Domenico Caringella – Le prospettive di Marta

Le due navi erano comparse da est insieme al sole. Puntavano dritte verso la costa.

Dalla torre costruita sulla collina, la vedetta le aveva potute individuare solo allora, quando l’alba aveva acceso il mare. In tempo per far richiamare i contadini nella cinta di mura, troppo tardi per avvertire la gente dei paesi del litorale. Così le campane di San Basilio svegliarono la campagna e il mare lo lambirono soltanto.

Quando Marta si alzò, prima degli altri come sempre, al posto del silenzio e del cigolio della carrucola del pozzo nel cortile, trovò un’eco quasi impercettibile di campane, passi disordinati sul selciato fuori, le urla di sua madre e di Nicola, l’uomo che aveva preso il posto di suo padre due anni prima. Marta era abituata a sentirli gridare, era il loro modo di comunicare; Nicola l’aveva fatto anche quella notte, mentre finiva con lei, prima di uscire dal suo letto e tornare al talamo al piano di sopra. Ma adesso parlavano di altro, non c’era rabbia o disprezzo, c’era paura.
Di saraceno, a casa di Marta fino a quella mattina avevano visto e assaggiato solo il grano. Entrarono in tre, come nello stesso tempo tanti altri stavano facendo in tutte le case del borgo. Le spade ricurve in mano, le vesti non di molto dissimili da quelle dei pescatori del paese, gli occhi fissi da predatori, da uomini impazienti. Erano tutti nello stanzone al pianterreno, insieme, carnefici e vittime.

Nicola impugnò l’attizzatoio, per istinto o dovere e non perché ci credesse davvero, uno di quei gesti scritti a cui spesso è a torto che si attribuisce coraggio. Dare le spalle, piuttosto, avrebbe avuto dell’eroico quella mattina. Ad uno dei predoni, quello dall’aspetto meno minaccioso, il più minuto, bastò avanzare e disegnare con un movimento dall’alto verso il l basso fluido e spontaneo del braccio, un semicerchio. La spada affondò nella spalla destra del patrigno di Marta, continuò ad incidere la carne in diagonale e terminò la corsa sopra la sua anca sinistra. Il sangue di Nicola prima di colorare il pavimento di pietra, fece crepitare il fuoco nel camino dietro di lui e sferzò il viso e i vestiti della ragazzina. Sua madre non gridò, emise un suono sordo, cupo e prolungato e corse verso le scale, con il volto tra le mani. L’uccisore di Nicola e uno dei suoi compagni la seguirono, senza fretta. Sparirono di sopra.

Marta non aveva paura, non ne aveva più di quella che aveva già provato quella notte e quelle prima. Guardò con pena il corpo di Nicola e restò ad osservare il sangue che in piccoli rivoli scuri riempiva gli spazi tra una pietra e l’altra e misurava la stanza in ogni direzione, fino a quando si sentì stringere il braccio e spingere verso la rampa.

La stanza di sopra non aveva pareti o porte, si apriva immediatamente alla fine delle scale. Sua madre era sul letto, nuda, non gridava più. I due le erano addosso, accanto, dentro; uno le spingeva il cazzo in bocca, e parlava lentamente, in una lingua ruvida, sconosciuta. Niente di sconvolgente per Marta, che ebbe la sensazione di assistere finalmente da spettatrice ad una delle cento notti rassegnate e terribili con Nicola, nel suo giaciglio in un angolo della cucina al pianterreno, e sua madre improvvisamente sorda al piano di sopra.

L’uomo che aveva portato di sopra Marta la spinse in un angolo, vicino alla piccola finestra, gettò la spada e si fece verso di lei. Marta, i suoi bellissimi capelli neri scarmigliati, gli occhi bassi, fece al suo aguzzino un cenno con la mano, di attesa, e fece scivolare la veste per terra. Ci mise poco lui a prenderla, ad usarla. Lei evitò che al male se ne aggiungesse altro e non fece nulla di diverso da quello che le si chiedeva.

 I tre finirono quello che avevano cominciato pressoché insieme. La madre di Marta piangeva, Marta la guardava in silenzio. Dalla finestra semiaperta entravano mischiati urla, clangore di ferro, pianti, fumo. Gli uomini, in mezzo alla camera, si misero a parlare tra di loro, a discutere. Uno iniziò ad agitarsi, ad imprecare forse, poi si voltò e scese di sotto. Gli altri raccolsero le spade e lo seguirono.

Marta guardò di nuovo la madre, chiuse gli occhi. Poi, senza una parola, si rimise la veste, scese in cucina, uscì per strada e gridò un “ehi” verso i tre saraceni che si allontanavano. Corse verso di loro.

Domenico Caringella

 

 

 

per informazioni e invio testi:
clelia pierangela pieri – xdonnaselva@yahoo.it
luigi di costanzo            – onig1@libero.it

Clelia

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