resilienza viene pagato con il sangue: quello dei palestinesi e dei loro figli.

Quindi la domanda è questa: quante altre migliaia di bambini dovranno morire prima che le coscienze di coloro che hanno ignorato e fallito nel loro dovere umanitario, nazionale e religioso finalmente si risveglino?

Mustafa Barghouti è fondatore e leader dell’Iniziativa Nazionale Palestinese (PNI), nonché medico, attivista, scrittore e difensore dei diritti dei palestinesi. È membro del Consiglio legislativo palestinese dal 2006 ed è stato nominato per il Premio Nobel per la Pace nel 2010.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

da qui

 

 

 

 

 

 

 

 

Palestina. Uscire dal tunnel: una proposta per la pace – Domenico Gallo

Qualsiasi reazione alla catastrofe che stiamo vivendo non può che partire da una rivisitazione del discorso pubblico. Deve essere respinta come falsa la narrazione dominante di uno Stato democratico costretto a stroncare un terrorismo diabolico che minaccia la sua stessa esistenza (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/16/palestina-quel-che-ci-dice-la-ragione/). Per quanto le incursioni compiute da Hamas il 7 ottobre possano facilmente essere assunte nella categoria del terrorismo (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/12/palestina-guerra-o-terrorismo/) e ricadere nel catalogo dei crimini contro l’umanità (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/12/la-palestina-tra-empieta-e-disperazione-restare-umani/), non si può ignorare il fatto che esiste un popolo oppresso e uno Stato oppressore. Il diritto internazionale riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli soggetti a una dominazione coloniale o a forme di apartheid, che può essere esercitato anche ricorrendo alla lotta armata https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/16/palestina-il-sonno-del-diritto-genera-mostri/).

Tuttavia il panorama del conflitto israelo-palestinese, è assolutamente differente da tutti gli altri casi storici in cui vi è una dominazione coloniale o un’occupazione straniera. Quando c’è un’occupazione militare o un dominio coloniale, la resistenza armata può costringere la Potenza coloniale o occupante a riportare in patria il suo esercito e a restituire la libertà al popolo oppresso. In questo caso è assolutamente impossibile (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/12/13/gaza-la-guerra-non-e-contro-hamas-e-contro-i-palestinesi/ ). Qui vi sono due popoli che convivono nello stesso territorio, che va dalle rive del Giordano al mar Mediterraneo, e dovranno continuare a convivere qualunque sviluppo politico dovesse esserci in futuro (due Stati, un Stato federale, una Confederazione, un solo Stato binazionale). Per questo la lotta armata non si può fare perché si risolve in una serie di atrocità che renderebbero impossibile la convivenza, pregiudicando ogni futura soluzione politica. Hamas è un partito politico, presente nella società palestinese che esercita la resistenza all’oppressione con il ricorso al martirio. Spinge le persone ad affrontare e a subire il martirio per procurare il massimo del danno possibile al proprio nemico. Quello che è successo dal 7 ottobre in poi, dimostra che la strategia del martirio non produce nessun risultato politico utile per gli oppressi, provoca soltanto distruzione e morte, fino a livelli inimmaginabili, mentre la risposta di Israele, che rilancia la strategia del martirio moltiplicandola per cento, non garantisce né la pace, né la sicurezza al popolo israeliano.

Quando si parla di guerra al terrorismo, o comunque si definisce come “guerra” la tempesta di fuoco che Israele ha scatenato contro Gaza, bisogna considerare che la morte di civili o combattenti non costituisce mai l’obiettivo, ma soltanto un prezzo da pagare per conseguire l’obiettivo politico che si vuole perseguire con la guerra. Invece, in questo caso la morte di civili e combattenti più che un costo sembra l’obiettivo della guerra (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/11/20/palestina-40-giorni-dopo-tra-crimini-di-guerra-e-calcoli-geopolitici/). Dobbiamo, dunque, chiederci: qual è il reale obiettivo politico che Israele vuole perseguire con la guerra, cosa vuole ottenere?

Orbene, oltre una tremenda vendetta, non è assolutamente chiaro quali siano gli obiettivi di Israele. Il dichiarato intento di eradicare Hamas e di eliminare tutti i suoi miliziani è un obiettivo impossibile e assurdo. Impossibile perché non vi è un forte di Hamas da espugnare, non vi sono delle divisioni da affrontare e sconfiggere sul campo di battaglia. I miliziani di Hamas sono rifugiati in una selva che è la sfortunata popolazione della Striscia. Per eliminarli tutti bisognerebbe disboscare la selva. È quello a cui Israele si sta dedicando attivamente, bombardando in modo massiccio e indiscriminato, facendo sfollare 1.700.000 persone, attaccando gli ospedali, togliendo il cibo, l’acqua, l’energia, i medicinali alla popolazione e spegnendo le comunicazioni. Non si possono eliminare i miliziani di Hamas senza compiere un vero e proprio genocidio (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/30/gaza-non-e-difesa-e-genocidio/). Anche dal punto di vista della sicurezza di Israele questo è un obiettivo assurdo perché, dopo aver inflitto delle sofferenze così atroci, nulla può escludere che i giovani sopravvissuti alle bombe israeliane, alla fame, alla sete, alle malattie, alla morte dei loro genitori o dei loro coetanei, non sentano il bisogno di prendere le armi e di rimpiazzare i miliziani eliminati (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/11/10/centinaia-di-intellettuali-ebrei-americani-la-critica-a-israele-non-e-antisemitismo/ ).

Le caratteristiche di questa operazione militare la rendono molto diversa dagli altri conflitti che abbiamo vissuto. Basti pensare che in 78 giorni di bombardamenti sulla ex Jugoslavia, la NATO ha provocato la morte di circa 600-700 civili, a fronte degli oltre 18.000 morti provocati da Israele in poco più di 60 giorni, mentre la Russia in 20 mesi di conflitto ha provocato la morte di circa 600 fanciulli, a fronte dei 6.500 uccisi nella Striscia di Gaza in soli due mesi. Questi numeri rendono evidente che quello in corso a Gaza è un genocidio, anche in senso tecnico-giuridico. La condotta di Israele, rientra nel concetto di “genocidio” come definito dalla Convenzione ONU del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/30/gaza-non-e-difesa-e-genocidio/). A Gaza è calato l’inferno sopra una popolazione di oltre due milioni di persone. Di fronte a una situazione così orribile sbiadiscono e scompaiono le ragioni e i torti di una parte o dell’altra.

La comunità internazionale, tutti gli Stati hanno il dovere di agire per fermare il massacro e ristabilire la pace. Invece non solo non vengono applicate sanzioni di alcun tipo per fermare Israele, ma non si ha nemmeno il coraggio di invocare il cessate il fuoco per non disturbare i piani del Governo israeliano. L’Italia e l’Unione Europea balbettano di tregua umanitaria, di far passare i convogli con i generi di prima necessità per la popolazione, di aumentare gli aiuti a Gaza. Ma a cosa serve una tregua, se poi i combattimenti sono destinati a riprendere, a lasciare libera la morte di mietere il campo? Il silenzio della politica ci rende complici. Quando ogni 10 minuti muore un bambino a Gaza, il fattore tempo è essenziale. Dobbiamo pretendere che il nostro Paese e le istituzioni europee di cui facciamo parte chiedano a voce alta il cessate il fuoco ed esercitino su Israele delle pressioni non inferiori a quelle operate sulla Russia, per ottenere lo stop di ogni massacro. Bisogna dare il massimo sostegno politico all’iniziativa del Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, che nei giorni scorsi ha ulteriormente sollecitato l’intervento del Consiglio di Sicurezza per dichiarare il cessate il fuoco, invocando per la prima volta l’art. 99 della Carta. Il fatto che gli USA abbiano posto di nuovo il veto al riguardo li rende complici, corresponsabili del massacro in corso.

Il cessate il fuoco interrompe la fase cruenta della guerra, può favorire il rilascio degli ostaggi ma non assicura la pace. Dobbiamo guardare oltre, bisogna pensare agli scenari del dopo conflitto. Netanyahu ha comunicato l’intenzione di rioccupare Gaza per garantire la sicurezza di Israele. Soltanto gli Stati Uniti, che pure sono da sempre complici di Israele, hanno avuto qualcosa da obiettare. È assurdo che l’Europa non profferisca verbo. La rioccupazione della Striscia di Gaza da parte di Israele sarebbe il modo migliore per continuare la guerra dopo la guerra e rendere il conflitto permanente. Come si può pensare che dopo aver seminato lutti in tutte le famiglie, dopo aver trasformato in sfollati un milione e settecentomila persone, dopo aver distrutto il 60% delle abitazioni e gli impianti indispensabili per la vita civile, l’esercito israeliano possa amministrare il territorio e tenere sotto controllo la popolazione superstite di Gaza?

Contestualmente al cessate il fuoco occorre, dunque, progettare un intervento immediato per gestire la situazione nella Striscia di Gaza. A questo punto deve intervenire la Comunità internazionale attraverso l’ONU per definire lo status giuridico di Gaza, almeno con una soluzione transitoria. Se si vuole impedire che il conflitto continui anche dopo che la fase bellica, se si vuole realmente garantire la sicurezza di Israele e dei suoi cittadini, c’è una sola soluzione: la Striscia di Gaza deve essere sottratta al controllo di Israele. Ciò può avvenire con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, adottata a norma del capitolo VII della Carta, come in passato avvenne per il Kosovo, che fu distaccato dalla Serbia e sottoposto a un’amministrazione ad interim delle Nazioni Unite, in virtù della Risoluzione 1244 del 10 giugno 1999.

La Palestina è stata già un Mandato britannico; oggi per la Striscia di Gaza si può resuscitare una sorta di Mandato affidato alle Nazioni Unite. Un’amministrazione civile e militare dell’ONU dovrebbe liberare gli ostaggi se ancora sequestrati, procedere al disarmo di Hamas e della Jihad islamica (che potrebbero restare attivi come partiti politici assieme ad altri), impedire che dal territorio della Striscia possano partire atti di ostilità contro Israele, affrontare tutte le emergenze causate dalla guerra, rimettere in funzione le strutture sanitarie, ripristinare le telecomunicazioni, i collegamenti aerei e marittimi della Striscia con il resto del mondo, avviare la ricostruzione e ogni altro programma indispensabile per consentire alla popolazione civile di superare i traumi prodotti dai massacri e dalle privazioni causate dai lunghi anni di assedio a cui sono stati sottoposti. L’Amministrazione dell’ONU dovrebbe promuovere la creazione, in attesa di una soluzione definitiva, di una sostanziale autonomia e auto-amministrazione della Striscia di Gaza.

Non sarebbe un libro dei sogni. Netanyahu ha dichiarato che non accetterà mai la presenza di una forza militare esterna ma il suo Governo ha le ore contate, è destinato a cadere non appena cesserà il conflitto. Anche gli Stati Uniti si sono detti contrari alla rioccupazione di Gaza da parte di Israele. Su questo principio, se sostenuto dall’opinione pubblica internazionale, non dovrebbe essere impossibile realizzare una convergenza dei paesi titolari del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza. Quando questa follia bellica sarà finita, bisogna fare tutto il possibile per impedire che la guerra continui dopo la guerra.

L’articolo riprende, con alcuni tagli, la relazione svolta dall’autore al convegno “Non è una striscia è Gaza” organizzato a Roma il 9 dicembre da “Il coraggio della pace”.

da qui

 

 

 

 

 

 

 

Lettera di un giornalista da Gaza – Tareq Hajjaj

Tareq Hajjaj si trova a Rafah, nel sud di Gaza. Lui e la sua famiglia sopravvivono in un appartamento bombardato dopo essere stati sfollati da Israele due volte, la prima dalla loro casa a Gaza City e poi dal loro rifugio temporaneo a Khan Younis.

 

Cari lettori e lettrici di Mondoweiss,

Vorrei che oggi mi fosse possibile scrivere alcune belle storie. Storie sulla stagione della raccolta delle olive, ad esempio, o sui sogni dei bambini di Gaza di crescere e studiare.

Questa guerra è davvero diversa da qualsiasi altra guerra a cui ho assistito a Gaza durante la mia vita. Questa volta, Israele e gli Stati Uniti hanno deciso il nostro destino. Vogliono trasferirci dalla nostra patria al deserto egiziano. Temo che presto vedrete una nuova Nakba per le persone che sopravvivranno a questa guerra, e non saranno molte.

Sarà una lunga guerra contro di noi. Nessuno prova quello che proviamo noi ogni giorno. Nessuno vive ciò che viviamo noi ogni giorno e notte. Nessuno deve svegliarsi ogni giorno chiedendosi: quante persone sono state uccise mentre dormivo? Sempre che sia riuscito a dormire, in primo luogo.

Poiché Gaza è stata assediata per oltre 17 anni, e tutto all’interno di Gaza era destinato ad essere utilizzato quotidianamente, la crisi umanitaria è in aumento, mentre la guerra continua. Il cibo nei negozi e nei supermercati sta finendo, non c’è combustibile per l’elettricità, non c’è acqua per uso potabile, non ci sono farmaci, e ora, se qualcuno si ammala, nessun ospedale lo riceve.

Israele ora sta bombardando Gaza. Bombarda case con persone dentro. Bombarda ospedali, ambulanze, civili, folle nei mercati e nelle strade. Uccide bambini, donne, giornalisti, medici e squadre di soccorso.

Finora, secondo quanto riferito, sono state uccise 18.412 persone, compresi più di 7.729 bambini, e questi numeri cambiano ogni minuto.

Mentre scrivo queste righe, ho sentito alla radio – l’unica fonte di notizie che abbiamo – che oltre 40 persone sono state uccise in diversi attacchi aerei a Gaza City e Jabalia.

Forse conoscete tutte queste notizie meglio di me. Dopotutto, sono io quello che è tagliato fuori dal mondo mentre voi potete vedere tutto. Ma fate attenzione da dove prendete le notizie, perché non tutti dicono la verità.

Affronto la minaccia di morte ogni giorno solo per  raccontarvi la verità. La verità su una nazione che viene cancellata dalle mappe davanti agli occhi del mondo intero.

Il mio team di Mondoweiss mi chiama ogni giorno. Fornisco loro i dettagli dal basso e loro gestiscono il resto del processo. Sono la squadra più professionale che possiate  immaginare. E sono onesti, non dicono bugie, non cambiano i fatti perché devono farlo. E questo è grazie a voi.

Se sopravvivo a questa guerra, ascolterete centinaia di storie di sopravvissuti e l’orrore che hanno vissuto in questa guerra. Se non lo faccio, avrete il dovere di mantenermi in vita e di parlare delle condizioni in cui gli Stati Uniti e Israele ci stanno spingendo a vivere.

Per ora, la mia sopravvivenza dipende da voi. Non deludetemi.

Tareq Hajjaj -Corrispondente da Gaza

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali – Invictapalestina.org

da qui

 

 

I bambini di Gaza – Bruna Bianchi

Su Gaza in due mesi Israele ha sganciato 25.000 tonnellate di esplosivo, usato bombe al fosforo, ucciso 19.000 persone (molte sono ancora sotto le macerie), distrutto il 60 per cento delle abitazioni, bombardato grattacieli senza preavviso, colpito ospedali, infrastrutture, luoghi di culto, scuole, mercati, dichiarato l’assedio totale, privando di acqua, cibo ed elettricità la popolazione. Per la prima volta l’esercito israeliano ha utilizzato nuovi sistemi di intelligenza artificiale, come il sistema Habsora (Vangelo), in grado di elaborare una enorme quantità di dati e generare automaticamente cento bersagli al giorno, una vera e propria “fabbrica di assassinio di massa” come l’ha definita un ex ufficiale dell’intelligence israeliano, che ha cancellato interi quartieri.

Il 16 novembre alcuni esperti Onu hanno lanciato un appello alla comunità internazionale affinché prevenga il genocidio della popolazione palestinese e il 9 dicembre un gruppo di studiosi dell’Olocausto e del genocidio ha reiterato l’urgenza di un intervento per scongiurarne il pericolo. A parere di Raz Segal, studioso israeliano dell’Olocausto e del genocidio presso la Stockton University (New Jersey), ciò che sta accadendo a Gaza è un caso da manuale di genocidio. Lo provano le numerose dichiarazioni di voler annientare tutta la popolazione civile senza distinzione, tra cui quelle del ministro della Difesa Yoav Gallant il 9 ottobre: “Stiamo imponendo un assedio totale a Gaza. Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburanti. Stiamo combattendo animali umani e agiremo di conseguenza”. A Gallant ha fatto eco il generale Ghassan Alian: “Non ci sarà elettricità né acqua a Gaza, avrete solo distruzione. Avete voluto l’inferno, avrete l’inferno”.

Il linguaggio dell’annientamento è pervasivo in ogni ambito, politico, militare e delle comunicazioni. I termini “cancellare”, “radere al suolo” sono onnipresenti nei media israeliani e sono apparsi sugli striscioni appesi al ponte di Tel Aviv: “L’immagine della vittoria: zero residenti a Gaza”, o ancora: “Olocausto di Gaza”. Le prime vittime di questa logica dell’annientamento sono stati i bambini; almeno 9.000 hanno perso la vita sotto i bombardamenti, altri sono morti e moriranno di fame e malattie, altri ancora non vedranno la luce (sono migliaia le donne che dovrebbero partorire nelle prossime settimane). Come è stato tante volte riportato dai media, ogni dieci minuti una vita infantile viene stroncata. La sorte di neonati e bambini ha suscitato orrore e sgomento, ma di loro rischiano di restare solo i numeri.

Al di fuori dell’umanità

Ha scritto Judith Butler:

I media mainstream descrivono dettagliatamente le uccisioni degli israeliani del 7 ottobre, e siamo giustamente indignati-e e inorriditi-e. Ma sembra che il gran numero di bambini uccisi a Gaza non riceverà mai il tipo di attenzione ed empatia globale che avrà il bambino israeliano. Conosceremo il nome e la famiglia dell’israeliano, ma otterremo solo il numero del bambino palestinese, o di migliaia di bambini.

Sono stati i genitori o i parenti dei bambini palestinesi a scrivere con inchiostro nero il nome sui corpi dei loro figli perché potesse rimanere traccia della loro esistenza e riconoscerli nel caso dovessero essere ritrovati sotto le macerie. Nominare quelle vite che non avrebbero mai dovuto andare perdute, significa riconoscerle come persone degne di lutto, ma, come rivela il campo di battaglia, non tutte le vite sono considerate vivibili.

L’11 novembre in un appello apparso su The Lancet le pediatre Ayesha Kadir eVinay Kampalath, Children Pay the Price of Our Silence, again, scrivevano:

Siamo indignate che un numero crescente di operatori sanitari e di difensori dei diritti dell’infanzia in questo momento non stanno facendo sentire la loro voce […] ancora una volta ci dobbiamo chiedere: quali vite contano? Ci poniamo la domanda perché vediamo che operatori sanitari e difensori dei diritti dell’infanzia stanno discutendo se intervenire o meno. Assumere il punto di vista dei diritti dell’infanzia richiede di dare lo stesso valore alla vita di ogni bambino e di astenersi da una retorica disumanizzante […]. Il silenzio uccide. La storia ci giudicherà per come stiamo rispondendo oggi – e i bambini del mondo ci guardano.

Non è solo il silenzio sulla sorte infantile ad essere inquietante, quanto piuttosto il modo con cui se ne parla che nega ai bambini palestinesi la loro stessa esistenza. Gli appelli per una risposta umanitaria che impone di “salvare vite innocenti”, l’uso del termine umanità come se fosse un significante vuoto, ha scritto Júlia Fernandez, ricercatrice di antropologia sociale all’Università di Edinburgo, rischiano di trasmettere una sorta di moralismo antipolitico che omette la drammatica realtà della dominazione coloniale, la sua pervasività e la sua lunga durata.

I bambini sono spesso considerati i rappresentanti di una pura, nuda umanità che trascende la politica. È facile spogliare i bambini della loro storia e della loro cultura ponendoli al di là dei razzismi, dei nazionalismi, dei progetti genocidari; è facile cancellare il contesto preciso in cui avviene la violenza: da quali bombe vengono uccisi? Cosa è accaduto prima? Come sono considerate le loro vite dal loro stesso governo e dal potere coloniale? Nell’immagine di vittime innocenti i bambini e le bambine reali spariscono e i loro corpi sofferenti necessitano di aiuto solo per obbligo morale.

Pensare i bambini come soggetti, persone nella concretezza del loro vissuto significa affrontare la struttura della violenza coloniale che si è abbattuta su di loro fondata sulla logica della eliminazione.

Nella razionalità dell’occupazione un bambino palestinese non è un bambino, ma un terrorista, uno scudo umano di Hamas, una perenne minaccia. L’ideologia coloniale non lo riconosce come entità da proteggere o come un soggetto detentore di diritti. Lo stato di Israele ha ratificato la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, ma è stato denunciato dall’Unicef per non averne sostenuto i principi e per non aver adottato una strategia nazionale e un programma per la sua implementazione; al contrario, i suoi rappresentanti hanno sostenuto tenacemente che la Convenzione non si applica ai territori occupati. I tentativi da parte delle organizzazioni dei diritti umani di estendere la protezione dei bambini attraverso l’applicazione dei meccanismi legali internazionali fino ad oggi è stata di scarso aiuto ai bambini palestinesi perché le loro vite e i loro corpi sono stati intesi in modo da escluderli da ogni considerazione etica.

Terroristi, “figli dell’oscurità”, piccoli serpenti

Sostenendo pubblicamente la punizione collettiva della popolazione di Gaza, il 16 ottobre la deputata israeliana Meirav Ben-Ari ha detto: “I bambini di Gaza se la sono cercata”. Il giorno successivo, il primo ministro israeliano scriveva su twitter: “Questa è una lotta tra i figli (children) della luce e i figli delle tenebre, tra l’umanità e la legge della giungla”. Luce e oscurità, umanità e ferocia, sono opposizioni irrisolvibili se non con l’annientamento di vite che sono considerate già perdute, poste “fuori dall’umanità”, in un luogo oscuro.

Neppure per Hamas le vite infantili hanno valore se non come linfa rivoluzionaria. Dodici giorni dopo il messaggio del primo ministro israeliano, il leader di Hamas Ismail Haniyeh, ha dichiarato: “L’ho detto e ripetuto molte volte: siamo noi ad avere bisogno del sangue dei bambini, delle donne e degli anziani per rinvigorire lo spirito rivoluzionario”. Nella retorica di Hamas i bambini sono stati generati per versare il proprio sangue; nella retorica del colonizzatore, essi sono carnefici. I bambini di Gaza non sono realmente vivi, ma spettri della minaccia pervasiva del terrorismo e della sua potenzialità di sviluppo. Essi sono “piccoli serpenti” secondo quanto detto dal ministro della Giustizia Ayelet Shaked nel 2015. Nella logica della sicurezza nazionale ogni bambino è disumanizzato; egli può essere violato, ucciso o lasciato morire impunemente. Della volontà del suo annientamento si è fatto emblema; lo rivelano i disegni che i soldati israeliani hanno scelto per le loro magliette indossate nel 2008-2009 nel corso della operazione Cast Lead e pubblicate dal giornale israeliano “Haaretz”. Una delle vignette ritrae una donna in stato avanzato di gravidanza, il suo ventre è al centro del mirino. “Uno sparo, due uccisioni” era scritto sotto l’immagine. In un’altra vignetta un bambino con un fucile tra le mani è anch’esso al centro di un mirino; la didascalia spiega: “Più piccoli sono e più sono accaniti”. Un’altra ancora ritrae l’immagine della morte che con la falce in mano sovrasta una figura femminile: “Ogni donna araba deve sapere che la vita di suo figlio è nelle mie mani”. Infine, campeggia su un’altra maglietta una madre palestinese che piange il suo bambino morto con accanto il suo orsacchiotto. Il messaggio è semplice: “Sarebbe stato meglio usare il preservativo”.

Gli incitamenti a bombardare, distruggere e annientare la popolazione di Gaza hanno spesso posto al centro la vita del bambino, come nella canzone intonata da un gruppo di manifestanti a Tel Aviv il 26 luglio 2014, il diciannovesimo giorno dell’aggressione a Gaza volta a incoraggiare lo stato a proseguire i bombardamenti.

A Gaza non si può più studiare
Là non ci sono più bambini
Non ci saranno scuole domani
Non ci sono più bambini a Gaza! Oleh!
Gaza è un cimitero.o
(Nadera Shalhoub-Kevorkian, Incarcerated Children and the Politics of Unchildling, 2019, p. 101).

Non è solo il linguaggio dei gruppi di estrema destra a inneggiare alla morte dei bambini, ma anche quello dei semplici soldati, dei comandanti militari, degli esponenti politici e del capo del governo. Anche i media usano lo stesso linguaggio e con orgoglio parlano di supremazia ebraica e di nazionalismo esclusivo, una supremazia che si è voluta affermare per decenni attraverso la politica demografica. I bambini, infatti, rappresentano la nazione, la sua vitalità e le sue speranze; essi stabiliscono la sovranità sulla terra, incarnano la politica razziale di riproduzione che è alla base del progetto di insediamento coloniale di Israele il cui successo è messo in pericolo dalla fertilità palestinese…

continua qui

 

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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