Abate, Bilotti, Biondillo, De Cataldo, Manzini, Michon, Simi

7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio

 

Giampaolo Simi

«Senza dirci addio»

Sellerio

392 pagine, 16 euro

Versilia. Settembre-ottobre 2018. Il bravo giornalista ex cronista di nera Dario Corbo racconta ora di quando mancavano appena due mesi al suo compiere i cinquant’anni, verso il crepuscolo dell’estate del 2018. Dopo la chiusura del giornale aveva divorziato, era tornato in Versilia, aveva incontrato Nora Beckford, è stato comunque capace di aiutare il figlio 18enne durante una storia terribile: pur non entrandoci nulla, Luca non aveva risposto all’interrogatorio e adesso è imputato per favoreggiamento in un caso di stupri e lesioni. Dario lavora per la ricca Fondazione della 45enne Nora, come braccio destro (ora c’è in ballo una fiction sulle note vicende del caso Calamai che le avevano imposto un lungo periodo in carcere), anche se fra loro c’è forse ormai vero amore senza sesso, lei non sopporta più di essere toccata, lui certo è innamorato. Va dal cardiologo, le analisi del sangue sono preoccupanti, l’amico gli mette un holter e sarà microchippato per tre anni. Nulla di preoccupante ma potrebbe salvargli la vita. Al processo il figlio viene dichiarato colpevole e condannato a due anni, riconvertibili in volontariato e divieto di spostamenti. Per stargli vicino la madre aveva affittato un appartamento a Marina di Pietrasanta ed era entrata nello staff della galleria d’arte gestita dalla rampante arrapata Maddalena Currè, ma la mattina della sentenza stranamente non si presenta in tribunale. Quella stessa sera un maresciallo dei Carabinieri avvisa Dario che Giulia Maiorino è rimasta coinvolta in un incidente, un furgoncino l’ha investita, è morta. Nessuno sospetta niente, ma Dario è diffidente sulle cause, la zona del ritrovamento evoca vicende inquietanti, e Luca è convinto ci sia di mezzo il nuovo compagno, un procuratore di calcio. Iniziano loro a indagare, separatamente, ed emergono nessi con loschi omicidi di nove anni prima, poi con speculazione edilizia, millanterie accademiche, scavi mancati di siti archeologici, traffico di reperti e scambisti. Si rischia.

L’ottimo scrittore e sceneggiatore toscano Giampaolo Simi (Viareggio, 1965), protagonista del Premio Camaiore di Letteratura Gialla dal 2003 al 2013, vincitore del Premio Scerbanenco nel 2015, prosegue una succosa serie di successo, narrata in prima dal protagonista. Dopo vent’anni professionali da nerista a Roma, Dario Corbo è ormai il consolidato direttore della comunicazione e delle relazioni esterne della Fondazione Thomas Beckford, il padre di Nora, grande notissimo scultore inglese. Deve evitare stress per ragioni di salute ma gli stress non lo scansano per ragioni altrettanto vitali. Era stato bene con Giulia, lo ha lasciato lei (imputandogli di essere un presbite affettivo) e lui si è convinto che a quel tempo “la felicità ha coinciso col non capire nulla, o quasi”. Ora né lui né Luca hanno potuto salutarla, neanche dirle addio (da cui il titolo del nuovo bel romanzo). Certo, da anni pensa sempre e solo alla magnifica Nora, occhi color nebbia e capelli neri, ma rispettarne gli interessi impone scelte audaci e amarla stanca, “è una marcia nel deserto”, difficile rifiutare altre attenzioni sessuali nel folle mondo delle mostre e dei vernissage. Del resto, se si frequentano artisti ci toccano psicolabili, l’autore e Dario ne sono ben consci: “tolga dalla storia dell’arte i depressi, gli ossessivi e gli psicotici, gli schizofrenici e gli antisociali… le toccherà eliminare, che so, Caravaggio, Van Gogh, Modigliani, Ligabue, Munch, Bacon e via andare. Senza pensare all’ego di gente come Picasso e Warhol…”. Già. Meglio trasgredire con ouzo e birra, lo champagne RD 2012 costa davvero troppo. Negli anni Novanta i Red-Hot-qualcosa piacevano (motivatamente) da matti a tutti gli amici di Dario, ora sono in sottofondo nel negozio dei surfisti, Luca e il padre forse avranno un futuro.

 

Michael Robert Michon

«Annotazioni su un caso delicato»

Castelvecchi

122 pagine, 15 euro

Bergamo. Ottobre 2007. L’ultrasessantenne Rodolfo Guarnieri è a colloquio con la signora Irma Zulìn nel salotto della pretenziosa villa sulle colline sovrastanti la Città Alta. Le dice che sta impostando la biografia del figlio Giorgio Valdameri, da poco morto suicida, per celebrarne da affettuoso amico (si sono conosciuti in Cina) le gesta imprenditoriali, essendo riuscito a trasformare un’attività modesta in un’industria all’avanguardia nella produzione di componenti elettronici (microchip di alta precisione), arrivata a fatturare oltre 240 milioni di euro, fiore all’occhiello della zona. Non ne ricava molto. Arriva anche il primogenito Guglielmo e cresce l’ostilità. Del resto, loro non sanno che Rodolfo in realtà è Sergio Segre, fino a cinque anni prima famoso ricco investigatore privato, ora ritirato a meritato riposo (a Sarnico sul lago d’Iseo dall’ottobre 2006, una suite in albergo), ma coinvolto dal 43enne commissario di Dalmine, Gaetano Triulzi, scrupoloso e sospettoso, incontrato in vacanza. I tenui dissapori sorti nella vita coniugale e qualche difficoltà nella gestione dell’azienda forse non giustificavano una grande depressione e il gesto disperato di buttarsi dal boscoso dirupo sopra una cascata. Il caso era stato archiviato, Sergio inizia a intrufolarsi sotto false identità e a spulciare documenti, contatta l’ex ragioniere contabile Federico Luosi, la domestica Emma e l’ex moglie Irina Petkovic (resasi irreperibile in Svizzera come Chiara Poli), informa segretamente e collabora con Triulzi per le verifiche. Sicuramente ci sono segreti e misfatti dietro le apparenze, falsità e ipocrisie: vale la pena andare fino in fondo.

L’imprenditore in pensione Michael Robert Michon (Londra, 1952) è cresciuto in Italia in seguito alla morte improvvisa del padre, presto coinvolto nei sani valori del movimento del Sessantotto, dai quali ha convintamente ereditato l’amore per la natura e per i viaggi (in Afghanistan nel 1972), la passione per libri e musiche. Dopo gli studi classici, ha avuto successo in campo produttivo, continuando a interessarsi di filosofia e psicologia. Giunge ora all’apprendistato nel romanzo, un testo breve, narrato in prima persona al passato dal protagonista (tendenzialmente seriale?), con frequenti introspezioni. Sergio aveva lavorato per vent’anni negli Stati Uniti al servizio di gente ricca e insospettabile o di multinazionali, collaborando con strutture di intelligence e con i federali, evitando ogni legame stabile, finché si era reso conto che si era spinto lontano dalle cose che contano davvero nella vita. Resta solitario e continua ad amare il suo (ex) lavoro, come un cane da tartufo verso il crimine, un investigatore in crisi di astinenza, sollecitato su un caso di delicate dinamiche familiari e affettive, da annotare e decifrare (da cui il titolo). L’opera è gradevole, ritmo lento e sconsolato sulle continue abiezioni della natura umana. Liquori artigianali, grappe, cognac in discreta quantità. La musica dei grandiosi scenari naturali.

 

Sara Bilotti

«Eden»

HarperCollins

380 pagine per 18,50 euri

Bologna. Di recente. Giulia Meyer decide di trasferirsi da Napoli a Bologna, la città della sorella Silvia, appena morta: non è convinta che si tratti di suicidio, soprattutto dopo aver ricevuto nella cassetta dell’università di cui è la bella docente più giovane, lei che si sente un nulla malleabile, abituata a ignorare occhiate fameliche, frecciatine viscide, cordialità ipocrite. Erano crescite insieme urlanti in una villa di Calau in Germania, poi ognuna per la sua strada. Al funerale aveva visto tanti colleghi di Silvia all’università di Bologna, quasi tutti anziani tranne due più giovani e belli: il mercante d’arte Lorenzi e il docente di Estetica Gabriele Giordani, proprietario di Eden, una meravigliosa villa. Scopre che Silvia aveva iniziato lì lavori di restauro su tele segrete e si era innamorata di Gabriele. Giulia comincia a frequentare proprio “Eden”, il nuovo bel giallo psicologico di Sara Bilotti (Napoli, 1971), fra paradisi e inferni, un poco artistici e molto terreni.

 

Gianni Biondillo

«I cani del barrio»

Guanda

400 pagine , 18 euro

Milano. Gennaio-febbraio 2020. Mentre sta segretamente iniziando a circolare in Lombardia un inedito virus, un tale denuncia prima ai carabinieri e poi ai poliziotti milanesi di aver subito un inspiegabile tentativo di omicidio. Era a caccia con i suoi due bracchi italiani, lo hanno bendato e gli hanno legato i polsi, buttato in un furgoncino, sballottato per ore con botte insulti minacce, fatto rotolare fuori e preso a calci e sputi, appoggiato al tronco di un albero del bosco con la canna di una semiautomatica alla guancia, finché casualmente un collega cacciatore non li ha visti e ha sparato loro contro qualche colpo a distanza. Si è trovato gettato in una scarpata e soccorso dolorante senza documenti. Si tratta del 46enne Fabrizio Ridolfi, laurea alla Bocconi, specializzazione a Londra, borsa di studio a Stanford, ricco potente imprenditore etico ostile al malaffare e in procinto di ricevere importanti incarichi istituzionali (quasi ministro, si dice). Nello stesso giorno l’ottimo malmostoso sarcastico disincantato ispettore Michele Chiodo Ferraro salva Marisol Ochoa, naturalizzata italiana. Dopo aver prenotato un tavolo a cena con l’amico Mimmo ‘O Animalo all’all you can eat sotto casa in via Padova e aver successivamente camminato per ore nel quartiere, avevano sentito urla femminili da dentro un’auto e bloccato il pericoloso rissoso sudamericano Ramón Hernadez che stava picchiando la donna 29enne, la quale ringrazia e il giorno dopo lo richiama e lo va a trovare al commissariato di via Satta a Quarto Oggiaro, chiedendo a lui e al collega Comaschi di ritrovare Carlo Pedro, il figlio 14enne scomparso, forse per problemi di droga, è disperata. Le indagini corrono parallele, con vari intoppi e intrecci, ci vorrà soprattutto Giulia, la pratica digitale social figlia universitaria di Ferraro, per sbrogliare quasi tutte le matasse, non senza correre pericoli.

L’architetto scrittore Gianni Biondillo (Milano, 1966) prosegue la bella felice serie Ferraro, iniziata quasi venti anni fa (2004) e giunta al nono bel romanzo (tralasciamo il giro per l’Italia della ex moglie dell’ispettore, Francesca con le amiche negli anni Ottanta, per sempre giovani), con un pubblico sempre ampio di affezionati lettori (e il Premio Scerbanenco 2011 assegnato al quarto), in mezzo a tante altre versatili scritture e narrazioni, anche no fiction e per quotidiani, cinema, televisione o teatro. Il testo è in terza varia al passato, imperniato sull’ispettore e i suoi legami, questa volta molto su Giulia e il complice nuovo bel rapporto fra il retrogrado attento padre e l’aggiornata sensibile figlia. Il titolo prende spunto dall’altra dinamica genitoriale madre-figlio di origini ecuadoregne, ovvero dai quartieri dove è difficile rendersi indipendenti (da vincoli e droghe), pieni di “bestie feroci, perros locos, cani del barrio. Pura razza bastarda”. La storia urbanistica e architettonica di Milano viene fuori a ogni angolo con curiosa competenza, molte sono le aree complesse e problematiche (da non definire “periferiche” nelle metropoli moderne) di cui scopriamo vicende edilizie e dinamiche sociali, protagoniste di eventi centrali e cruciali, due in particolare. Intorno al bosco di Rogoredo si spaccia ma c’è anche Don Marco che distribuisce cibo e calore (Ridolfi dà una mano), Nella grattacielosa CityLife si pippa e in alto pare quasi accada nella fiction (con Ridolfi dentro) quel che accadeva davvero alla “Terrazza sentimento” di Alberto Genovese (emerso alla cronaca nera nell’autunno 2020 e recentemente condannato a otto anni per due episodi di violenza sessuale). In entrambi i posti vanno aggiornati la geografia e il mercato di droghe, sesso e potere. I vezzi linguistici (“non ostante la mole”, “posa non differente”) richiamano l’attenzione su una prosa volutamente lenta, sempre ricca e curata, piacciano o meno. Forma e sostanza restano come sempre ottimi. Ferraro odia i libri gialli e impara la rilevanza di pagantelle e zarretti. Ridolfi li porta in una buona trattoria per camionisti, con un bottiglione di bonarda, vino fresco e leggero. C’è una cagnolona festosa in alto in copertina (insieme allo spacciatore tatuato, in primo piano), avrà nome Billie come l’adorabile cantante Holiday.

 

Antonio Manzini

«La mala erba»

Sellerio

356 pagine, 15 euro

Colle San Martino, trecento abitanti in provincia di Rieti. Marzo e aprile 2009. La graziosa 17enne Samantha De Santis, occhi neri e chioma riccia altrettanto corvina, bel sano corpo, padre Enzo brav’uomo disoccupato e madre Marinella che non sopporta, bravina in matematica e discreta lettrice ma distratta negli studi (sogna di fare veterinaria a Perugia uscendo così per la prima volta dalla regione), è molto irrequieta. Sale anche quel sabato sulla corriera per andare da una frazione al liceo nel capoluogo, ma scende subito prima della provinciale per poi proseguire in motorino (come quasi sempre) con l’amica del cuore Nadia Benetti, l’unica a sapere che ha la mente invasa dai (cattivi) pensieri. Le mestruazioni sono in ritardo di almeno dieci giorni, ha scopato con un fidanzatino compagno di classe che nemmeno le piace e che in genere sta attento Sarebbe una iattura, il paesino è ai margini di tutto, ogni novità passa di bocca in bocca, nessuno si può nascondere, ci si chiude in casa alle sette di sera, lei vorrebbe scappare prima possibile, farsi lontano una vita autonoma e metropolitana, ma la famiglia è povera e indebitata con il vero padrone del borgo, che domina dal grande antico Palazzo in piazza. Si tratta del cinico e baro 63enne Cicci Bellè, estranea moglie Carmela sottomessa e malata (cerca di nasconderlo), immaginario erotico dominato dalla ex (piccola) star televisiva Glenda Solinas (mai incontrata), caro figlio Mariuccio 32enne ritardato (inoltre si masturba compulsivamente, soprattutto quando vede Samantha dalla finestra), proprietario di una Mercedes SL 350 e praticamente di tutti gli immobili del paese (del resto, lì a stipendio fisso sono solo in tre). Ha lo schedario di affitti e prestiti: con la sola terza media tiene tutti in pugno da strozzino, anche l’allampanato furbo padre Graziano, che pure ha i suoi segreti. Le nubi si addensano, ci si inerpica in Appennino sul Monte Cambio, è freddo, si cacciano i cinghiali e potrebbero arrivare lupi, i drammi terreni incombono.

Un altro splendido romanzo. Dal 2013 l’attore e regista Antonio Manzini (Roma, 1964) è divenuto uno degli scrittori italiani più seguiti e apprezzati, famoso per gli undici godibilissimi volumi (oltre a vari racconti) dell’eccelsa sospesa serie Schiavone e per le relative serie televisive. Ha realizzato belle storie anche prima e dopo, iniziando come regista e sceneggiatore, poi con una pièce per il teatro, “Sangue Marcio” (2005), cui era seguito “La giostra dei criceti” (2007) e altri romanzi duri e di vario genere come i recenti “Gli ultimi giorni di quiete” (2020) e questo “La mala erba” (fine settembre 2022), impostati e parzialmente scritti prima di Schiavone, completati e pubblicati ora. Il titolo fa riferimento allo strozzino, “a forza di ammazzare tutto quello che ha intorno, poi muore”, e si estende a ciò che ognuno vorrebbe tagliare delle altrui cattiverie o malignità che lo riguardano, all’insieme delle relazioni perfide di cui non di rado ci dotiamo, quasi tutti ipocriti e menzogneri, relegati a dover essere o diventare lupi e lupe, con solitarie disperazioni senza fondo, soprattutto nelle dinamiche arcaiche, povere sia familiari che civili, di quel paesino inventato (nelle campagne e colline laziali dove l’autore vive). Il noir dolente di Manzini è qui portato all’ennesima potenza; in parte caratterizza anche la serie del vicequestore, una spirale mortale che non prevede redenzione o solidarietà. Prevale sempre e solo l’istinto di sopravvivenza: un provvisorio lieto fine per qualcuno comporta comunque la consapevole devastazione fisica e morale di altri, qui non necessariamente per il tramite di reati penali e di indagini criminali. Il romanzo è ricco di episodi avvincenti e colpi di scena, comunque compiacere i lettori non è la priorità. Manzini spiega che aveva iniziato a scriverlo nell’aprile del 2009, poi la ristesura recente è stata quasi totale. Tutto avviene in terza persona al passato, varia su tanti protagonisti (sono citati decine dei residenti, talora con ruoli importanti, avviluppati negli accadimenti, dagli equilibrati Primo, Ida e Fulvio alla misteriosa bionda Ljuba col figlio, ai vari professori e studenti della scuola, fra cui i coinvolti ragazzi Roberto e Stefano): una narrazione corale, nella quale tocca alla volitiva Samantha rimescolare le carte, per forza di cose; connettere famiglie e generazioni; piegarsi alla legge del più forte e provare a ribaltare i ruoli reciproci di vittime e carnefici, nel bene (poco) e nel male. Quando ci si sposa il barista Pinuccio offre a tutti un bicchiere di prosecco. I ragazzi hanno aggiornati gusti musicali, se la radio manda casualmente in onda Amore disperato, Mariuccio annuisce (o dondola) accanto al padre.

 

Giancarlo De Cataldo

«Dolce vita, dolce morte»

Rizzoli

160 pagine, 14 euro

Roma, primavera 1963. Marcello viene svegliato da Marianne, la suoneria del telefono fa un rumore infernale, sono le tre del pomeriggio e il caporedattore gli chiede di andare subito al giornale perché serve un pezzo di colore sulla morte della 22enne Greta Müller, tedesca di Monaco di Baviera, occhi luminosi e capelli biondo maturo, aspirante attrice o modella, seducente e sbevazzona, in grado di parlare anche italiano, inglese e francese. Neppure sanno che lui l’ha conosciuta bene, amante dolce e arrendevole, non troppo fantasiosa. Le sono state inferte sette coltellate sul pianerottolo di una modesta pensione in via Emilia, dov’era ospite dell’amica Elizabeth, che non l’ha sentita gridare. Poche e vaghe le testimonianze e gli indizi, il commissario Carelli indaga, interroga, confronta, ma non ha piste certe. Il trentenne Marcello Montecchi è molto attraente, ambizioso ma indolente, disinteressato alla politica e ai pettegolezzi, scrive bene e ha l’abbozzato progetto (non in calendario) di un grande romanzo. L’aveva incontrata il giugno precedente in via Veneto, avevano flirtato un poco, dopo una settimana erano finiti a letto, tornandoci quasi ogni sera per oltre un mese; lui conosce tutta la Roma che conta e le aveva presentato stilisti registi produttori; poi, quando era andato a trovare una settimana il padre sull’Adriatico, lei si era messa con un altro, facendosi risentire solo a ottobre prima di una sfilata. Erano restati amici, il bel Marcello era abituato (solo) alle storie passeggere finché a febbraio aveva conosciuto Marianne che era presto andata a convivere, lui finalmente un poco innamorato della modella cantautrice di Oslo dagli occhi verdi, che si sente anarchica e odia i fascisti. Per una ventina di giorni l’omicidio tiene banco sui giornali e nelle conversazioni, poi finisce nell’oblio. Eppure a primavera 1964, nell’autunno 1974 e a primavera 1988 il cresciuto Marcello viene di nuovo chiamato in causa da notizie e novità sul delitto, forse ancora insoluto.

Il grande prolifico scrittore italiano Giancarlo De Cataldo (Taranto, 1956), ormai in pensione da magistrato, ha sempre avuto una passione per i fitti misteri, i delitti veri, le cronache criminali romane. Questa volta ci consegna una bella novella nera (è anche il titolo della collana) con mille rimandi e immaginari, storici e cinematografici. Siamo ai fertili e mortali tempi della dolce vita (da cui il titolo, l’omaggio a Fellini è costante in tutte le pagine), via Veneto e Marcello Mastroianni sono in campo. Il reale cold case è il delitto di Christa Wanninger (1940) del 2 maggio 1963, un fatto di sangue intorno al quale si ipotizzarono le piste più svariate, dal serial killer alle trame nere, dai Nazisti allo spionaggio. La verità giudiziaria della Corte di Cassazione nel 1988 attestò definitivamente la responsabilità dell’oscuro pittore aversano Guido Pierri, dopo che lui stesso nel 1964 si era fatto avanti con un giornalista affermando di saperne qualcosa, nonostante fosse ritenuto incapace di intendere e di volere (poi non andò in carcere) e si sia comunque sempre dichiarato innocente (e sano di mente, poi sposatosi). Vere sono le strade e i locali, il clima dei paparazzi e gli umori degli intellettuali (alcuni incontrati dal protagonista, come Pasolini e Moravia), il contesto politico e culturale, le cerchie e le truffe di Roma, le dinamiche nei quotidiani e nelle tipografie dell’epoca (senza internet, cellulari, social). Quasi tutto il resto è ottima fiction (contando anche sui ricordi personali, da un certo momento in poi). Marcello fa strage di cuori ma è un giornalista (non un attore) che evolverà nelle relazioni (soprattutto quando arriva il padre Radames) e nella specifica carriera; Marianne è la musa Anita delle dolci notti ma poi partirà, farà l’artista concettuale a New York e infine proprio la cantautrice girovaga; l’intreccio è noto ma la fine storicamente incerta, il giallo virerà sul noir romantico (l’amore travagliato per la città d’adozione); i colpi di scena vengono scadenzati in quattro parti per i differenti periodi delle notizie sulle indagini, ma i fili delle biografie risulteranno poi tirati con maestria autorale (e risalta il piccolo untuoso Momo Sangiacomo). Pinot grigio con il pesce ai Parioli come si usava nei ’70. Negli stessi giorni la travolgente amante giovane gli fa ascoltare Alice di De Gregori, spiegando: “questo ragazzo cambierà la musica italiana”, Marcello non è molto seriosamente convinto del testo.

 

Francesco Abate

«Il complotto dei Calafati»

Einaudi

262 pagine per 17,50 euro

Cagliari. Ottobre 1905. Due ragazzacci inseguono il compare bandito Anima Niedda, anziano e malvagio, fra cunicoli, pozzi, buchi, fuochi, slarghi e snodi, nell’immensa rete montana sotterranea della necropoli punica di Tuvixeddu, la tana dove si nasconde. Gli sparano nella Grotta della vipera, lo mancano, lui fugge nell’oscurità ma fa un passo falso, precipita urlando, muore. Il mondo criminale organizzato nel cagliaritano può riorganizzarsi. Sono i giorni del terremoto in Calabria, avvenuto nella notte tra il 7 e l’8 settembre; anche in Sardegna parte la raccolta di fondi di solidarietà, a Cagliari ne sono organizzate almeno due, una da parte di ricchi aristocratici, una da parte di sindacalisti socialisti. La bella 21enne osteggiata giornalista Clara Simon, figlia di un capitano della marina militare regia (dato per morto) e di una cinese del porto (morta dandola alla luce), adottata dal 76enne potente nonno armatore Ottavio, partecipa a quella del fior fiore della borghesia e della nobiltà a Villa Pernis, ha l’incarico di raccontare l’evento ai lettori dell’”Unione”. Mentre il suo caro amico e collega di cronache Ugo Fassberger, anche lui mezzosangue ma ben accetto e dai capelli rossi, conversa con la bionda simpatica ereditiera Elvira, lei coglie l’occasione per parlare con Michelangelo, cugino del padrone di casa, funzionario dell’ambasciata italiana in Cina, sbarcato da poco e disponibile a tenerla informata sui reduci dispersi (lei è convinta che il padre non sia deceduto). Analoga raccolta benefica si svolge al magazzino deposito di formaggi, il “Gran ballo popolare pro Calabria”, presenti altri amici legati a Clara e l’avvocato Mario Tucci, delegato dal comitato nazionale del Partito socialista appena giunto dal continente. Quella notte, in un agguato di ritorno dalla prima festa, vengono uccisi i chiacchierati baroni Cabras di Oristano con l’autista, malandato ma vivo resta solo il conte Cappai Pinna, padrone di mezza città, emblema dell’arrogante intreccio di affari e potere. Chi è stato e perché?

L’ottimo giornalista e scrittore Francesco Abate (Cagliari, 1964) prosegue la serie e narra un’altra avventurosa storia di oltre un secolo fa: il porto di mare e il Poetto da ripensare, i disastri e la beneficienza, gli strozzini e la varia malavita, i poteri forti e la lotta di classe, le piste politiche e le strade del denaro, sigaraie e operai, lavoro giovanile e dinamiche giornalistiche (con l’insopportabile vice direttore). I maestri calafati sono operai specializzati nelle costruzioni e manutenzioni navali, talvolta si dedicano anche ad altro (da cui il titolo). La narrazione è in terza varia, prevalentemente sull’indomita Clara, capace pure di inforcare una bicicletta motorizzata (da cui la copertina). Lei intende andare a Napoli per verificare meglio cosa è accaduto al padre, intanto resta ancora incerta (sempre attenta alle relative attraenti schermaglie) rispetto alla scelta sentimentale (con chi far coppia). Continua certo a interessarle l’investigatore ufficiale, il giovane tenente dei carabinieri Rodolfo Saporito, baffi e pizzetto d’ordinanza, labbra scure e carnose, stregato dall’affascinante ragazza e forse ricambiato. La ricostruzione delle vicende urbanistiche d’inizio Novecento è accurata; l’autore ha fatto affidamento e cura di vecchie foto di famiglia, filmati e giornali d ’epoca, saggi e guide. Troviamo un interessante spaccato di storia, non solo sarda: povertà, malattie, fame, voglia di riscatto e fermenti rivoluzionari nei confronti sia dell’aristocrazia borghese che del maschilismo imperante, i risvolti internazionali dell’epoca (qui il triste coinvolgimento italiano nella ribellione dei Boxer). Lo stile appare raffinato e godibile; anche il piglio è fresco, ironico e divertente, con gli opportuni salti di tensione, pur se nell’intreccio abbondano gli aspetti prevedibili della commedia gialla. Segnalo il cenno al grande Sebastiano Satta, a pag. 207. I Pernis hanno le vigne, vino e acquavite servono a tutti. Valzer, mazurka e ballu tundu, a ballare ci si intende meglio che con le parole delle lingue diverse.

 

Redazione
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