Disinnescare Fabrizio

di Mark Adin

In questo sfortunato Paese ai poeti fanno l’elettroshock, li mandano in esilio, li ignorano, li tengono in prigione, li uccidono. Questo Paese non ama i poeti: li deride, li sporca, li mette alla fame, li abbandona alla solitudine. Questo Paese li confonde in un mare magno di illetterati che riempiono libri di  composizioni autoreferenziali: fanno il verso, poverini.

Tutti ritengono di scrivere poesie, nessuno le legge. Dei pochi che ne leggono, pochissimi lo fanno ad alta voce come si dovrebbe, perché la musica possa risuonare ed essere finalmente liberata e apprezzata. Ancora meno li mandano a memoria, o li rileggono senza sosta per padroneggiarne fino dove è possibile la forza segreta. La poesia è nemica acerrima della volgarità e dell’improvvisazione, forse per questo non la amiamo: la fraintendiamo.

A Fabrizio De Andrè il destino ha concesso il miracolo di scrivere versi sopra musiche che, oltre a sostenerne il ritmo, ne hanno incorniciato la bellezza e l’hanno resa disponibile a tutti. La musica popolare è stata il cavallo di Troia per raggiungere un vasto pubblico e farlo innamorare. Ma ora si è perso l’incanto, c’è il sospetto che sia in atto l’assalto a Faber per scardinarlo dal suo dolce rigore. Non si immagini una operazione preordinata, un complotto ordito da chissacchì, ma una sorta di spoliazione di cadavere. Un rito nel quale ognuno ruba qualcosa dalla sua tomba: un chiodo della bara, un brandello di indumento, una scheggia di legno, un brano di carne appassita, una misera reliquia di cui impossessarsi. In assenza del Poeta che possa difendersi.

De Andrè è oggi buono per tutti: santificato, perdonato, amnistiato, impagliato. Tutti parlano di lui con grande rimpianto. Ma come è possibile? Chi era, allora, il cantante-poeta che ascoltavo di nascosto quando ero ragazzo? Doveva trattarsi di un omonimo del cantautore (quanto è brutta ‘sta parola), perché le sue canzoni non erano gradite in Rai, i pretori imponevano di acconciarne i testi, la censura interveniva e vietava. I vecchi dischi in vinile dalle copertine dai tondi colorati, con il viso di Faber nel mezzo, sempre quello, la frangetta a coprire l’occhio insultante e insultato, erano ascoltati in silenzio in piccoli gruppi, o in solitudine, di soppiatto, di nascosto da genitori o insegnanti. Era soprattutto parola, ed era parola potente, ricevuta in grame stanzette, fuori controllo. Ci piaceva per questo, per questa sua caratteristica trasgressività che riempiva vuoti che non sapevamo di avere.

Lui ai margini, lui figlio del manager dello zucchero, arrivato al successo più con il passaparola che con le promozioni discografiche, come Vissotsky. Lo conoscevo attraverso dischi, ma fu ascoltando la scarna e vibrata esecuzione, alla chitarra, di sue composizioni da parte di uno sconosciuto, in un vecchio bar-trattoria, che mi folgorò per sempre nella sua verità.

Lui che aiutava economicamente e in modo cospicuo tante organizzazioni della sinistra. Lui schierato, senza infingimenti. Lui che era anarchico.

Vedere campioni dell’impegno culturale di sinistra, come Fabio Fazio, glissare sull’argomento, nella pur bella “monografia” a lui dedicata, ce ne dà la misura. Questo no, questo non si può dire. Nemmeno quando alcuni degli intervistati lo accennano esplicitamente: l’assist non viene raccolto. Perché? Vi sono registrazioni in cui Fabrizio parla senza complessi, facendo della sua adesione all’anarchismo un architrave della sua visione del mondo. Tutti i suoi amici lo confermano. Eppure questo no, questo non si può dire. Si può riferire che era alcolista, frequentatore di travestiti e puttane, o peggio, ma anarchico no. Su questo si tace.

Nei pressi  del sequestro Moro Giorgio Gaber, altro celeberrimo interprete ridotto, oggi, a “buono per tutte le stagioni”, dovette mettere mano alle sue risorse economiche per incidere un disco che nessuno gli volle pubblicare. Era un disco di grandissimo (ma dovrei dire temerario) coraggio civile, considerato il momento in cui uscì, dal titolo “Io se fossi Dio”, che in pochi ascoltammo e del quale pochi conoscono, a tutt’oggi, l’esistenza. Mai passato, ovviamente, nei media.  Meglio ascoltare, e riascoltare, e riascoltare ancora, cose più easy: “Shampoo”, oppure “Si passa la sera scolando barbera”. Anche il Gaber incazzato, vero, impietoso, non in vendita, è stato ostracizzato e dimenticato, edulcorandone e mistificandone l’opera.

Anche Gaber era pericolosamente sull’orlo: era un uomo libero, un libertario.

Ma, ancora una volta, non si deve dire. Forse il pubblico non è pronto…

Si sa, i media non conoscono verità.

Abbiamo il dovere di combattere questo tentativo di spegnere la miccia, di “fare il santino” di Fabrizio De Andrè, perché un poeta, un poeta vero, fa sempre paura per la sua indipendenza, per la capacità di scrutare luoghi dell’animo umano e del mondo, per la sua vicinanza agli dei. I poeti sono bombe che possono scoppiare da un momento all’altro. Sono pericolosi. Il potere tenta di disinnescarli, cerchiamo di impedirlo.  Lasciamo che deflagri, un po’ di libertà, con tutta la sua forza. Faccia a pezzi la nostra vergogna.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • eh, sì, i poeti fanno paura perchè sanno mettere ali ai pensieri, perchè cantano il mondo in tutta la sua bellezza e bruttezza. qui ormai, dopo i venti e passa anni di silvio-tv, la bellezza è diventata quella roba plasticosa di donne tutte uguali o la quinta scenografica di qualche spettacolo (“nella splendida cornice di …”). la bruttezza esiste ma non si mostra. si mostra l’orrore e ci si crogiola davanti ad esso, impietosi. l’amore non viene più cantato, ma urlato in canzonette di cui nessuno sentiva la mancanza. e si riscrive la storia, edulcorando i personaggi scomodi e riplasmandoli a proprio uso e consumo. così anche faber diventa “buono per tutte le stagioni” e tutta la deflagrante potenza della sua visione politica ridotta a tre accordi di chitarra da strimpellare per il karaoke. ma io mi ricordo il brivido di quando, nella sede di lotta continua, accennavamo “geordie”, mutandone una strofa, quasi gridandola ” la legge PUO’ cambiare”! mi ricordo la censura, le accuse di anticlericalismo, il passaparola e i vinili prestati agli amici. facciamo circolare nuovamente le idee e non lasciamo che un fazio qualunque metta “amorevolmente” il bavaglio a un poeta.

  • …Io, se fossi Dio (ed io potrei anche esserlo, sennò non vedo chi).

    Puro genio.
    Gaber era il Cecco Angiolieri degli anni 70-80, ma non era riuscito ad urlare a sufficienza negli anni 70, per poi scomparire dai radar culturali quando, assopiti gli anti-conformismi, tutto si annacquava nella Milano da bere degli anni 80.

    Ed ora come dici tu ce lo prendiamo postumo, iconizzato, ed ampiamente manipolato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *