Fescaaal: cinema da 3 continenti

di Manuela Foschi

Vi racconto il viaggio cinematografico che ho intrapreso in questi giorni di lockdown grazie al FESCAAAL, il festival di Cinema di Africa, Asia e America Latina. Al suo trentesimo compleanno Fescaaal ha scelto di trasferirsi online (fescaaal.org) dal 20 al 28 marzo: 24 ore su 24 su Mymovies dietro pagamento di un economicissimo abbonamento. In parallelo era possibile avere accesso agli incontri con i registi e le registe sulla piattaforma Zoom.

50 film suddivisi fra il concorso Lungometraggi “Finestre sul mondo”e quello sui Cortometraggi “African short film competition”, con Extr’A dedicata agli autori italiani che si confrontano con altre culture. Più i film della Sezione Speciale “Donne sull’orlo di cambiare il mondo”.

Questo festival organizzato e promosso dall’associazione COEmedia Distribuzione Cinema con la direzione artistica di due donne – Annamaria Gallone e Alessandra Speciale – dopo un anno di astinenza da viaggi, incontri e cinema nelle sale, ha avuto un successo di pubblico, adesioni e sostegno inaspettati: 1500 gli abbonamenti, 15mila le persone che hanno assistito agli incontri mentre 300.000 hanno visualizzato i post. Soprattutto ha offerto la possibilità di esplorare altri mondi e culture diverse attraverso racconti della vita quotidiana ma anche gli eventi autobiografici dei cineasti o fatti realmente accaduti. Un coinvolgimento diretto nella vita di bambini, donne, ragazze e ragazzi e uomini che vivono al di là del Mediterraneo, dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano, in Paesi con realtà culturali, sociali e politiche molto diverse fra loro. Storie che però ci riguardano da vicino: per le migrazioni in atto in questa epoca di grandi cambiamenti (globalizzazione economica, conflitti, riscaldamento climatico, Covid-19). Storie drammatiche e intense spesso con interpretazioni magistrali che colpiscono al cuore.

Tante le registe, le documentariste, le protagoniste femminili. Gli organizzatori hanno visionato 600 pellicole arrivate da tutte le parti del pianeta. I 50 film scelti avrebbero tutti diritto a essere menzionati per l’impegno e i valori sociali, politici e culturali che contengono. Uno straordinario mezzo di conoscenza, al suo secondo anno di vita, è il MiWorldYoug Film Festival, dedicato all’educazione multiculturale nelle scuole con tre premi assegnati dalla Giuria degli Studenti, dei Docenti e del Pubblico. Diverse le scuole in varie città italiane che hanno partecipato al progetto ideato da COE. Premiati ex-equo «Softie» di Sam Soko (Kenya 2020) e«Lina da Lima» di Maria Paz Gonzàles (Cile, Argentina, Perù 2019) nel Concorso Lungometraggi “Finestre sul mondo”.

Softie” è un film di politica e amore che fotografa dettagliatamente per dieci anni la vita e le scelte di Boniface Mwangi, fotoreporter, testimone dei tragici avvenimenti susseguitesi in Kenya nel 2007 dopo le elezioni di Uhuru Kenyatta, figlio del primo Presidente del Kenya dopo l’indipendenza dal colonialismo. Il film si apre con una raccolta di sangue in bottigliette d’acqua da parte di alcuni attivisti fra cui Boniface e con il “rapimento” di alcune decine di maiali che si cibavano nelle enormi discariche della metropoli e serviranno per la manifestazione contro il governo. Su ogni maiale col sangue sarà scritto uno dei nome degli onorevoli kenyoti: saranno scaricati davanti al Parlamento al grido di «Basta oppressione. Basta violenze. Siamo cittadini. Vogliamo la pace». Nel 2007 Boniface sarà 2 volte fotografo dell’anno per la CNN ma in Kenya i giornali non pubblicano mai le sue foto perché “troppo violente”. Nato in un povero quartiere alle porte di Nairobi, Boniface vive in una bella casa, ha moglie e tre figli piccoli ma arriva il momento in cui non riesce più a sopportare le recite dei politici e l’indifferenza dei colleghi. Il suo desiderio è un futuro migliore per il suo popolo e per i suoi figli. Organizza una mostra itinerante con gigantografie che esporrà nei parchi e nelle strade di Nairobi. La mostra avrà un gran seguito di pubblico con i cittadini in fila per vederla.

Boniface racconta che la primissima foto fu quella a un ragazzo che camminava per le strade di Nairobi. Fermato dalla Polizia gli fu chiesto il cognome che identifica la tribù. Era dei Luho e solo per questo col machete gli tagliarono il viso e altre parti del corpo. Boniface spiega come il tribalismo sia nato grazie ai British, deciso a tavolino per dividere la popolazione. «Gli inglesi una volta arrivati in Kenya hanno dato varie funzioni e ruoli alle tribù dividendo la popolazione. Ad esempio i Kikuyu sono “gli intelligenti” che imparano subito i lavori dati dai colonialisti, molto malleabili e interessati ai soldi. I Luhia sono i cuochi, i custodi. I Kamba fedeli servitori». Boniface fa notare come da quel momento vi fu una sorta di divisione in caste; se appartieni a una tribù sei segnato a vita. Non ci sono le stesse opportunità per tutti. «Il patriottismo non è l’identità di questo Paese; l’identità è la tribù». Nel 2013 arriva la sentenza della Corte Internazionale dell’Aia che condanna Uhuru Kenyatta colpevole di crimini contro l’umanità perpetrati nel 2007 dopo le elezioni (più di mille morti). Il Presidente nega ogni responsabilità e tiene un comizio in piazza dove dichiara che i Kikuyu, la tribù a cui appartiene, non meritano una tale umiliazione. Invita i suoi ad andare a trovare, casa per casa, i traditori, cioè gli appartenenti ad altre tribù testimoni dei massacri. Sarà ucciso il giornalista John Kituy del Weekly Mirror e altri testimoni. Davanti al Parlamento manifestano in tanti e Boniface è uno di loro. Cerc un dialogo con la polizia: «Basta uccisioni. Siamo cittadini avete il dovere di proteggerci». Sarà portato via dalle forze dell’ordine e picchiato a sangue. Tornerà dai suoi figli tumefatto. La scelta è fatta. Fonda con i suoi amici il partito Ukweli Party e si candida al Parlamento. Suo rivale è Jaguar uno pseudo cantante che sfila su un Suv bianco, facendo promesse di ricchezza. Njiere, la moglie di “Boni”, che ha scelto l’amore prima del popolo, gli starà sempre accanto … anche da lontano, quando soggiornerà negli StatiUniti in seguito alle minacce di morte. Boniface fa il possibile e si immerge totalmente in quel fiume di persone che vive per strada, nei mercati, negli slums di Nairobi. Qui emerge potentemente la difficile vita dei kenyoti al limite della sopravvivenza. Parla con donne, uomini, ragazzi della necessità di riprendersi il governo perché “è necessario cambiare il sistema”. Ma si sente ripetere fino a non poterne più “Dammi i soldi”, “Boni è una brava persona ma non ha i soldi”. Questo meccanismo clientelare ha fatto la fortuna dei politici corrotti. Una parte di cittadini sta con lui: pochi scellini a testa gli permettono di fare una forte campagna elettorale con moto e volantini sparsi ovunque. Ma saranno 30 gli attivisti uccisi prima delle elezioni, durante le quali, nel quartiere di Boni verranno sparati lacrimogeni per impedire. Il vincitore era già deciso e infatti pochi giorni prima delle elezioni viene ucciso il responsabile del nuovo sistema di voto informatico che avrebbe dovuto garantire dai brogli. Così a vincere sarà di nuovo Uhuru Kenyatta. Però il suo rivale Raila Odinga scatena un’ondata di violenze accusando la manomissione del sistema elettorale. Boniface rischia di nuovo di morire ma il proiettile che lo colpisce non gli perforerà il cuore. Boniface ha perso e decide di ritirarsi: «Devo restare a combattere ma non in prima linea». La moglie Njiere dirà: «Combattevamo per un mondo migliore, per un Kenya migliore. Ora mi sembra di combattere solo per noi».

Questo film rappresenta la situazione politico-sociale vigente nella maggior parte dei Paesi Africani governati da Presidenti corrotti e collusi con le lobby di Europa, Usa, Cina: mantenendo con la violenza la popolazione nella povertà e nell’ignoranza mirano a conservare i loro privilegi e poteri a vita.

«Rasta» di Samir Benchick (Francia, Belgio, Costa d’Avorio, 2019, 29 minuti) è un cortometraggio: non ha avuto premi forse perché molto violento. Siamo in Costa D’Avorio. Prima scena: una voce arrabbiata esce da un altoparlante. Un ragazzo adolescente fugge perché tra poco ci sarà un reclutamento di massa da parte di militari piombati come avvoltoi nel campo da calcio impolverato pieno di ragazzi. Rastrellano giovani per combattere i ribelli che stanno sconvolgendo il Paese. Il protagonista parte alla ricerca di un ribelle da cui è stato picchiato a sangue. Il suo viaggio sembra una discesa negli inferi: dalla stazione dell’autobus dove vige il caos, con i militari che sparano a caso sulla gente, alla giungla, dove incontra un dj sui generis che ritma un pubblico completamente stordito da droga e disperazione. Il ribelle che cercava è morto ma troverà la madre in un villaggio completamente abbandonato. Con la donna riuscirà ad avviare un dialogo che diventerà uno scontro di grande intensità. La donna non lascerà che la nipote uccida il ragazzo come aveva fatto Rasta con il figlio ma lo perdonerà. In questa immane tragedia uno spiraglio di luce si intravede: forse alle donne e ai ragazzi toccherà salvare l’umanità.

«Da Yie» di Anthony Nti, (Belgio, Ghana 2019, 21 minuti) ha vinto sia il premio della Giuria Studenti sia il Premio Cortometraggi dell’Africa. E’ ambientato in Ghana: i protagonisti sono una bambina e il suo migliore amico di giochi. Uno dei set è un campo da calcio di strada deserto dove pian piano si avvicina un Suv bianco con dentro un bel ragazzo. Capelli biondi, ben piazzato e ben vestito chiede ai ragazzini che lo conoscono se hanno fame e propone di accompagnarlo a un buffet. La ragazzina dal viso severo – e vissuto nonostante i suoi dieci o undici anni – domanda: «Cos’è un buffet?» e accetta. Invece Prince, il ragazzino, ha molti dubbi ma alla fine si aggrega. Dopo la gita al mare e la visione della partita (con bibita e cannuccia) il bellimbusto ha altri progetti … ma i ragazzi riusciranno a fuggire ad un tragico destino.

Nell’isola di Zanzibar si gira «Sara’s Dream» di Nino Tropiano (Italia, Irlanda, Svizzera, 2020 88 minuti): girato nell’arco di 7 anni, ritrae le aspirazioni di una giovane musulmana, orfana di madre e sotto patria potestà, che grazie alla sua forza di volontà, dal villaggio riesce ad approdare a Zanzibar City e a diplomarsi. In seguito accetterà il matrimonio combinato offertogli dal padre ma solo perché il marito acconsentirà al proseguimento dei suoi studi. Fra mille difficoltà e la nascita di una bimba, i due costruiranno una piccola casetta nella periferia della capitale e Sara finirà l’Università realizzando il suo sogno: diventare insegnante. Un bell’esempio di emancipazione femminile in un Paese di cultura musulmana dove le donne devono sottostare a molte “restrizioni”.

FESCAAAL è da sempre molto attenta alla condizione sociale e culturale delle donne e ai problemi di genere. «Celles qui restent» di Ester Sparatore (Italia, Francia, Belgio, 2019, 90′) narra di un gruppo di donne determinate a conoscere il destino dei loro mariti scomparsi dopo la Primavera araba oppure imbarcatisi e diretti nella nostra penisola. Manifestano davanti al Ministero dell’Interno e all’Ambasciata italiana a Tunisi.

Sempre in Tunisia si gira «La reve de Noura» di Hinde Boujemaa (Tunisia, Belgio, Francia, Qatar, 2019, 92′) dove Noura, dopo la carcerazione del marito violento, inizia una nuova vita sentimentale nonostante rischi di finire in prigione dato che l’adulterio in quel Paese è ancora un reato.

Premio SIGNIS ad «Adam» di Maryam Touzani (Marocco, Francia, Belgio, Qatar, 2019 100 minuti) che punta i riflettori sulla vita emarginata delle donne che vivono senza un uomo accanto. Invece il toccante «Scales» di Shahad Ameen (Emirati Arabi Uniti, Iraq, Arabia Saudita, 2019, 74′) – già premiato al Festival del Cinema di Venezia – fa emergere come in alcune società, i pregiudizi negativi sulle donne e le superstizioni siano talmente radicati da minacciarne la vita. Hayat, una ragazzina di 12 anni, nasce in un povero villaggio di pescatori dove vige un’orribile usanza. Ogni famiglia deve sacrificare una figlia femmina alle sirene del mare. Il padre non vuole questo destino per la figlia ma alla nascita del fratello le cose si complicano.

Diversi sono i documentari di antropologhe che hanno filmato le condizioni di vita delle donne alle varie latitudini. Nella sezione Extr’A abbiamo «Paani. Of women and water» di Costanza Burstin (India, Regno Unito 2019 22 minuti) che riprende le donne di un piccolo villaggio del Rajastan dove non c’è acqua corrente né fognature. Le donne avvolte nei loro coloratissimi abiti impiegano la maggioranza del tempo a trasportare acqua dai pozzi alle loro modeste case. Alle donne in India sono riservati i lavori più duri e pesanti ma nonostante ciò sanno essere leggere e ironiche.

«Aceh, after» di Silvia Vignato (Italia, Indonesia 2020, 44 minuti) mostra la vita che conducono giovani donne in un villaggio dell’Indonesia dove hanno un ruolo cruciale nel mantenimento della famiglia e della comunità. Dopo la cessazione dell’estrazione del gas, alcuni dei loro mariti diventano spacciatori mentre altri si mobilitano contro il governo che occupa i loro territori con aziende straniere inquinando e lasciando la popolazione disoccupata: alcuni saranno arrestati, altri uccisi.

Rimaniamo in Asia e per la precisione in Buthan con «Lunana: a Yak in the Classroom» di Pawo Choyning Dorji (Bhutan 2019, 109′) che ha vinto il premio della Giuria docenti dentro la rassegna per le scuole MiWorldYoungFestival. Ugyen è un giovane insegnante che vorrebbe fare il musicista ma il governo gli assegna un posto pubblico: condizionato dalla nonna, unica familiare rimasta, accetta l’incarico seppure di malavoglia. Il giovane intraprenderà un lungo viaggio, prima in auto e poi a piedi, fra le montagne himalayane per raggiungere Lunana, piccolo villaggio isolato dal mondo. Resistenze e arrabbiature iniziali si trasformeranno nella scoperta felice di una nuova dimensione. I bambini di Lunana sono sereni e felici di imparare: hanno un originalissimo compagno di classe: uno Yak. Esempio di come la scuola sia importante anche nei luoghi più sperduti.

 

Verso la fine di questo mio viaggio filmico vi porto in America Latina con il lungometraggio «Lina da Lima» di Maria Paz Gonzàles (Cile, Argentina, Perù, 2019, 83′) vincitore ex equo con «Softie». Lina viene da Lima in Perù, e per mantenere il figlio e la madre sceglie di trasferirsi in Cile dove fa la domestica presso una ricca famiglia. Mantiene la sua indipendenza e dorme in una piccola stanza in un letto a castello con tre migranti. Nel film emergono i sentimenti e la superficialità dei ricchi che non apprezzano ciò che hanno in contrapposizione alle vite piene di sacrifici come quella di Lina. Le sue forti emozioni e sentimenti – come la nostalgia per il figlio, l’emarginazione, l’essere meticci – si mescolano sfociando in una serie di coreografie e canzoni tradizional-popolari interpretate mirabilmente dalla protagonista dando alla pellicola un tocco surreale tutto latino. Lina finalmente ha abbastanza denaro per trascorrere il Natale con il figlio e la madre. Acquista tutti i regali per i famigliari ma non sa che il figlio ha riallacciato i rapporti col padre, che è ormai cresciuto e non ha più bisogno di lei. Quando lo scoprirà si sentirà tradita. Lina però non rinuncia a vivere le sue passioni come la musica e il ballo ma anche gli incontri con uomini di passeggio che la consoleranno un poco. Per un imprevisto e la mancanza di soldi non potrà tornare in Perù ma questo non la priverà del suo ottimismo e della voglia di vivere… come tutte le donne avrebbero diritto. Rimaniamo in America Latina andando in Guatemala con «Nuestras Madres» di César Diaz (Guatemala, Belgio, Francia, 2019, 78 minuti) che ha vinto il Premio del Pubblico della città di Milano. Il lungometraggio si apre con un ragazzo che sta ricomponendo i resti di uno scheletro. Di lì a poco saranno tanti gli scheletri in quella stanza. E’ la storia di Ernesto, antropologo, che lavora per il Dipartimento forense del Guatemala: ha ottenuto il permesso dalla Magistratura di ricercare e diseppellire i corpi dei guerriglieri e dei civili sotterrati nelle fosse comuni durante la guerra civile del 1982 dopo il golpe. In Guatemala sono stati 200mila i morti durante i governi militari che si sono succeduti dal 1966. Anche al padre del protagonista probabilmente è toccata la stessa sorte ma non è stato ancora trovato. In questa atmosfera dilatata dove il passato è ancora presente e la sofferenza resta viva, arriva la richiesta di disotterrare il marito da parte di una donna di un villaggio vicino a San Cristobal. L’indigena parla di un guerrigliero che stava con il marito. Ernesto prende la foto del padre e gliela mostra e lei afferma che è quello l’uomo. Sua madre, che non ha mai raccontato nulla a Ernesto, decide di testimoniare al processo contro i militari. Dopo molte avventure Ernesto scoprirà una crudele verità: il padre biologico è uno dei carcerieri della madre. Il Guatemala ignorato dai mass media, come l’Argentina, sta ancora scontando le atrocità inflitte alla popolazione dai militari. Un film molto toccante che riempie una falla informativa per molti di noi su questo Paese.

«1982» (Stati Uniti, Libano, Norvegia, Qatar, 2019, 100 minuti) è un interessante lungometraggio Fuori Concorso girato in Libano e in parte autobiografico. Il regista Qualid Mouaness narra quello che successe quando aveva 10 dieci anni, durante gli esami di quinta, in un collegio circondato dai famosi cedri libanesi sopra le verdi colline di Beirut. In un bigliettino dichiarerà il suo amore per una compagna e prima dell’inizio delle lezioni lo nasconderà nell’armadietto della suddetta. In quelle ore Beirut è sotto le bombe di Israele. Gli insegnanti al corrente di ciò che sta succedendo tengono all’oscuro gli studenti. Una voce di fondo proveniente da una radio sempre accesa nella segreteria della scuola informa sugli eventi. Scolare e scolari intanto si muovono fra litigi, gelosie e confessioni … fino a che il fumo non si alzerà da alcuni punti della città. Con i suoni delle bombe in lontananza, inizierà il fuggi fuggi, Alcuni studenti vengono ritirati dai genitori. Ma non tutti i parenti sono reperibili perché alcune zone della città sono rimaste isolate. La compagna amata da Qualid appartiene a una fazione opposta alla “sua”. Ma l’amore è più forte. Fra mille peripezie il ragazzo riuscirà a far prendere l’autobus alla sua piccola amata. L’autobus pieno di professori e studenti scende dalla collina ma si arresterà: Beirut è bloccata sotto le bombe. A quel punto il protagonista immagina che il suo eroe preferito – un gigantesco robot tipo Goldrake – crei una cupola antimissili sotto la quale le case di Beirut e i suoi abitanti sono salvi. Sarà proprio in quel momento che la compagna vedendo i suoi disegni sul quaderno scoprirà che è lui l’autore del bigliettino e il misterioso corteggiatore: così gli sorride, mentre intorno c’è la guerra.

Sempre due bambini sono i protagonisti di una storia che prende spunto anch’essa dall’esperienza di vita del regista. Ci spostiamo in Messico alla frontiera con gli Stati Uniti con il claustrofobico «Los Lobos» di Samuel Kishi Leopo (Messico 2019, 95′) che ha vinto il Premio del Pubblico all’interno del MiWorldYoug Festival. La protagonista è Lucia, giovane madre messicana che con i due figli riesce a passare la quasi invalicabile dogana statunitense. Ai «perché?» dei figli risponde che li sta portando a Disneyland in Florida. Sola e alla ricerca di un posto dove dormire e di un lavoro, si trova costretta a lasciarli soli Max e Leo (4 e 6 anni) in un piccolo e fatiscente bilocale affittato a caro prezzo da un’anziana coppia di giapponesi. Per intrattenere i figli durante le sue lunghe assenze inciderà nella cassetta di un vecchio registratore le regole da rispettare e le parole inglesi da imparare per poter entrare a Disneyland. Fra le regole, l’inglese, i giochi con la palla e i disegni sul muro i bambini supereranno quei giorni infiniti in modo eroico. Eroica è pure la mamma che dopo mesi di duro lavoro riuscirà ad integrarsi e a farsi rispettare, Alla fine potrà inserire i bambini a scuola e coronerà il loro sogno di andare nel Paese delle favole di Walt Disney.

Per ultimo vi porto in Brasile. Premiato al Sundance Festival nel 2020 «Three Summers» della cineasta Sandra Kogut (Brasile, Francia 2019, 95) è un film politico in forma di commesis: denunciare come la corruzione vada a braccetto con politica e ricchezza. Le tre estati preannunciano le indagini per corruzione e l’impeachment della Presidente Dilma Rousseff nel 2017. Madà, una governante ecclettica, appassionata del suo lavoro, ci trascinerà grazie all’interpretazione magistrale attraverso i fasti e i fallimenti di una famiglia altoborghese. Il set è una villa sopra una collina esclusiva e lussureggiante con mare caraibico a fronte e yacht annesso. Nel 2015 la famiglia Lira celebra un Natale fastoso e festoso con tanti amici, regali, autocelebrazioni e montagne di cibi grazie all’ instancabile lavoro di 5 domestici. In tavola le “sushiccette” cioè salsicce sushi, un’idea di Madà. Pochi giorni prima del Natale 2016 Madà riceve alcune telefonate e si vede costretta ad annullare tutti i festeggiamenti: della ricca famiglia pare non esserci più traccia. I domestici sono molto preoccupati perché non ricevono da mesi gli stipendi. Arriva la perquisizione da parte della Polizia che inizialmente accusa anche Madà di essere a conoscenza dei fatti perché i telefonini del padrone sono a lei intestati. Il Signor Lira finisce in prigione per corruzione, rubava a scuole e a ospedali. Moglie e figlio scappano all’estero. A rimanere nella villa è il personale domestico guidato da Madà con il padre del Signor Lira che aveva dedicato una vita all’insegnamento e non sapeva nulla degli affari illegali del figlio. Proprio lui ha l’idea di creare un sito per quella dimora lussuosa facendola diventare una specie di albergo e infine un set cinematografico. Madà sarà una guida turistica ironica e coinvolgente. Sostituendo un’ attrice assente si rivelerà un’interprete sorprendente e narrando la sua vera storia incanterà e farà piangere tutto il set. L’ex professore in pensione muore e lascia il suo piccolo appartamento di Copacabana a Madà che lo ha assistito in quegli anni. La governante ha finalmente un posto tutto suo, vi andrà a festeggiare con la sua famiglia e gli altri domestici l’arrivo del 2017. Con la sua forza di volontà, il suo ottimismo, la sua intelligenza e sensibilità Madà è un personaggio che rappresenta tante donne coraggiose. Da imitare.

Il FESCAAAL non si può non amarlo e non vederlo. Tornerà il prossimo anno nello stesso periodo offrendo … tre continenti da vedere.

Redazione
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