La voce di Hind Rajab e Testa o croce? in sala. A seguire un invito al boicottaggio dei film, e non solo, israeliani; Federico Greco racconta il potere della lobby sionista nel cinema; e anche un bel film “de paura” (direbbe Corrado Guzzanti) su Raiplay per chiudere con una piccola nota sulle flotille ma del 1940…
(visti da Francesco Masala) La voce di Hind Rajab e Testa o croce? in sala. A seguire un invito al boicottaggio dei film, e non solo, israeliani; Federico Greco racconta il potere della lobby sionista nel cinema; e anche un bel film “de paura” (direbbe Corrado Guzzanti) su Raiplay per chiudere con una piccola nota sulle flotille ma del 1940…
La voce di Hind Rajab – Kaouther Ben Hania
il film è semplice semplice, drammaticamente semplice, una bambina che non vuole morire è sotto il tiro dei soldati nazifascisti israeliani a Gaza.
il film è tutto al telefono, con la voce vera di Hind Rajab, che chiede aiuto alla Mezzaluna Rossa, che non riuscirà a salvarla.
gli attori sono bravissimi, non riescono a non essere coinvolti dalla telefonate della bambina.
Hind è in mezzo a un genocidio, quegli assassini sparano a tutto e a a tutti, personale sanitario e delle ambulanze per primi.
non c’è molto da dire, solo che è un film da non perdere.
ps: negli ultimi anni sono apparsi due bei film europei tutti al telefono: Il colpevole (Guilty) e Locke
Testa o croce? – Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis
in Maremma scoppia una rivolta, siamo negli anni successivi all’unità d’Italia, i poveri si ribellano, e finiscono male, come quasi sempre.
Santino (un addestratore di cavalli) e Rosa (una moglie oppressa dal marito-padrone che uccide l’aguzzino) fuggono inseguiti dai cani e dai soldati, oltre che da Buffalo Bill.
i due protagonisti sono bravissimi, e i due registi pure, il film è pieno di citazioni di tanti film importanti (che non danneggiano la linearità della storia).
in fondo il film è un western, il solito vecchio western pieno di una morale d’altri tempi.
Non c’è dubbio che il boicottaggio culturale di Israele danneggerà non solo i fascisti, ma anche le persone buone e coraggiose. E allora? È un piccolo prezzo da pagare per porre fine a un genocidio.
Quanto è stata grande la delusione e quanto profonda la rabbia di alcuni miei colleghi della comunità del cinema e televisione israeliani nel leggere la lettera promossa e redatta dalle note documentariste Ada Ushpiz e Yulie Cohen e firmata da oltre 50 artisti israeliani!
La lettera intende trasmettere un messaggio inequivocabile e chiaro, anche se complesso e sorprendente, a tutti coloro che in questo momento stanno boicottando Israele. Il messaggio? Siamo con voi fino in fondo!
Lo Stato di Israele, attraverso il suo esercito, nel quale prestano servizio i nostri figli, nipoti, vicini, studenti, e con l’aiuto del denaro proveniente dalle tasse che tutti noi paghiamo, sta attualmente massacrando un’altra nazione. La sta annientando, e sta condannando chiunque non sia ancora stato ucciso a una vita di esilio perpetuo. E non mostra alcuna intenzione di fermarsi. Al contrario: più Israele uccide, più diventa assetato di sangue. Il numero dei morti nella Striscia di Gaza è equivalente, in proporzione, a 10 milioni di abitanti degli Stati Uniti. Un olocausto.
Più di 65.000 neonati, bambini, donne, uomini e anziani nella Striscia di Gaza sono stati uccisi dai “nostri figli migliori”, e sempre più palestinesi stanno esalando il loro ultimo respiro in questo preciso momento a causa delle malattie, dopo che gli ospedali in cui erano in cura sono stati bombardati dai piloti dell’aeronautica militare. Oppure stanno morendo di sete e di fame, in conseguenza della campagna di vendetta e punizione collettiva che Israele sta imponendo a tutti i palestinesi della Striscia, senza pietà e indiscriminatamente.
A causa di questo orrore, che nulla al mondo può giustificare, nemmeno il terribile massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre, all’estero sempre più istituzioni israeliane sono ormai oggetto di una rabbia feroce. Cosa c’è di più naturale del boicottaggio di qualsiasi istituzione pubblica sostenuta dal sanguinario governo dello Stato di Israele e dell’ostracismo di qualsiasi opera finanziata dalla sadica organizzazione terroristica chiamata governo di Israele, guidata da mafiosi [in italiano nel testo, ndt.] assetati di sangue? Cosa c’è di più ovvio dell’onorare, rispettare e incoraggiare chiunque si rifiuti di legittimare i parassiti genocidi e di normalizzare i crimini ripugnanti dello Stato di Israele collaborando con i suoi alleati?
Sono un documentarista e, per finanziare i miei film, ho fatto domanda – e continuo a farlo – per ottenere i fondi cinematografici locali. In questo modo, anche se a volte ciò avviene loro malgrado e in contrasto con la visione del mondo di molti dei responsabili, finisco anch’io, insieme a loro, per essere parte del sostegno al governo israeliano. Abbraccio tutti coloro che scelgono di non proiettare i miei film, e li ringrazio per questo.
Ciò è chiaro e ovvio, nonostante la complessità e la contraddizione interna che ne deriva. Dopo tutto, l’utilità dei nostri film, come ben spiegato da Cohen e Ushpiz, è insignificante di fronte al colossale disastro di cui il nostro Paese è responsabile, e non abbiamo né il diritto né la possibilità di negare la nostra parte di partecipazione a questo inferno. È nostro dovere accettarne la responsabilità.
Trovo quindi sconcertante il teatrino che si è svolto la scorsa settimana all’interno della comunità cinematografica locale, dopo che uno dei suoi membri ha pubblicato su Facebook un post meschino, mendace e manipolatorio in cui attaccava coloro che avevano firmato la lettera. Il nostro unico obiettivo era quello di rafforzare la posizione delle migliaia di artisti internazionali che hanno recentemente dichiarato che, alla luce dell’olocausto che Israele sta perpetrando a Gaza e in Cisgiordania, boicotteranno ogni istituzione israeliana in quanto tale e ogni casa di produzione israeliana “che sostiene il genocidio e l’apartheid”.
Non c’è dubbio che il boicottaggio culturale di Israele, che non solo comprendo, ma incoraggio (come parte di ogni opposizione al genocidio che Israele sta compiendo), danneggerà non solo i fascisti e i collaboratori del regime sionista, ma anche persone valide e coraggiose, come le donne che hanno promosso la lettera e coloro che l’hanno firmata. E allora? È un piccolo prezzo da pagare per chiunque ritenga necessario fare tutto il possibile per fermare il genocidio, e non c’è altra alternativa che pagare quel prezzo, nonostante il disagio che comporta.
Anch’io – da persona che non usa mezzi termini né esita a esprimere pubblicamente la propria opinione, che si oppone con tutta se stessa al servizio militare nell’IDF, aspira al crollo dell’entità sionista così come è attualmente costituita, e i cui migliori amici nell’industria cinematografica locale sono tra i critici più severi dello Stato di Israele – sono favorevole al boicottaggio dei miei film, fintanto che il Paese che li finanzia continuerà a uccidere una nazione, a trasferire popolazioni, ad aggravare l’apartheid e a diffondere odio, sangue e morte.
Dopo tutto, non è possibile separare le istituzioni e le produzioni ideologicamente contrarie al regime e ai suoi crimini da quelle che lo sostengono, mentre cercano di rimanerne indenni. Non è realistico. Chiunque si opponga al genocidio perpetrato da Israele non ha la possibilità di fare una distinzione del genere e si rapporta allo stesso modo con chiunque utilizzi il denaro dello Stato. Ci aspettiamo davvero che qualcuno dedichi risorse ed energie a fantomatici esami di ammissione al movimento internazionale per il boicottaggio? No, è semplicemente irrealistico.
Il compito più urgente in questo momento è fermare immediatamente il genocidio del popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e garantire che il mondo intero sia consapevole di questo crimine, affinché presti attenzione e agisca per fermarlo. Quasi tutti i mezzi sono leciti per raggiungere questo nobile obiettivo, compresa una petizione che chiede il boicottaggio delle istituzioni ufficiali israeliane.
Ci siamo guadagnati questo boicottaggio a pieno titolo, poiché noi, che lo vogliamo o no, per scelta o per imposizione, siamo parte di questo crimine. Pertanto è nostro dovere morale sostenere chiunque si opponga e miri a fermarlo. Anche se questo va contro i nostri interessi personali, e anche se alcuni dei nostri bambini (film) di sinistra e umanisti verranno gettati insieme all’acqua sporca dei nostri avversari. Cosa è questo rispetto alle migliaia di bambini (bambini umani, reali) che Israele sta uccidendo da quasi due anni?
Nel 1940 una flotilla di barche di civili (qui) partì dall’Inghilterra verso Dunkerque, per salvare, e ci riuscirono, migliaia di soldati britannici e francesi dai soldati nazisti (nel film Dunkirk il salvataggio è ricostruito), i civili sulle barche erano eroi, i civili sulla flotilla Sumud invece li chiamano terroristi, e se va bene solo irresponsabili.
La spiegazione è semplice, nel 1940 i nazisti erano nemici, adesso i nazisti sono i nostri amici e alleati.
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.
L’oscenità che si finge opinione: la vergogna firmata Mariarosa Mancuso
Ci sono parole che non si possono commentare con pacatezza. Ci sono parole che gridano vendetta, perché violano non solo l’etica del giornalismo, ma il cuore stesso dell’umanità. Quelle scritte da Mariarosa Mancuso sul Foglio appartengono a questa categoria. E non possono essere lasciate scivolare via come una goccia di fango sul vetro: vanno chiamate per quello che sono.
Oscenità. Disumanità. Complicità.
Parliamo di Hind Rajab, una bambina di cinque anni, assassinata a freddo dall’esercito israeliano mentre implorava aiuto, intrappolata in un’auto, sotto il fuoco dei blindati. La sua voce spezzata, trasmessa in diretta via radio, è diventata il simbolo del genocidio in corso a Gaza. E davanti a questo strazio, Mancuso ha avuto il coraggio – o meglio, la crudeltà ideologica – di commentare così:
“È morta perché i soccorsi non sono arrivati in tempo”.
Non è solo una frase cinica. È una menzogna deliberata. È una cancellazione delle responsabilità, un’aberrazione che trasforma un crimine di guerra in un banale errore di gestione. È l’applicazione fredda di una narrazione tossica che punta sempre a spostare il fuoco: non chi ha sparato, ma chi non ha “salvato”. E così, l’assassino scompare. E la vittima viene archiviata in silenzio.
Ma non è finita qui. Perché in un’altra parte dell’articolo pubblicato dal Foglio, Mancuso scivola ancora più in basso, quando scrive:
“Di lì a qualche anno le avrebbero imposto di non mostrare neppure una ciocca di capelli”.
Con questa frase, l’insulto alla memoria di Hind si fa ideologico. La sua morte non solo viene sminuita: viene persino strumentalizzata per attaccare l’Islam, la cultura palestinese, e legittimare implicitamente il colonialismo israeliano. Secondo Mancuso, dunque, l’orrore non è che Hind sia stata uccisa da soldati armati, ma che – se fosse sopravvissuta – avrebbe potuto vivere in una cultura dove si indossa il velo.
Questa è islamofobia travestita da emancipazione. È razzismo mascherato da femminismo.
Ecco che riemerge la vecchia retorica coloniale, quella che da decenni giustifica guerre, bombardamenti e occupazioni nel nome della “liberazione delle donne”. Come denunciato da Laetitia Tamburrino di Memo Films, questa stessa logica è codificata nei documenti del Pentagono come arma di guerra culturale: il femminismo liberale usato come grimaldello per penetrare e distruggere i tessuti sociali dei paesi non allineati.
“Che una giornalista italiana vi si inserisca inconsapevolmente non sorprende: non conosce i documenti, non padroneggia la materia, ma ripete meccanismi retorici consolidati”, scrive Tamburrino.
Ed è qui che la questione si fa politica, culturale e generazionale. Perché The Voice of Hind Rajab – il film-documentario che ha emozionato il pubblico della Mostra del Cinema di Venezia con 23 minuti di applausi ininterrotti – è stato vissuto da molti giovani della Generazione Z come un punto di svolta. Una presa di coscienza. Un “basta” collettivo alla propaganda, al razzismo istituzionale, al giornalismo servile.
Eppure, per Mancuso, tutto questo non è che un fastidio. Una sbavatura nel copione. Uno spettacolo da ridicolizzare, con frasi da bar sport geopolitico che suonano più come tweet da troll che come riflessioni da pubblicare su una testata nazionale.
“Nessuno ha ricordato la carneficina del 7 ottobre”, aggiunge, mescolando senza pudore due tragedie per giustificare l’indifendibile.
Ma il punto non è neanche più se Mancuso conosca davvero i fatti. Il punto è che sta giocando con le parole come si gioca con le vite. Che pretende di ridurre un genocidio a uno scontro di opinioni. Che usa il dolore di una bambina come palcoscenico per la propria propaganda.
E questo non può passare.
Non possiamo permettere che le nostre redazioni diventino fogne ideologiche dove si spaccia per giornalismo la più torbida delle disumanità. Non possiamo tollerare che in Italia si possa infangare impunemente la memoria di una bambina uccisa, solo perché è palestinese, solo perché è musulmana, solo perché – forse – avrebbe messo il velo.
Chi fa questo non è un giornalista.
Non è un’opinionista.
È un mostro travestito da penna.
E chi tace, acconsente.
Chi lascia passare queste parole, diventa complice.
Perché, come diceva Hannah Arendt, il male peggiore non è quello gridato, ma quello normalizzato.
Fonti e riferimenti:
• Post e commenti di Andrea Scanzi e Alessandro Robecchi
• Articolo di Laetitia Tamburrino su Speaker’s Corner, 8 settembre 2025
• Frasi di Mariarosa Mancuso pubblicate su Il Foglio, settembre 2025
• Documento del Dipartimento della Difesa USA “Women, Peace, and Security Implementation Plan”
• Report ONU e ONG internazionali sul genocidio in Palestina (2023–2025)
(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com
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L’oscenità che si finge opinione: la vergogna firmata Mariarosa Mancuso
Ci sono parole che non si possono commentare con pacatezza. Ci sono parole che gridano vendetta, perché violano non solo l’etica del giornalismo, ma il cuore stesso dell’umanità. Quelle scritte da Mariarosa Mancuso sul Foglio appartengono a questa categoria. E non possono essere lasciate scivolare via come una goccia di fango sul vetro: vanno chiamate per quello che sono.
Oscenità. Disumanità. Complicità.
Parliamo di Hind Rajab, una bambina di cinque anni, assassinata a freddo dall’esercito israeliano mentre implorava aiuto, intrappolata in un’auto, sotto il fuoco dei blindati. La sua voce spezzata, trasmessa in diretta via radio, è diventata il simbolo del genocidio in corso a Gaza. E davanti a questo strazio, Mancuso ha avuto il coraggio – o meglio, la crudeltà ideologica – di commentare così:
“È morta perché i soccorsi non sono arrivati in tempo”.
Non è solo una frase cinica. È una menzogna deliberata. È una cancellazione delle responsabilità, un’aberrazione che trasforma un crimine di guerra in un banale errore di gestione. È l’applicazione fredda di una narrazione tossica che punta sempre a spostare il fuoco: non chi ha sparato, ma chi non ha “salvato”. E così, l’assassino scompare. E la vittima viene archiviata in silenzio.
Ma non è finita qui. Perché in un’altra parte dell’articolo pubblicato dal Foglio, Mancuso scivola ancora più in basso, quando scrive:
“Di lì a qualche anno le avrebbero imposto di non mostrare neppure una ciocca di capelli”.
Con questa frase, l’insulto alla memoria di Hind si fa ideologico. La sua morte non solo viene sminuita: viene persino strumentalizzata per attaccare l’Islam, la cultura palestinese, e legittimare implicitamente il colonialismo israeliano. Secondo Mancuso, dunque, l’orrore non è che Hind sia stata uccisa da soldati armati, ma che – se fosse sopravvissuta – avrebbe potuto vivere in una cultura dove si indossa il velo.
Questa è islamofobia travestita da emancipazione. È razzismo mascherato da femminismo.
Ecco che riemerge la vecchia retorica coloniale, quella che da decenni giustifica guerre, bombardamenti e occupazioni nel nome della “liberazione delle donne”. Come denunciato da Laetitia Tamburrino di Memo Films, questa stessa logica è codificata nei documenti del Pentagono come arma di guerra culturale: il femminismo liberale usato come grimaldello per penetrare e distruggere i tessuti sociali dei paesi non allineati.
“Che una giornalista italiana vi si inserisca inconsapevolmente non sorprende: non conosce i documenti, non padroneggia la materia, ma ripete meccanismi retorici consolidati”, scrive Tamburrino.
Ed è qui che la questione si fa politica, culturale e generazionale. Perché The Voice of Hind Rajab – il film-documentario che ha emozionato il pubblico della Mostra del Cinema di Venezia con 23 minuti di applausi ininterrotti – è stato vissuto da molti giovani della Generazione Z come un punto di svolta. Una presa di coscienza. Un “basta” collettivo alla propaganda, al razzismo istituzionale, al giornalismo servile.
Eppure, per Mancuso, tutto questo non è che un fastidio. Una sbavatura nel copione. Uno spettacolo da ridicolizzare, con frasi da bar sport geopolitico che suonano più come tweet da troll che come riflessioni da pubblicare su una testata nazionale.
“Nessuno ha ricordato la carneficina del 7 ottobre”, aggiunge, mescolando senza pudore due tragedie per giustificare l’indifendibile.
Ma il punto non è neanche più se Mancuso conosca davvero i fatti. Il punto è che sta giocando con le parole come si gioca con le vite. Che pretende di ridurre un genocidio a uno scontro di opinioni. Che usa il dolore di una bambina come palcoscenico per la propria propaganda.
E questo non può passare.
Non possiamo permettere che le nostre redazioni diventino fogne ideologiche dove si spaccia per giornalismo la più torbida delle disumanità. Non possiamo tollerare che in Italia si possa infangare impunemente la memoria di una bambina uccisa, solo perché è palestinese, solo perché è musulmana, solo perché – forse – avrebbe messo il velo.
Chi fa questo non è un giornalista.
Non è un’opinionista.
È un mostro travestito da penna.
E chi tace, acconsente.
Chi lascia passare queste parole, diventa complice.
Perché, come diceva Hannah Arendt, il male peggiore non è quello gridato, ma quello normalizzato.
Fonti e riferimenti:
• Post e commenti di Andrea Scanzi e Alessandro Robecchi
• Articolo di Laetitia Tamburrino su Speaker’s Corner, 8 settembre 2025
• Frasi di Mariarosa Mancuso pubblicate su Il Foglio, settembre 2025
• Documento del Dipartimento della Difesa USA “Women, Peace, and Security Implementation Plan”
• Report ONU e ONG internazionali sul genocidio in Palestina (2023–2025)
(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com