«Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi»

Il prologo del nuovo libro di Marco D’Eramo

Rivoluzione. Quando pronunciamo questa parola, pensiamo sempre a oppressi che insorgono contro gli oppressori, a sudditi che rovesciano i potenti, a dominati che si ribellano contro i dominanti. Ci vengono in mente i Levellers che a Londra decapitarono re Carlo I nel 1649; i sans-culottes che a Parigi entrarono nella Bastiglia nel 1789 e ghigliottinarono re Luigi XVI nel 1793; gli schiavi neri haitiani che nel 1791 incendiarono le piantagioni dei loro padroni e nel 1801 dichiararono l’indipendenza di Haiti; i bolscevichi che a San Pietroburgo presero il Palazzo d’Inverno nel 1917 e fucilarono lo zar Nicola II a Ekaterinenburg nel 1918; i barbudos cubani che assaltarono la Caserma Moncada nel 1953 e cacciarono il dittatore Fulgencio Battista nel 1959.

    Ma in realtà non c’è un solo genere di rivoluzione. Ci sono due tipi – opposti – di rivoluzione, come già 2.400 anni fa osservò  Aristotele in uno splendido (e inspiegabilmente ignorato) passaggio della Politica: “Coloro che vogliono l’eguaglianza si ribellano se pensano di avere di meno, pur essendo uguali a quelli che hanno di più, mentre quelli che vogliono diseguaglianza e superiorità, si rivoltano se suppongono che, pur essendo diseguali, non hanno di più, ma lo stesso o di meno degli altri (…): in effetti quelli che sono inferiori si ribellano per essere eguali, quelli che sono eguali per essere più grandi”. [1]

   Ovvero: i dominati si ribellano perché non sono abbastanza eguali, i dominanti si rivoltano perché sono troppo eguali. “Perché sono sempre i più deboli a cercare uguaglianza e giustizia, mentre chi ha la forza non ci pensa neppure”. (VI 1318 b).

   È una tesi illuminante, e sconvolgente. Perché ci apre orizzonti che prima ci erano nascosti, quelli di una rivoluzione non dal basso contro l’alto, ma dall’alto contro il basso. Aristotele ci dà un’indicazione in più: “Nelle oligarchie a rivoltarsi sono i più, ritenendo di essere trattati ingiustamente perché, pur essendo eguali, non hanno, come s’è già detto, gli stessi diritti degli altri, mentre nelle democrazie sono i notabili a rivoltarsi perché hanno gli stessi diritti degli altri pur non essendo eguali”.  (V 1303b). Ci suggerisce che, a spingere troppo in là verso la democrazia, i dominanti reagiscono rivoltandosi contro i dominati.

La tesi che voglio dimostrare è appunto che negli ultimi cinquant’anni è stata portata a termine una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro i sudditi, dei dominanti contro i dominati. Una rivoluzione che è avvenuta senza che ce ne accorgessimo, una rivoluzione invisibile, una “stealth revolution”, come l’ha chiamata la filosofa statunitense Wendy Brown [2] dove l’aggettivo stealth è ripreso dal linguaggio bellico, dall’aviazione militare: i bombardieri sono stealth se non si lasciano rintracciare dai radar.

   E la metafora militare è appropriata, perché di una vera e propria guerra si è trattato, anche se è stata combattuta senza che noi ce ne accorgessimo. D’altronde lo riconosceva già 14 anni fa uno degli uomini più ricchi del mondo, Warren Buffett, che a un inviato del “New York Times” disse candidamente: “Certo che c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo” (26 novembre 2006). Cinque anni dopo, nel 2011, Buffett ribadiva il concetto e affermava non più che i ricchi questa guerra di classe “la stavano vincendo”, ma che “l’avevano già vinta”: “Di fatto negli ultimi 20 anni è stata combattuta una guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta. (…) Se c’è una guerra di classe, l’hanno vinta i ricchi”. E l’opinionista del “Washington Post” commentava: se una guerra di classe c’è stata in questo paese, è stata ingaggiata dall’alto contro il basso (from the top down), per decenni. E i ricchi hanno vinto” [3].  Non è qualche esaltato a parlare di guerra di classe dall’alto contro il basso, è uno dei protagonisti di questa guerra: la loro vittoria è tale che loro di questa guerra possono parlarne senza ritrosia, mentre noi solo a nominarla ci vergogniamo e siamo subito sospettati di estremismo.

  È stata una guerra ideologica totale: è questa guerra che voglio raccontare. Con la sua pianificazione, le strategie, la scelta del terreno dello scontro, l’uso delle crisi. Come disse il braccio destro di Barack Obama, Rahm Emanuel, poi sindaco di Chicago: “Non lasciare che nessuna crisi seria vada sprecata”.[4] Che non si sprechi né una penuria, né un’insolvenza, né un attentato, né una crisi finanziaria, né una pandemia.

   Questa guerra bisogna raccontarla a partire dagli Stati uniti, perché sono l’impero della nostra epoca e gli altri paesi sono loro sudditi, più o meno docili, più o meno riottosi. Tra l’altro, uno degli effetti della vittoria che i dominanti hanno conseguito è stato di renderci ignari della nostra sudditanza e di annebbiare la percezione delle relazioni di potere: meno male che è arrivato Donald Trump a ricordarci la sopraffazione, la protervia, la crudezza implicita in ogni dominio imperiale. Ma nemmeno l’impressionante rozzezza di questo presidente è riuscita a destarci dalla sonnolenza intellettuale in cui ci culliamo. Per rendercene conto basta osservare la sinistra occidentale: quel che ne resta è ormai totalmente thatcheriano, nel senso che ha fatto suo il famoso slogan “T.I.N.A” – There Is No Alternative – della Lady di Ferro, visto che ha interiorizzato il capitalismo finanziario globale come unico futuro pensabile per il pianeta: “È più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo”: così s’intitola il primo capitolo di Capitalist Realism del compianto Mark Fisher. [5]

   Un baratro ci separa dagli anni ’60, quando l’economista John Kenneth Galbraith scriveva che “quasi tutti si definiscono liberal” (1964) [6]. Oggi, cinquant’anni dopo, la parola liberal è diventata un’ingiuria.

   Ma come è avvenuto questo capovolgimento totale? Noi tendiamo ad attribuirlo a megatrends, alla globalizzazione, alla nuova rivoluzione industriale dei computer, a fenomeni oggettivi e statistici, alle lunghe durate, anche perché quest’interpretazione consola quanto di marxista c’è ancora in noi. Invece il fatto è che una guerra è stata combattuta. Se non ce ne siamo accorti, è perché nell’opinione cosiddetta progressista prevale la tendenza a sottostimare gli avversari, a rubricarne le vittorie sotto le voci “mal di pancia”, “esasperazione”, “risentimento”, “ignoranza”, non accorgendosi così delle tendenze di lungo periodo, come se i singoli successi della destra fossero alberi che ci nascondono la foresta.

                                                                 “Riassumiamo in quattro parole il patto sociale tra i due stati. Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete povero; facciamo dunque un accordo tra noi: io vi permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta per la pena che io mi  prenderò di comandarvi.”

                                                                                    Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’economia politica (1755, voce dell’Encyclopédie pubblicata nel 1758 come Discours sur l’économie politique; in Collection complète des oeuvres, Genève 1780-1789, vol.1: disponibile sul sito rousseauonline: https://www.rousseauonline.ch/Text/discours-sur-l-economie-politique.php.

NOTE

[1] Aristotele, La Politica, (IV sec. A. C.), trad. it. Laterza, Bari 1966, libro V, 1302a (ho lievemente modificato la traduzione e il corsivo è mio).

[2] Wendy Brown, Undoing the DemosNeoliberalism’s Stealth Revolution, Zone Books, New York 2015.

[3] Greg Sargent, There has been class warfare for the last 20 years, and my class has won, “The Washington Post”, 30 settembre 2011.

[4] La frase fu detta nell’autunno 2008, nella fase più acuta della crisi finanziaria, e ispirò il libro di Philip Mirowski Never Let a Serious Crisis Go to Waste: How Neoliberalism Survived the Financial Meltdown, Verso, London 2013.

[5] Mark Fisher, Capitalist Realism. Is There No Alternative?, O Books, Winchester (Uk), Washington (Usa), p. 1.

[6] Citato da Lewis H. Lapham nel suo bel saggio Tentacles of Rage. The Republican Propaganda Mill, a Brief History,Harper’s Magazine”, settembre 2004, pp. 31-41, p. 31.

 

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