Due film italiani dalla parte degli ultimi

“Cento domeniche” di Antonio Albanese e “La chimera” di Alice Rohrwacher visti (in sala) da Francesco Masala. A seguire: IL RITORNO DI KEVIN SPACEY  di Silvia Ingusci

 

Cento domeniche – Antonio Albanese

come tutti gli attori bravi, Antonio Albanese riesce a eccellere nell’interpretare ruoli comici, ma è bravissimo anche nei ruoli drammatici, come in questo film.

Antonio è un operaio in pensione, senza troppe pretese, vive con la mamma che ha l’Alzheimer, è in pensione, è separato, gioca a bocce, è amantedi una donna ricca, ha qualche gallina, aspetta il matrimonio della sua unica figlia, non ha nemici, è una brava persona.

è una storia dalla parte degli ultimi, umiliati e rapinati da un sistema finanziario criminale, fatto di ladri e delinquenti, a tutti i livelli. Antonio è uno dei poveri risparmiatori che si sono fidati della propria banca*, perdendo tutto.

Un grido di dolore, e non c’è niente da ridere, purtroppo. Il film è “stranamente” in più di 300 sale, non lasciate le poltrone vuote, merita.

buona visione

* https://www.labottegadelbarbieri.org/il-risparmio-tradito/

PS: nel colloquio di Antonio col direttore della filiale, costui parla di interessi sulle azioni, è un grave errore dal punto di vista logico-finanziario, o è sfuggito, o gli autori volevano sottolineare l’ignoranza del direttore, chissà…

https://markx7.blogspot.com/2023/11/cento-domeniche-antonio-albanese.html

 

 

La chimera – Alice Rohrwacher

il cinema di Alice Rohrwacher è sempre un cinema dalla parte degli ultimi, La chimera è un’epica dei poveracci tombaroli, ai quali restano le briciole delle ricchezze che portano alla luce; i ricettatori, gente rispettabile, sfruttano i tombaroli, senza correre i loro rischi.

si racconta la storia di un gruppo di poveri emarginati, nelle campagne di un paesetto toscano (in realtà il film è girato a Blera, in provincia di Viterbo), ricco di tombe etrusche.

si rivede in scena un’anziana Isabella Rossellini, in una parte di ricca decaduta, in attesa di una figlia ormai morta, circondata da figlie serpenti, che aspettano solo che schiatti, o che almeno sia rinchiusa in un ospizio, per rubare meglio.

il paeseggio è quello di un territorio (o una nazione?) con un grande avvenire dietro le spalle dove l’offerta lavorativa è quella dell’operaio in una fabbrica chimica, che avvelena l’ambiente, lavoratori e abitanti compresi (la Toscana è una delle regioni più inquinate dai Pfas).

alla fine, come dopo una tragedia epocale, una comunità di donne e bambini potrà far rinascere la speranza di una vita degna.

il film è in una settantina di sale e merita di sicuro la visione

https://markx7.blogspot.com/2023/11/la-chimera-alice-rohrwacher.html

 

IL RITORNO DI KEVIN SPACEY – Silvia Ingusci

Le sporadiche volte in cui, negli ultimi anni, Kevin Spacey è apparso in pubblico sono sempre state, per me, un’occasione per chiedermi a quanto siamo disposti a rinunciare in termini culturali e artistici per mettere a tacere, se pure momentaneamente, il senso di colpa nei confronti delle vittime della violenza di genere.

Kevin Spacey è uno dei migliori interpreti della sua generazione e dal 2017, da quando cioè l’attore Antony Rapp lo accusò per primo di aver subito molestie sessuali a quattordici anni (Spacey all’epoca ne aveva ventisei), non partecipa più a nessuna produzione – anzi, è stato letteralmente licenziato in tronco da quelle che aveva in corso non appena emersero le accuse. Quando provò a difendersi, dopo essersi scusato pubblicamente con Rapp per il proprio comportamento di allora, lo fece con una dignità rara, interpretando – per l’ultima volta, finora – il suo iconico personaggio di Frank Underwood: respinge le accuse che lo coinvolgono e chiede agli spettatori di «non correre alle conclusioni senza prove o formulare un giudizio senza fatti» e, con piglio spiccatamente underwoodiano, sfonda la quarta parete per dire a tutti che non intende pagare per azioni che non ha commesso.

Sembrava quasi pensare che la sua bravura gli avrebbe consentito di attraversare indenne le acque dello scandalo, come se il suo riconoscimento artistico avrebbe potuto salvarlo dalla pruderie scatenatasi a Hollywood nel periodo in cui tutti i produttori si affannavano ad allontanare da sé qualsiasi sospetto di comportamenti affini a quelli del re detronizzato Harvey Weinstein. Come poi hanno dimostrato sei anni di gogna mediatica e disoccupazione, il suo talento non è bastato.

Adesso però che gli avvocati di Rapp non sono riusciti a dimostrare che il loro assistito fosse stato effettivamente molestato da Spacey e che l’attore due volte premio Oscar è stato definitivamente dichiarato innocente sia in Inghilterra che negli Usa, il MeToo deve improrogabilmente fare i conti con i propri demoni. Kevin Spacey è stato la vittima più illustre e ora, secondo i giudici, anche la più innocente di un movimento che, dalle legittime sponde da cui era salpato, è spesso rimasto invischiato in acque torbide, dimostrandosi più spesso puramente dimostrativo che realmente utile. È sembrato, in alcuni casi, che lo sforzo per il raggiungimento della parità di genere consistesse nello smascheramento periodico e “a campione” di qualsiasi maschio bianco che avesse in qualche misura rivolto le proprie attenzioni a qualcuno, additandolo come molestatore e stupratore, distruggendogli la vita ben prima che potesse farlo, legalmente, un tribunale.

Questo piglio iper-borghese, scandalizzato e moralistico tipico della cultura anglosassone, a cui gli americani sono affezionati dai tempi delle “lettere scarlatte” a quelli del maccartismo, lungi dall’essere risolutivo dal grave fenomeno delle molestie sessuali subite da donne e uomini nel mondo dello spettacolo, è anzi dannoso per il movimento stesso, perché lo incanala in una serie di logiche censorie che gli tolgono credibilità, umanità e valore.

Inoltre, come accade spesso anche in questa remota provincia dell’impero americano che è l’Italia, quando una figura in vista della nuova militanza di sinistra (leggi: influencer) prende la parola per i diritti civili, finisce spesso per polarizzare il dibattito: radicalizza la sua fanbase e allo stesso tempo crea un fronte contrario di “impopolari” liquidati come indesiderabili retrogradi. In altre parole, il popolo delle vittime, sostenuto molto più nelle parole e nelle Instagram Stories che nei fatti, e quello dei carnefici, indignati custodi dei principi cis-eurocentrici e fieramente pronti a battersi fino alla morte per difendere quel che resta dell’Occidente. Il ruolo di vittima è quindi contesissimo da questi due opposti schieramenti: da un lato le minoranze che rivendicano giustamente il loro diritto a emanciparsi dalle logiche patriarcali, dall’altro i conservatori “senza peli sulla lingua” che si dipingono come vittime del politicamente corretto anche quando ritengono che insultare gratuitamente persone o categorie sia espressione di massima emancipazione intellettuale. In questa paradossale “cultura del piagnisteo”, per dirla con le parole di Robert Hughes, la vera vittima è l’Arte.

Quando quest’anno Kevin Spacey ha ricevuto il premio Stella della Mole, alcune associazioni femministe hanno criticato la scelta della giuria perché a loro avviso inopportuna rispetto alla situazione giuridica del premiato, lasciando che a destra si intestassero battaglie che dovrebbero essere prive di colore politico, come quella, appunto, per il riconoscimento dei meriti artistici di un individuo.

È stato detto che Spacey, nella posizione di attore affermato, ha esercitato una sorta di violenza psicologica e “di ruolo” nei confronti di un collega agli esordi della propria carriera. È senz’altro possibile, ma qui si entra nel campo delle supposizioni, della parola di Rapp contro quella di Spacey e, soprattutto, ci si inoltra nelle pericolose paludi della censura: demonizzare il desiderio, censurare automaticamente come violenti i normali, civili, insopprimibili flussi ormonali è un’operazione che abbiamo iniziato a condannare pubblicamente almeno negli anni ’60.

La domanda cruciale è come sia possibile giudicare la carriera di un grande attore con una specie di termometro della moralità, sovrapponendo pericolosamente l’arte all’etica, poiché la prima, se non è propaganda, ha un suo statuto autonomo che risponde primariamente all’estetica.

Perché a sinistra ci sentiamo in diritto di giudicare una persona più dal punto di vista morale che sul piano politico o artistico? E se giudicassimo moralmente Picasso perché era un misogino o Marco Tullio Cicerone perché possedeva degli schiavi, dovremmo allora dimenticare le loro opere? Dovremmo forse smettere di leggere Lolita di Nabokov – di fatto la storia di un pedofilo – e cancellarlo dalle antologie, bruciarlo nelle piazze? Non lo facciamo, per fortuna, perché riconosciamo che l’arte non ha tra le sue prerogative quella di essere nobilitante, educativa o patriottica. È pericoloso avallare senza spirito critico questa “cultura della vittima”, la tendenza a definire una categoria sociale (sì, finanche una minoranza penalizzata) solo in funzione dei suoi traumi. Si finisce con l’essere inghiottiti in una spirale di rabbia infantile. E con la rabbia viene meno l’intelligenza, e con l’intelligenza la libertà.

da qui

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *