Finanza e fisco: peggio di Bonnie and Clyde

articoli i Alessandro Messina (ripreso da sbilanciamoci.info) e Rocco Artifoni (ripreso da attac-italia.org/)

Ecco il “conto crime”. I segreti della finanza globale – Alessandro Messina

 

Nelle banche elvetiche si conserva il 12% del Pil mondiale. È lì, nella seconda banca del paese, Credit Suisse, nei conti cifrati protetti dal segreto bancario, che una rete di giornalisti d’inchiesta ha scoperto il connubio tra business e ogni sorta di malaffare. Ma le autorità di vigilanza dov’erano?

 

Otto trilioni di euro, o quasi. Il dodici per cento del Pil mondiale. È quanto le banche svizzere conservano nei propri conti. Denaro protetto da una storico e paradigmatico segreto bancario, quello svizzero appunto. Che resta assai “più segreto” che negli altri paesi, nonostante le tante pressioni dell’opinione pubblica e le richieste di Unione Europea e istituzioni internazionali alla maggior collaborazione e trasparenza.

Non poteva pertanto che chiamarsi Suisse Secrets l’importante inchiesta giornalistica su quanto celano i conti di una delle primarie banche elvetiche, il Credit Suisse, seconda banca del paese (la prima è UBS), che gestisce un quarto dei citati otto trilioni.

Domenica 20 febbraio il Guardian ha pubblicato un lungo resoconto di quanto sta emergendo. La testata inglese è uno dei 48 media partner che si sono occupati del dossier, da Le Monde al New York Times, in un consorzio guidato dal giornale tedesco Süddeutsche Zeitung e dalla organizzazione non profit Organized crime and corruption reporting project (Occrp), con la partecipazione di 163 giornalisti, come spiega bene qui Duccio Facchini.

Le informazioni rivelate toccano i conti collegati a circa 30.000 clienti, in tutto il mondo, cui afferiscono oltre 100 miliardi di franchi svizzeri (95 miliardi di euro). Le storie di questo denaro sono varie ma hanno una costante: si associano sempre a crimini, illeciti, scandali e malversazioni, insomma qualunque tipo di attività che richieda la necessità di “pulire” i soldi.

È qui che entra in gioco il segreto bancario. Rinomato quello svizzero, seppur (flebilmente) indebolito dagli accordi siglati dal governo elvetico negli ultimi anni. Perché in finanza resta valida una regola aurea: tutto si può ottenere, pagando il giusto. Allora ecco comparire conti cifrati, pensati apposta per essere più protetti degli altri. Chiamiamolo “conto crime”: un conto corrente bancario che offre più segretezza, e per questo costa di più.

Fatto un prodotto, va venduto. Pertanto i manager della banca svizzera sono incentivati a offrirlo: in tempi di tassi piatti, alla ricerca di commissioni per alzare i margini (l’ultimo trimestre 2021 per il Credit Suisse si è chiuso con una perdita di 1,5 miliardi di euro), il “conto crime” va promosso presso la clientela che se lo può permettere. E che, per definizione, ha qualcosa da nascondere.

Dunque, non solo queste pessime prassi attraggono il denaro proveniente dal crimine, ma chi le può garantire va in cerca di clienti con tali caratteristiche. Un connubio perfetto tra malaffare e business, che si avvitano l’uno all’altro.

Dietro i numeri, molte sono le storie nauseanti (no, non è eccessivo). Ci sono dittatori, criminali di guerra, torturatori, evasori fiscali, narcotrafficanti. Per chi vuole approfondire, in Italia ne ha scritto La stampa, ma soprattutto ne scrive il sito IRPI Media (Investigative Reporting Project Italy), aderenti al consorzio giornalistico globale.

Come ha commentato il premio Nobel Stiglitz, “il Credit Suisse ha permesso troppo a lungo ai corrotti di continuare a rubare ai più poveri”. È un’efficace sintesi delle gravi responsabilità di una banca che esasperando il concetto di segreto bancario ha fatto della complicità con il crimine un modello di business. Evidente che ciò pone un tema di etica negli affari. Ma a parere di chi scrive c’è anche dell’altro.

La questione veramente centrale, andando oltre il folclore e lo scandalo della notizia, diviene: le autorità di vigilanza avevano elementi per sospettare qualcosa? Una banca di queste proporzioni può assumere comportamenti così estremi senza che vi siano sospetti da parte di chi deve controllare? E chi supervisiona ha o non ha strumenti per intervenire?

Sicuramente non è indifferente che il tutto accada in Svizzera, nel cuore dell’Europa, cioè, ma fuori dal perimetro della vigilanza della Banca Centrale Europea. Ma quante sono le banche europee coinvolte nelle transazioni incriminate? Molteplici, per forza: basta scorrere le storie e la provenienza dei clienti più noti per comprenderlo. E se una banca in una zona quasi franca fa da hub per traffici irregolari, le autorità europee e nazionali degli Stati membri veramente non hanno strumenti per monitorare e intervenire?

Ci sentiamo di dire che no, le cose non stanno così. Anzi, nell’era della iper-regolamentazione bancaria, dei big data, dell’intelligenza artificiale al servizio dei controlli anti riciclaggio, è assai misterioso come tutto ciò possa accadere.

La verità è che il modello di supervisione bancaria continua ad essere inadeguato. Come già visto troppe volte, la vigilanza arriva sempre dopo la magistratura, o dopo i giornalisti, come in questo caso. Arriva cioè quando ormai è troppo tardi e tanti danni, all’economia reale e ai clienti, sono stati prodotti.

Ecco perché tutto l’impianto di controllo sulle banche e sulla finanza merita di essere rivisto nella prospettiva di anticipare i problemi. Le banche, grandi e piccole, sono tempestate da richieste di controlli formali, burocratici e pedanti, da check list minuziose che guardano al passato, mentre nessuno – o quasi – si preoccupa di creare sistemi di attenzione sui fondamentali e sostanziali principi di funzionamento del business di un istituto finanziario.

Trasparenza (effettiva), qualità della reputazione, appropriatezza della governance, sono le chiavi di lettura di ogni attività di intermediazione del denaro. Facendo luce su di esse, tanto si può capire di una banca, senza aspettare lo spifferatore (whistleblower) di turno, comunque benvenuto.

Guardando all’Italia, non costituisce un buon modello quanto accaduto quando la trasmissione televisiva Report ha dedicato una puntata alla vendita di diamanti da parte di MPS, vicenda certamente complessa e articolata, alla quale però non si può rispondere, come ha fatto la Banca d’Italia, che si tratta di materia fuori dal perimetro della vigilanza. Una foglia di fico che mette a nudo la scabrosità delle questioni in gioco.

Non è, infatti, con letture bizantine dei principi di supervisione bancaria che si potrà evitare che altre banche introducano presto nel catalogo – occulto o meno – dei propri prodotti un “conto crime” o simili (perché non un “conto CO2”?). Nell’era della finanza globale, sempre più concentrata e veloce (cui dedichiamo il ciclo di incontri Money4Nothing), solo una vigilanza che interpreti in modo dinamico e sostanziale il proprio ruolo avrà concrete chance di tutelare l’interesse generale e fare in modo che il denaro sia al servizio dello sviluppo economico e civile.

da qui

 

 

Una vera rivoluzione fiscale – Rocco Artifoni (Ardep  – Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico)

 

Per ipotizzare e cercare di comprendere ciò che bolle nella pentola del fisco e del debito si potrebbero prendere come punto di riferimento le parole di Mario Draghi, cominciando da una decina d’anni fa.

Il primo segnale di cambiamento nelle strategie europee (e di conseguenza italiane) è stato il “whaterever it takes”, pronunciato il 26 luglio 2012 da Mario Draghi, all’epoca governatore della Banca Centrale Europea, che iniziò ad acquistare titoli di stato attraverso il “quantitative easing”, cioè ad offrire denaro a basso prezzo e a tenere bassi i tassi di interesse sul debito pubblico. Questa scelta espansiva ha consentito all’Italia di non affogare nell’oceano del debito a causa delle onde alte degli interessi, che avevano costretto il governo Berlusconi alle dimissioni nell’anno precedente.

Per quale ragione Draghi nel 2012 decise di andare controcorrente rispetto alle posizioni pro-austerity, sostenute dai “falchi” di molti Paesi europei, a cominciare dalla Germania? Una spiegazione potrebbe trovarsi nel fatto che le politiche di austerità hanno il fiato corto e che per i creditori (privati o istituzionali) non conviene che i debitori vadano in default. Il debito è un meccanismo che serve a redistribuire i soldi al contrario, cioè dai poveri ai ricchi. Ma funziona meglio se sta in equilibrio, con un debito abbastanza elevato ma sostenibile: non deve essere troppo basso (perché gli interessi sarebbero di poca entità), né troppo alto (perché c’è il rischio di perdere interessi e capitale).

Un discorso analogo a quello sul debito, si potrebbe fare per le disuguaglianze e per il sistema tributario. Le disuguaglianze vanno bene ma se non sono eccessive. Il fisco può essere progressivo, ma non molto. In questa logica si possono inquadrare alcune parole o decisioni prese da Mario Draghi negli ultimi mesi come presidente del Consiglio dei Ministri del governo italiano.

Al Social Summit di Porto il 7 maggio 2021 Mario Draghi ha dichiarato: “Il sogno europeo è di garantire che nessuno venga lasciato indietro. Questo sistema è profondamente ingiusto e costituisce un ostacolo alla nostra capacità di crescere e di innovare. Accogliamo con favore il piano d’azione della Commissione sul pilastro europeo e sui diritti sociali, che mettono insieme le esigenze del Mercato unico insieme a quelle di una strategia di crescita più sostenibile ed equa. Dobbiamo essere più inclusivi perché le società inclusive sono resilienti, quelle che non lo sono, sono fragili.”

Il 21 maggio 2021, in risposta al segretario del Partito Democratico Enrico Letta, che aveva proposto di introdurre un’imposta di successione del 20% sui patrimoni superiori a 5 milioni di euro, Mario Draghi ha precisato: “Non abbiamo mai parlato di tasse di successione: questo non è il momento di prendere i soldi ai cittadini, ma di darli.” Da notare il duplice registro: nessun aumento di tasse nemmeno per i più ricchi e politica economica espansiva o addirittura assistenziale.

Il 3 dicembre 2021 in un videomessaggio alla Convention della Fondazione Guido Carli, Mario Draghi rilancia: “Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un’occasione storica per rendere l’industria e l’economia più innovative e più sostenibili. Rappresenta anche un’opportunità straordinaria per ridurre le disuguaglianze di genere, di reddito, di generazione”. In questa prospettiva Mario Draghi ha ipotizzato di correggere la riforma fiscale, congelando la diminuzione di imposta sui redditi superiori ai 75.000 euro (si tratta di 270 euro), per utilizzare queste risorse per calmierare gli aumenti nelle bollette per l’energia. In questo caso non si sarebbe trattato di un aumento di tasse, ma di una mancata riduzione. Ma la proposta di Draghi non è passata: nella maggioranza che sostiene il governo ha prevalso la linea della riduzione di tasse per (quasi) tutti, super ricchi compresi. Infatti, se il Parlamento confermerà la proposta di riforma fiscale approntata dal Governo, gli unici che non avranno alcun beneficio sono i contribuenti più poveri, quelli con un reddito inferiore a 15.000 euro annui. Chi avrà maggior vantaggio (920 euro) saranno i possessori di un reddito di 50.000 euro. Una riforma che persino Mario Draghi sta cercando, finora senza successo, di correggere, poiché va nella direzione di un aumento delle disuguaglianze.

Mario Draghi è più scaltro e intelligente dei politici che lo circondano: sa che quando si tira troppo la corda c’è il rischio che si spezzi. E dietro l’angolo, dopo l’arrivo dei fondi europei, si profila un debito pubblico enorme che prima o poi andrà restituito. Il deficit annuo attuale è superiore al 10% e i tassi di interesse non potranno rimanere così bassi a lungo: il rischio di un ritorno all’austerità è concreto. Draghi lo sa, invece gli altri che lo circondano pensano soltanto alle prossime elezioni.

Guardando al futuro chi ritiene che la solidarietà sia un dovere inderogabile a mio avviso dovrebbe ridiscutere e rivedere le categorie finora spesso utilizzate a proposito del debito pubblico. Continuare sulla strada attuale significa mantenere il giogo che grava sui più poveri. Per evitare nuove politiche di austerità bisognerebbe necessariamente ridurre il debito pubblico, utilizzando il patrimonio privato accumulato in modo illegale (mafie, evasione fiscale, corruzione). Servirebbe una vera rivoluzione fiscale (mentre quella in cantiere è palesemente ridicola), che stabilisca anzitutto il cumulo di tutti i redditi come base imponibile e che tenga conto anche dei patrimoni legittimamente posseduti per determinare l’imposta. Insomma, occorrerebbe che le spese pubbliche siano finanziate dalla effettiva capacità contributiva di ciascuno. Sta scritto nella Costituzione, ma è giunto il tempo che queste parole diventino politica economica concreta.

Photo credits: “5:00 PM – Buzek meets Mario Draghi, the Governor of the Bank of Italy” by European Parliament is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 48 di Gennaio-febbraio 2022: “Cosa bolle in pentola?

da qui

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *