Detto e non detto del signor G – di Mark Adin
Cosa poter dire ancora su Giorgio Gaber, dopo che i mezzi di informazione hanno fatto a gara nel riproporci ogni sua opera, ogni dettaglio, proponendoci caleidoscopi di canzoni e interviste e apporti biografici e quadretti familiari: che si può dire di più?
Certo anche nelle rassegne più complete vi è sempre un non detto, perché quando un’anima è grande è fatta per sfuggirci, per non farsi mettere a terra, per continuare a volare: è un uccello che non si posa mai, perché se lo facesse si esporrebbe al cacciatore.
Non sorprende che, almeno così mi risulta, nella maratona televisiva non sia stata eseguito, fra i tanti, un pezzo importante della produzione vastissima di Gaber e Luporini, una specie di pietra miliare, se non fugacemente citato in rare interviste della carta stampata: una canzone che non trovò una collocazione di mercato e che Giorgio volle caparbiamente uscisse, si dice a sue spese, purchè fosse conosciuta. Un’opera eretica rispetto alla sua consueta produzione artistica e assolutamente unica nel panorama musicale di allora. Fu pubblicata in uno dei momenti più difficili del secolo breve, nel quale l’Italia scricchiolava. Rileggerlo oggi può non essere facile se non lo si contestualizza: per questo provo a mettere insieme qualche elemento utile.
Era il 1980 (il disco uscì ad agosto di quell’anno).
La cornice temporale era opprimente, carica di tensione, violenta, e certe cose non si potevano né si dovevano dire. Si chiamavano i cittadini alla conta, obbligando tutti a schierarsi su fronti contrapposti, e chi non voleva farlo era tacciato di tradimento.
Ricordo i fatti più gravi accaduti nel periodo:
Gennaio: Pier Santi Mattarella, presidente della regione Sicilia, assassinato dalla mafia.
Febbraio: Vittorio Bachelet, insigne giurista, abbattuto a pistolettate in università dalle BR, davanti agli studenti.
Marzo: a Genova irruzione dei carabinieri nel covo BR di via Fracchia, uccisi quattro guerriglieri.
Aprile: Corrado Alunni, esponente di una formazione armata comunista, in compagnia di Vallanzasca e di altri quattordici detenuti, evade armi in pugno, in pieno giorno, dal carcere di S.Vittore. L’evasione è soffocata nel sangue.
Maggio: assassinato a Milano il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi
Giugno: alcuni aderenti a Prima Linea, durante una rapina, uccidono l’appuntato di PS Chionna.
I NAR, formazione armata di destra, uccidono il giudice Amato.
Ustica: precipita un velivolo passeggeri Itavia abbattuto da un missile durante una battaglia aerea tra aerei Nato e Mig Libici nei cieli italiani: 81 morti..
Agosto: stazione di Bologna, esplode la bomba: 85 morti.
Palermo: la mafia elimina il procuratore Costa.
In questo clima, difficile da rivivere oggi in tutta la sua drammaticità, soprattutto da chi non c’era, Giorgio Gaber e Luporini lanciano un pezzo che circola quasi clandestinamente. Ideato dopo il sequestro Moro, avvenuto nel corso del 1978, è una lunga, sofferta invettiva carica di passione: non concede nulla a nessuno, traccia linee e confini, si incarica di mettere impietosamente a nudo lo smarrimento collettivo.
Nell’Italia che si divide tra due sponde contrapposte sceglie la difficoltà di una terza via, critica e tutt’altro che neutrale, forte e veemente, mostrando una visione di rara libertà e vigore. E’uno strappo alla coscienza.
Tanto per capirci, tra le canzonette dello stesso periodo, la Hit Parade annovera, tra i single italiani: al diciannovesimo posto Pupo con “Su di noi”, al diciottesimo Toto Cotugno con “Solo noi”, al diciassettesimo “Una giornata uggiosa” di Battisti”, al quindicesimo i Pooh con “Io canterò per te”, al tredicesimo Donatella Rettore con “Kobra”, undicesimo Heather Parisi con “Disco Bambina”, al settimo Celentano con “Il tempo se ne va”, al sesto i Ragazzi di Remì con “Remì e le sue avventure”, al quinto Renato Zero con “Amico”, Gianni Togni con “Luna”, al terzo Alan Sorrenti con “Non so che darei”. I restanti posti della classifica sono occupati prevalentemente dalla musica Disco straniera, che inizia a imperversare col suo tempo in quattro quarti che ancor oggi sentiamo pulsare dalle autoradio coatte di certe utilitarie.
E’ in questo mood, tra il sangue che scorre nelle strade e la fuga nel disimpegno, che deflagra “Io se fossi Dio” di Gaber e Luporini. Ed è subito scandalo.
Mentre la censura si abbatte sul primo Vasco Rossi che canta “ Colpa di Alfredo” per un passaggio che suona “ E’ andata a casa con il negro, la troia” e stronca al Festival di S.Remo il pezzo “Voglio l’erba voglio” di tal Francesco Magni, che inciampa nel verso “ Chi si tira una pera soltanto il dì di festa”, la durissima, lucida composizione del duo Gaber-Luporini circola inarrestabile, di mano in mano, col passaparola. Girano audio-cassette che vengono riprodotte e moltiplicate: ci si trova per ascoltarla insieme.
Tra il sangue versato da molti, che paralizza e angoscia, e le composizioni musicali del disimpegno che anestetizzano, sono quasi inesistenti le voci che cercano una boccata d’aria fatta di verità. Il grido di Gaber è solitario e assordante. Andiamo a rileggere quel testo e ne rimarremo colpiti, oggi come allora.
Il merito del signor G., e del suo autore di quegli anni troppo spesso lasciato in secondo piano, è stato soprattutto quello di essere pericolosamente indipendente.
Un artista infatti non è un sociologo, né uomo delle Istituzioni, non un politico e neppure un moralista, un artista vero non deve niente a nessuno, non è debitore di una ideologia e neppure della logica o della Storia. L’arte è per definizione una pratica autonoma di libertà, ed è nei momenti difficili che acquisisce valore. “Deve” assumersi la responsabilità e il rischio personale di parlare anche delle cose scomode, magari col linguaggio, una tantum, dell’invettiva violenta e insopprimibile.
Ardua l’impresa di etichettare Gaber, di incasellarne l’azione. Né di destra né di sinistra: qualunquista? Solo un cretino può affermarlo. Qualcuno lo ha chiamato anarchico, e forse lo era. Di certo sarebbe stato capace di farsi andar stretto pure questo vestito: il fatto è che è stato inafferrabile.
Se dovessi individuarne un aspetto inedito, azzarderei pensare al suo essere anche “sognatore”, e chiamo testimone il suo modo di guardare il mondo.
In genere abbiamo una opinione sbagliata dei sogni: essi sono qualcosa di molto concreto e non di vacuo. Non sono la rarefazione di una idea, sono il primo atto della sua concretizzazione. Il sogno è precursore e atto creativo, spiraglio che apriamo sul futuro, è sguardo libero, coraggio di inventarsi la vita e di non stare nel gregge, fatica della profezia, come efficacemente descritto nel motto di Marge Piercy che battezza la home page di questo amato blog.
E’ difficile andare avanti nel nostro gran casino, non subire lo stallo, non rimanere presi per un lembo dl vestito che si impigli in qualche quotidiano ingranaggio, in quel modo subdolo, falsamente innocuo, che ci porta tutti alla morte ben prima che questa avvenga fisicamente: per questo il sogno è indispensabile antidoto.
E sogno e Utopia sono parenti molto, molto stretti. Dunque: sognatore? Utopista? Anche. Un utopista consapevole.
Ho sempre saputo che l’Utopia non esiste. E’ soltanto direzione, tensione ideale che va verso la libertà possibile. E’ binario e non stazione. Salire su quel treno è correre il rischio della libertà.
Giorgio Gaber lo vedrei nei vagoni di testa, a cantare con altri: “This train is bound for glory”, con la chitarra in mano e il suo irresistibile sorriso sornione.
Grazie, signor G., per innescare sogni di cui abbiamo un bisogno dolce e disperato.
Mark Adin
In appendice:
– Gaber, l’anarchico
http://www.facebook.com/video/video.php?v=394488250591853
– Io se fossi Dio (integrale)
Molto opportuno e preciso. Wow!
Di sprangate ne ho prese a sfare…ma quelle che ho preso dagli stalinisti del MLS di capanna al teatro a piazza Bologna a Roma per difendere il Signor G sono acqua di colonia profumata. Anzi mi han tonificato nella mia Anarchia.
compari quel disco in vinile e le conservo come cosa preziosa, era inciso solo da una parte… una delle prime manifestazioni di indignazione in Italia, thanks, Mark!
Rettifica: oggi, alle 0,48 su rai due, fugacissima citazione di “Io se fossi Dio”. Pronunciato due volte l’aggettivo “anarchico” (peraltro impropriamente).
Accento finale su “La mia generazione ha perso”, così, tanto per capirci.