Donne in sciopero della fame nelle prigioni di Ankara

Il carcere è ancora «scuola di rivoluzione»? Per curdi (e per altri) evidentemente sì

di Gianni Sartori

Combattenti per la Libertà, rivoluzionari, ribelli sociali… Per tali soggetti il carcere – da sempre – assume un duplice aspetto. Può diventare (e spesso diventa) la pietra tombale per le persone e per ogni progetto di rivolta emancipatrice. Oppure al contrario può essere una “scuola” dove i militanti apprendono, si induriscono e rafforzano le loro convinzioni: a livello personale oppure collettivo. Così la prigione diviene il luogo dove la lotta di liberazione continua. Sia pure con altri mezzi.

Per citare un paio di casi: nelle galere franchiste – ma anche in quelle socialdemocratiche – per i prigionieri baschi abertzale; in quelle di sua maestà britannica per i repubblicani irlandesi.

E oggi nelle prigioni di Ankara dove migliaia di militanti – sia della sinistra rivoluzionaria turca che curdi – hanno lottato con proteste, rivolte e scioperi della fame per rivendicare la loro identità di prigionieri politici. Pagando spesso un prezzo molto alto, fino alla morte.

Non solo in passato. In questi primi giorni di dicembre 2018 lo sciopero della fame guidato dalle donne curde rinchiuse nella prigione di Hewler è giunto al dodicesimo giorno e non sembra doversi concludere.

Lo sciopero è stato avviato sotto la direzione dell’Ufficio di rappresentanza del Kurdistan Bashure del Partito Democratico dei Popoli (HDP, dalla denominazione in lingua turca: Halkların Demokratik Partisi; in curdo Partiya Demokratik a Gelan).

Inizialmente, a dar fuoco – metaforicamente – alle polveri, entrando in sciopero della fame era stata Leyla Guven, co-presidente del Congresso democratico della società (DTK) e deputata di HDP.

Scopo della radicale iniziativa delle donne di Hewler – lo ha dichiarato Muzeyen Gunes, rappresentante di HDP – «supportare la protesta di Leyla Guven e denunciare l’isolamento imposto a Ocalan».

Il sostegno alla inizialmente solitaria protesta di Leyla Guven (rinchiusa nella prigione di tipo E di Diyarbakir) era andato crescendo già da alcuni giorni. In sei province (Istanbul, Ankara, Mersin, Mus, Sirnak, Mardin) attivisti e deputati di HDP si erano mobilitati per partecipare a simbolici scioperi della fame di tre giorni nella prima decade di dicembre.

Quanto ai prigionieri del PKK e delle prigioniere del PAJK (Partito delle Donne Libere del Kurdistan), il 27 novembre circa un migliaio di loro dava inizio a uno sciopero della fame di dieci giorni in alternanza.

Questa la dichiarazione ufficiale della portavoce Deniz Kaya: «Dal 27 novembre noi come prigionieri del PKK e prigioniere del PAJK entriamo in uno sciopero della fame a oltranza con turni di dieci giorni. La nostra unica richiesta è la fine dell’isolamento totale del nostro rappresentante Abdullah Öcalan. Con questo entriamo in una nuova fase della resistenza. Invitiamo tutte le aree democratiche e illuminate a seguire con attenzione la nostra azione. Invitiamo la popolazione in Turchia e in Kurdistan a solidarizzare con il nostro sciopero della fame. La nostra azione verrà portata avanti fino a quando ci sarà una nuova comunicazione da parte nostra. A tutte le compagne e a tutti i compagni anziani e malati chiediamo di non partecipare allo sciopero della fame».

PIU’ GALERE IN TURCHIA (E PIU’ PRIGIONIERI)

Al momento attuale il numero complessivo delle carceri presenti in Bakur (il Kurdistan sottoposto all’amministrazione turca) e Turchia è di 384. In dettaglio: 291 prigioni chiuse, 70 prigioni “indipendenti”, 3 strutture penali giovanili, 8 prigioni chiuse per donne, 5 prigioni aperte per donne e 7 prigioni chiuse per minori. Fate i vostri conti e vedrete che il totale è proprio di ben 384.

Ma per Erdogan evidentemente sono ancora poche e altre 53 sono in costruzione. Le organizzazioni che si occupano della difesa dei diritti umani non esitano a definire le prigioni turche “centri di tortura”. Ovviamente soprattutto per i prigionieri politici:

continue perquisizioni, dure azioni disciplinari, maltrattamenti e torture (oltre all’isolamento) rientrano nell’ordinaria, quotidiana prassi ispirata dalla politica carceraria adottata dal governo.

Preoccupa poi la natura delle nuove carceri in costruzioni (53, lo ricordo). A quanto risulta verrano costruite in maniera conforme alla politica di isolamento inaugurata con la cattura di Abdullah Ocalan (il “Mandela curdo” segregato nella prigione dell’isola di Imrali). Quindi, prigioni di “alta sicurezza” di tipo E, di tipo L e di tipo F.

All’interno di quelle prigioni è prevista la presenza sia di tribunali che di ospedali per cui i detenuti non avranno nessuna possibilità di lasciare, nemmeno momentaneamente, il luogo in cui sono stati rinchiusi. Non da vivi almeno.

Alla fine del 2002 (quando l’AKP di Erdogan è andato al potere) il numero dei prigionieri si aggirava intorno ai 60mila. Oggi risulta quadruplicato.

Infatti nei sedici anni successivi l’aumento registrato è stato del 315% e nel maggio 2018 si è arrivati a quota 246.416 (di cui 66.902 in custodia cautelare, 28.488 in attesa di ricorsi e 151.026 condannati).

Alcuni osservatori hanno stimato che con le nuove prigioni si potrebbe arrivare anche a 800mila (ossia a un detenuto ogni 100 cittadini).

Un recente rapporto dell’Associazione del sistema penale (CISST) quantificava il numero attuale dei detenuti come superiore a 260mila. Con almeno 1500 malati, 402 dei quali in condizioni critiche; questi i casi documentati, ma secondo IHD sarebbero molti di più.

Un esempio emblematico di quale sia l’atteggiamento dello Stato nei confronti dei detenuti malati è stato recentemente fornito dalla morte di due di loro: Kocer Ozdal e Celal Seker. Lasciati crepare in carcere in quanto l’Istituto di medicina legale (evidentemente su suggerimento delle autorità statali) aveva stabilito che potevano rimanere in galera, «idonei al carcere».

L’avvocato Abdullah Zeytun – presidente dell’associazione per i diritti umani (IHD) – ha messo in evidenza come la condizione carceraria sia «peggiorata in maniera esponenziale» con i governi dell’AKP. Sia in materia di torture che di trattamento riservato ai malati.

Soprattutto nei confronti dei prigionieri politici e in alcune prigioni in particolare. Come esempi negativi Zeytun ha indicato Elazig, Tarso e Patnos.

E ha spiegato: «ad esempio, nella prigione Elazig, qualsiasi prigioniero che si oppone a qualsiasi pratica da parte dell’amministrazione passa prima attraverso un’indagine disciplinare. Dopo di ciò, il prigioniero che critica la prigione può essere sottoposto a tortura da parte dei guardiani. Lo abbiamo determinato attraverso gli appelli dei prigionieri nella prigione di Elazig n. 2 e dalle nostre stesse osservazioni. Un altro esempio di maltrattamento è che i prigionieri vengono ammanettati mentre si recano all’ospedale, o le famiglie in visita vengono sottoposte a perquisizioni. La nostra missione d’ispezione per tali pratiche viene impedita in tutte le carceri».

Con ritorsioni anche sui parenti: «Metà della visita di un’ora va alle perquisizioni dei guardiani e nei restanti 30 minuti vi è una costante sorveglianza da parte dei guardiani, che partecipano e possono intervenire e interrompere le visite private. Quando le famiglie si oppongono alle gravi torture e maltrattamenti contro il detenuto sono sottoposte a torture e maltrattamenti simili, come dichiarato nei loro ricorsi con noi. Tutti questo viene usato come tattica intimidatoria sia per i detenuti che per le loro famiglie».

E’ intuibile che l’asprezza della detenzione in Turchia si manifesta soprattutto nei confronti delle donne prigioniere.

Ma a volte sembra tingersi di aspetti quasi paradossali. Alla fine di novembre nei confronti di 55 donne prigioniere politiche (17 rinchiuse nel carcere di tipo E a Merdin e 38 in quello di tipo M a Bayburt) sono stati avviati procedimenti disciplinari in quanto avrebbero «danzato il ballo tradizionale Govend e cantato il Tilili» (il suono, vero grido di battaglia – talvolta definito “ululato” – emesso dalle donne curde e che ricorda molto quello analogo dei baschi). Un comportamento che – stando a quanto hanno dichiarato i direttori delle due prigioni – avrebbe «messo in pericolo la sicurezza del carcere». Con un’aggravante: aver danzato e cantato il 27 novembre, nella ricorrenza del 40° anniversario della nascita del PKK.

La natura puramente repressiva e anticurda delle misure adottate dai carcerieri appare evidente: al punto che hanno punito anche donne che non avevano preso parte all’iniziativa in quanto ammalate.

NELLA FOTO in alto Kocer Ozdal, morto in carcere; qui sopra Leyla Guvenal 18° giorno di sciopero della fame in carcere.

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