Franco Minganti: ombre gialle (e sorci verdi)

Giorni fa, per parlare di Dash (Dashiell Hammett), avevo – troppo brevemente – intervistato Franco Minganti. Nel finale gli avevo chiesto dei tanti errori di traduzione nei “gialli” italiani. Quando, dopo 75 minuti, Franco aveva smesso di ridere mi aveva rimandato a un suo saggio. E io avevo promesso di “postare” su codesto blog questo suo testo. Ricevute tutte le debite autorizzazioni… eccolo. E’ uscito come “Risonanze, sfondoni e dubbiose tracce: appunti intorno alla fortuna del giallo americano in Italia” pubblicato in Renzo Cremante e Lidia Mastroianni (a cura di), “Il giallo e il suo lettore. Libri polizieschi nelle biblioteche di Imola e di Forlì”. (Bologna: Editrice Compositori, 2005) nella collana “Immagini e Documenti” della Soprintendenza per i beni librari e documentari della Regione Emilia-Romagna. Buon divertimento. Ah, quasi dimenticavo. Che una cultura “di classe” sia del tutto assente negli Usa è tesi sulla quale dissento da Franco: per questo l’ho sfidato a duello (“al primo bozzo”) e il 32 gennaio ci incontreremo, ovviamente all’alba dietro il convento. Gli ho lasciato la scelta dell’arma: vecchi gialli o Bic che sparano palline di carta bagnata. A richiesta vi farò sapere chi vince, il 33 gennaio. (db)

Ogni qual volta si cerca di ricostruire gli echi italiani di qualche fenomeno americano, in genere si arriva a identificare percorsi, evoluzioni, trasformazioni del contesto americano, per poi accorgersi che molto di rado questi hanno un corrispettivo italiano altrettanto leggibile: in mezzo ci stanno i “rumori” – in senso semiotico – della diversità culturale, della traduzione linguistica, degli inevitabili adattamenti, delle più banali discronie.

Per dire delle fortune della detective story americana in Italia nel dopoguerra occorre fare i conti non solo con le vicende dell’anteguerra, ma anche con i ritardi che il secondo conflitto mondiale e il clima che l’aveva preceduto avevano imposto a qualsiasi “importazione” da oltre oceano, materiale, ideologica o culturale che fosse – film, jazz o quant’altro. Scorrendo i titoli delle pubblicazioni americane nelle collane dei gialli e nei cataloghi delle nostre case editrici si ha come l’impressione di un’onda di piena che fa arrivare di tutto, mettendo sullo stesso piano, settimana dopo settimana, mese dopo mese, scrittori e storie degli anni venti e trenta – che spesso e volentieri si rifacevano a tradizioni della fine del secolo precedente – e autori, vicende e ambientazioni più o meno contemporanee, decisamente più vicine al clima culturale e alla sensibilità del momento. Viene alla mente quel “plotone arlecchino” – di età e momenti storici – in marcia in ordine sparso che a inizio secolo Owen Wister, l’autore di The Virginian (1901, in italiano Il virginiano) e di parecchia narrativa di ambientazione western, aveva acutamente associato all’ondata di storie prodotte e fatte circolare da pulps e dime novels, con un preciso presentimento per le conseguenze della serialità “industriale” di massa che sarebbe arrivata di lì a poco. L’editoria italiana, poi – che pure ha sempre pronta una casella vuota per “l’ultimo scrittore/romanzo americano di successo” – si è spesso mostrata riluttante nell’assecondare gli autori di detection d’oltre oceano, sospettosa forse del fatto che certi successi fossero troppo repentini o troppo idiosincraticamente “americani”, ovvero difficilmente adattabili alla nostra sensibilità.

Per questo motivo, un quadro complessivo del genere e le carriere di parecchi scrittori, ricostruibili attraverso le date di pubblicazione nostrane, rischiano di risultare veri e propri puzzles. Certi personaggi famosi esordiscono in Italia solo a partire dal terzo o quarto libro, salvo poi recuperare – eventualmente – le prime avventure, quelle che li hanno visti farsi largo nel mare magnum della detection, alla faticosa ricerca di un’identificazione, se non proprio di un’identità. Se prendiamo a esempio Frank Morrison, meglio conosciuto come Mickey Spillane, il suo I, the Jury (1947) arriva con qualche anno di ritardo al pubblico italiano: compare solo nel 1953, col titolo Ti ucciderò. Nello stesso anno escono da noi One Lonely Night (1951), forse la sesta fatica dell’autore, presentato ai lettori come Tragica notte, e The Big Kill (1951), ovvero Il colpo gobbo, seguìti a ruota da The Long Wait (1951), titolo italiano La lunga attesa.

Certo, nel 1953 il caso-Spillane è diventato così eclatante – internazionalmente – che non si può proprio fare a meno di proporre un autore così controverso ma di così grande successo. Solo più tardi, nel 1954, viene recuperato Vengeance Is Mine (1950), terza avventura con Mike Hammer come protagonista, pubblicato come La vendetta è mia; mentre un ritmo sequenziale, più o meno parallelo alle uscite americane del romanziere, viene ripreso con Kiss Me, Deadly (1952), presentato da noi come Bacio mortale nel 1955. Solo nel 1956 viene finalmente pubblicato il secondo romanzo della serie dedicata a Hammer – potenzialmente non ancora conclusa – l’inquietante My Gun Is Quick (1950) ribattezzato Una ragazza e una pistola.

E’ pur vero che la serialità di massa consente fruizioni particolari là dove è possibile perdere qualche pezzetto senza compromettere la comprensione del senso complessivo di una serie, ma, disorientato dalla cronologia nostrana, il lettore italiano dello Spillane/Hammer degli anni Cinquanta potrebbe aver perso il senso dell’accumulazione del personaggio, la sua evoluzione nel gioco dell’intertestualità, ovvero quella stratificazione di rimandi offerta dalla cronaca, dal cinema, dalla pubblicità, che tanta importanza ha nella definizione del fenomeno. Potrebbe non aver collocato bene quel “fascismo” maccartista di Spillane – declinato in nome di una radicalità ur-americana, puritana e xenofoba – né letto quella escalation dal detective all’agente segreto che avrebbe poi dato origine alle contaminazioni tra “neri” e “gialli” e relative collane, né, ancora, colto lo sdoganamento non tanto di Hammer, quanto della prosa spillaniana, finita ad esempio, con i dovuti filtri e per ammissione dei suoi stessi autori, a tingere di sé il linguaggio di un fumetto nostrano al di sopra di ogni sospetto come Tex Willer,“democratico” e persino progressista.

Quanto detto per Spillane vale anche per tantissimi altri autori, da Jonathan Latimer a David Goodis, da Cornell Woolrich a Jim Thompson, ma lasceremo al lettore appassionato l’esercizio di controllare le discronie evidenti tra bibliografie e cronologie americane e italiane. In ogni caso, lo scacchiere del romanzo giallo americano pubblicato in Italia è una specie di rete a maglie larghe – parecchie cose vi si sono impigliate, molte altre sono sfuggite – ma la fortuna dei suoi esiti è indubbia, anche in virtù delle disseminazioni che il cinema ha operato a partire dal suo immaginario. “Il cinema è certamente un canale privilegiato della seduzione americana” (NOTA 1) e va detto che uno degli elementi della fascinazione di quel cinema in quegli anni del dopoguerra è il progressivo scioglimento dei territori dell’Eros incarnati nei corpi di divi e divine. Questo particolare aspetto provoca da noi non pochi problemi, soprattutto perchè il sistema-cinema del dopoguerra in Italia colloca il noir – così il Bmovie, così anche “autori” al di sopra dei generi come Hitchcock, Hawks, Wilder, Ford e magari Welles – in una specie di limbo, in una terra di nessuno nei confronti della quale la critica cattolica e quella marxista, che si dividono il campo, non sempre trovano le categorie efficaci per intervenire, complice forse il beneficio del dubbio di fronte all’ambiguità tipica, se non programmatica, del genere.

Persiste in Italia una sorta di pregiudizio nei confronti della serialità letteraria che, tutto sommato, stenta ad essere presa sul serio – tranne poche eccezioni, come il Moravia che stravede per La dama della morgue del già citato Latimer – al punto che capita troppo spesso che l’editoria tratti malamente i propri “gioielli”, giusto per risparmiare su tempi e costi. Di routine, traduzioni e adattamenti diventano tradimenti e tagli ingiustificati ai testi, ma è soprattutto nelle sfumature e nei dettagli essenziali – mi si perdoni l’ossimoro – che in Italia ci siamo persi davvero molto.

Prendiamo – del tutto a caso – The Galton Case di Ross Macdonald (nom-de-plume di Kenneth Millar), pubblicato negli Stati Uniti nel 1959 e uscito in Italia il 20 marzo 1960 come A un passo dalla “sedia”, romanzo numero 581 del «Il Giallo Mondadori». E’ l’ottava storia in cui compare il detective Lew Archer – quello, per intenderci, portato sugli schermi da Paul Newman con il nome cambiato in Harper (il gossip di Hollywood dice per via di una superstizione dell’attore, convinto che i personaggi con iniziale “H” gli portino fortuna) –, probabilmente la prima, almeno a dare ascolto a diversi critici, a uscire decisamente dalla nicchia del romanzo di genere. Se anche i romanzi precedenti di Macdonald si erano segnalati per la cultura che vi si addensava, questo è letteratura “d’autore” che si adatta alle forme della detective-story. (NOTA 2)

Occorre premettere che pare “caratterialmente” impossibile per i traduttori italiani rispettare la punteggiatura, il ritmo secco ed essenziale dell’hardboiled, in qualche misura persino derivato dal plain style puritano: le frasi brevissime dell’inglese vengono inesorabilmente accorpate in periodi lunghi che tradiscono il respiro e la percezione di una filosofia del mondo. Questo detto, l’Italia pare proiettare un’America evidentemente allucinata attraverso le lenti deformanti dell’“American Dream”: nel descrivere l’ufficio legale Wellesley & Sable, a fronte di un ascensore che “lifted you from a bare little lobby into an atmosphere of elegant simplicity”, la traduzione offre: “un ascensore privato caricava i clienti in un piccolo vestibolo spoglio e li trasportava in un’atmosfera di eleganza raffinata”. Insomma, dalla semplicità elegante all’eleganza raffinata ne passa… ma questo è il mondo – da noi ancora sconosciuto alla fine degli anni Cinquanta – degli avvocati, è l’America dei ricchi, è l’universo del divorzio e qui è tutta una salivazione piccolo-borghese per certi simboli di libertà individuale – largamente maschile, andrebbe aggiunto. In questo modo il lettore finisce per non prendere le misure a un certo ambiente, soprattutto se nell’originale gli occhi di Lew Archer situano “culturalmente” lo studio legale: “Audubon prints picked up the colors and tossed them discreetly around the oak walls. A Harvard chair stood casually in one corner. I sat down on it, in the interests of self-improvement, and picked up a fresh copy of the Wall Street Journal” dice l’originale; “Appese alle pareti di lucida [perché mai “lucida”? NdR] quercia stampe che riprendevano i colori dei fiori rallegrando l’ambiente con discrezione. In un angolo, una poltroncina, che pareva messa lì per caso. Sedetti e presi una copia del Wall Street Journal” dice il testo italiano. Citare Audubon porterebbe direttamente agli occhi del lettore – certo, quello minimamente colto, americano o italiano che sia – le “sue” celeberrime stampe (fiori, piante, animali d’America); quanto alla “Harvard chair” – quelle seggiole di legno un po’ pretenziose, con il logo dell’università, che un tempo venivano regalate alle matricole e che si vedono talvolta in case e uffici a proiettare con discrezione l’affiliazione del proprietario con la più prestigiosa università del mondo – e al fatto che Archer si sieda proprio su di essa “nell’interesse dell’auto-apprendimento”, la sparizione di ogni riferimento nella traduzione italiana cancella con un colpo di spugna ogni effetto autoironico – argutamente innestato sull’hard-core della tradizione anti-intellettualistica della cultura popolare americana – nella costruzione della figura del detective. Si tratta invece di un sintomo molto importante in Macdonald, utile per cogliere i segni del cambiamento nell’intera genealogia della figura del detective. E’ solo banale aggiungere che il successivo “Lasciai la poltroncina, con l’impressione di essere quasi espulso” – traduzione di “I got up out of the Harvard chair. It was like being expelled” – abbandona a se stesso il povero lettore italiano che non capisce bene a cosa sia riferito questo senso di “espulsione”, finemente costruito dall’autore non solo attraverso la chiamata in causa di Harvard – si badi, mediante un understatement riferito all’oggetto d’arredamento – e dell’esclusivismo (perfettamente falsificabile) della cultura e delle istituzioni pubbliche americane, ma anche attraverso un primo paragrafo che faceva trapelare l’illusione secondo cui, “dopo anni di lotta si potesse finalmente salire senza sforzo al proprio livello naturale, quello dei privilegiati”. E’ la falsa ingenuità di un detective evidentemente attento alla vita del paese, in sintonia con gli avvenimenti del dopoguerra, in particolare le lotte per i diritti civili, e disposto a mettere in discussione la filosofia di base del puritanesimo e dell’eccezionalismo americano: l’originale utilizza “one of the chosen”, uno dei prescelti, ovvero la terminologia religiosa degli “eletti da Dio”. (NOTA 3)

Poche pagine dopo, una battuta di Archer che divide il mondo (quello della gente in cerca di un lavoro da assistente-detective) tra “squares” e “hipsters” – due termini ben presto entrati nell’uso dell’inglese comune, che fotografano all’istante l’America post-Beat Generation – viene offerta in traduzione come alternativa tra “quelli seri” e “gli altri”, scelta del tutto inefficace se volessimo poter cogliere filosofie, epistemologie e idiosincrasie della detection di Macdonald e più in generale di quella americana.

Una realtà come questa potrebbe dire del prezzo pagato, da noi, per non poco tempo, dal noir divenuto poi classico dei vari Goodis,Woolrich, Thompson e di epigoni come Elmore Leonard o James Ellroy, che ha avuto bisogno di tempi lunghi per arrivare ad avere il meritato riconoscimento. (NOTA 4)

Quanto al rinforzo sinergico del genere in Italia, poi, si potrebbe anche fare riferimento al ruolo della televisione: sullo sfondo di un immaginario diffuso di America “hardboiled” nel senso profondo del termine, da cogliersi neorealisticamente nei suoi risvolti più prosaici, violenti e scioccanti, la nascente, democristianissima tv provvede ovviamente a smussare ed edulcorare il tutto per il pubblico di massa. Basterebbe comunque annotare piccoli ma significativi sintomi come il primo sceneggiato in assoluto girato dalla struttura sperimentale della nascitura RAI (Dopo cena, del marzo 1952, per la regia di Mario Landi, interpretato da Ubaldo Lay) o come l’America reinventata e rimessa in scena per Giallo Club (viene in mente Delitto a tempo di rock, del dicembre 1959, quinto episodio del primo ciclo della serie, protagonista il tenente Sheridan, ancora Ubaldo Lay) e nei successivi “originali televisivi” di Casacci-Ciambricco, o ancora come il successo di Perry Mason, ispirato ai romanzi di Erle Stanley Gardner (serie presente sugli schermi della nostra tv dal 1959 al 1967), tanto per metterne in fila alcuni.

Per completare un quadro, sia pure minimale, della fortuna del giallo americano nel nostro paese, resta probabilmente da dire della risposta italiana alle pressioni del complesso “class/ethnicity/gender”, ovvero le griglie culturali legate a classificazioni di classe, etnia o razza, e genere sessuale, che negli Stati Uniti hanno influenzato negli ultimi decenni sia la macchina editoriale, sia quella della produzione di entertainment di massa, Hollywood compresa, pur con i suoi tempi e i suoi registri.

Quanto a class, dopotutto una cultura di classe non esiste negli Stati Uniti d’America nei termini in cui la pensiamo in Europa e dunque, forse, un detective “di sinistra” non è mai apparso tra le sponde dell’Atlantico e del Pacifico, e non bastano certe battute marxiane sparse tra le pagine dell’hardboiled a far gridare “al lupo!” Qualcuno comunque ci ha provato ad abbattere il muro di Berlino con la detection ed è spuntato l’Arkady Renko di Martin Cruz Smith, il cui Gorky Park (1981) ha inaugurato una serie di romanzi sul poliziotto investigativo moscovita, ma non mi risulta che i romanzi successivi al sensazionale successo internazionale del primo – poi amplificato dall’omonimo film, diretto da Michael Apted nel 1983 per l’interpretazione di William Hurt – o, ad esempio, quelli che negli anni Ottanta Stuart Kaminsky ha costruito intorno al personaggio di Porfirij Rostnikov, abbiano lasciato tracce profonde sul pubblico dei lettori.

Quanto al gender, negli Stati Uniti un giallo “al femminile” ha trovato spazi fecondi: non poche autrici hanno contribuito a mettere in discussione e ad ampliare l’immaginario di genere – una sorta di club, lo ricordiamo, declinato quasi esclusivamente al maschile. Da Amanda Cross a Sara Paretsky, da Sue Grafton a Patricia Cornwell – per non dire di una pioniera come Dorothy Sayers e di quel genio assolutamente originale di Patricia Highsmith – questa narrativa ha (di)mostrato che non c’è un solo modo per guardare le donne, che queste non hanno un solo modo per guardarsi, e che il mondo delle crime stories può benissimo offrire spunti concreti per articolare interessanti paradigmi del femminile. Da Harriett Vane (Dorothy Sayers) a Kate Fansler (Amanda Cross), da Sharon McCone (Marcia Muller) a Kinsey Millhone (Sue Grafton), da V.I. Warshawski (Sara Paretsky) a Kay Scarpetta (Patricia Cornwell) si sono avvicendate, e continuano ad avvicendarsi, sulle scene della detection parecchie protagoniste le cui indagini – professionali o amatoriali che siano – hanno trovato una qualche sponda tra i lettori italiani. Eppure viene il sospetto che da noi il pubblico tratti lavori del genere quasi in chiave hobbistica, palesando una certa qual riluttanza ad allargare lo sguardo su una questione femminile più ampia e profonda, come se risultasse difficile credere fino in fondo a una narrativa come questa. (NOTA 5)

Quanto all’ethnicity, si potrebbe forse ripetere un discorso analogo, per quanto esista una tradizione nella detection americana che si tinge di melting pot: si potrebbe andare dalle origini greche del Nick Charles (Charalambides) dell’Uomo ombra di Dashiell Hammett alla pletora di investigatori orientali, da Charlie Chan a Mr. Moto, in auge tra gli anni Trenta e Quaranta. In tempi più recenti, uno scrittore come Tony Hillerman ha lanciato con successo i “Navajo mysteries” del caporale di polizia Jim Chee – mentre con gli Hopi si è cimentato anche Martin Cruz Smith, che ha pure flirtato con la comunità zingara di New York – e si sono fatti strada investigatori afroamericani come lo Easy Rawlins di Walter Mosley, (NOTA 6) ebrei come gli spoofs del “very hardboiled novel” (NOTA 7), hawaiani come la coppia Cobb Takamura (tenente di polizia) e Chazz Koenig (biologo molecolare) di Rob Swigart, greco-americani come il washingtoniano Nick Stefanos di quella recente superstar del genere che risponde al nome di George Pelecanos (NOTA 8), chicani come la Elena Oliverez di Marcia Muller. (NOTA 9)

Per la verità, è vero anche il contrario, ovvero che non pochi autori “borderline” siano stati tradotti prima dalle serie popolari poi, solo più tardi, ripubblicati in collane – magari degli stessi editori – sempre meno di genere e sempre più “letterarie”.

Oggi poi, per monitorare accumulazioni e stratificazioni del genere “giallo”, dunque per mantenerne a fuoco storia, genealogia, tematiche, problemi, evoluzione – ovvero per tracciare bilanci di fortune e differenze in sede transnazionale (NOTA 10) – non è più possibile sottacere i rimandi, le strizzatine d’occhio e i giochi di rifrazione tra letteratura, cinema, televisione, fumetto, pubblicità, computer games, persino musica, se è vero che, tanto per fare un esempio a me caro, le sollecitazioni di un lavoro tra jazz e avanguardia come Spillane (1987) dell’altosassofonista e comositore newyorkese John Zorn, con le suggestioni sonore, gli umori, le voci e i rumori dell’hardboiled hanno probabilmente incuriosito alla lettura generazioni di giovani altrimenti impermeabili ad esso. (NOTA 11)

NOTA 1 – G.P. Brunetta, Buio in sala, Marsilio, Venezia, 1989, p. 257.

NOTA 2 – Macdonald pare prendere spunto dalla vicenda elaborata sulla pagina per scandagliare la propria autobiografia – il padre abbandonò ben presto la famiglia e lui trascorse l’infanzia sballottato da un parente all’altro – e offrire un interessante equilibrio tra la suspense e l’approfondimento di temi complessi.

NOTA 3 – Certo, è solo un esempio, ma è il sintomo della prassi, più che di un’eccezione, nella ricezione italiana del genere che abbiamo chiamato “giallo”: probabilmente non intacca il senso complessivo del suo successo, ma ne segna la qualità, ne limita la portata e ne disperde la ricchezza delle stratificazioni testuali.

NOTA 4 – A volte, poi, certe rigidità di collana nell’editoria italiana, ovvero inciampi nella definizione dell’identità di un genere, creano problemi a una narrativa americana che spesso si muove a tutto campo, forte – o debole che dir si voglia – di definizioni a maglie larghe (come crime fiction) e scaffali più accoglienti e meno “segregati” in libreria per volumi che non vengono certo distribuiti in edicola.

NOTA 5 – Non a caso, non mi risulta che un’antologia interessante come A Woman’s Eye. New Stories by the Best Women Crime Writers, curata nel 1992 da Sara Paretsky per la Virago Press, sia mai stata tradotta in italiano.

NOTA 6 – Naturalmente, negli anni Cinquanta e Sessanta c’erano già stati i romanzi di Chester Himes – pubblicati in Francia dalla Serie Noire prima ancora che negli Stati Uniti – incentrati sulla coppia di investigatori della polizia di Harlem “Coffin” Ed Johnson e “Grave Digger” Jones, cool e stralunati, o il Virgil Tibbs di John Ball significativamente portato sugli schermi da Sidney Poitier nel celebre In the Heat of the Night (Norman Jewison, 1967; La calda notte dell’ispettore Tibbs) e in altre due pellicole, oppure la piccola serie di film seguiti al celebre Shaft (Gordon Parks, 1971; Shaft il detective), protagonista l’“harlemita” John Shaft creato da Ernest Tidyman, riletto qualche anno dal regista afroamericano John Singleton (Shaft, 2000) per l’interpretazione di Samuel L. Jackson).

NOTA 7 – Cfr. F. Minganti, Chi investiga cosa? Appunti sul ‘very hard-boiled novel’, in «Quaderni dell’Istituto di Filologia Germanica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna», vol. II, 1982.

NOTA 8 – Pubblicato in Italia dalla milanese Shake Edizioni.

NOTA 9 – Viene in mente un’altra antologia, sintomaticamente mai tradotta in italiano, The Ethnic Detectives, curata da Bill Pronzini e Martin H. Greenberg nel 1985 per l’editore Dodd, Mead & Company.

NOTA 10 – E non si dirà degli effetti di certi cloni italiani “più americani degli americani” che, naturalmente, entrano in circolo nel gioco delle rifrazioni di cui si sta dicendo.

NOTA 11 – Cfr. F. Minganti, L’universo sonoro dell’‘hard-boiled’, «Cinema & Cinema», 60, gennaio-aprile, 1991

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • Jhon Zorn,incontrato mentre Spillaniavo vino da una fontana mi dice,trovandomi d’accordo,se i “Duellanti “Franco e Daniele potevano rimandare al 29,anche al 30 febbraio:le palline di carta saranno meno gelate e saranno piu precise nel l’intravedere cibo per la mente… Tu Daniele,che eri sempre il primo quando c’era da difender i compagni dai fasci,e l’ultimo ad andare via dopo aver loro divorato il fegato… vuoi marcare da bravo ragazzo,come poi siamo,e me fai una tenerezza,che scaturisce inevitabilmente dalla nostra durezza verso chi vorrebbe calpestare la nostra Dignita… Perdona la trasgressione,non riuscivo ad accordare le tastiere stasera e come sai il piano è uno strumento a percussione,son passato per forza di cosa ai tamburi di guerrilla.

  • caro Marco,
    trooooooooooooooppo buono (come sempre). In effetti il 30 febbraio fa più caldo, se Franco è d’accordo rimandiamo… Ci sono già prenotazioni da un paio di galassie per assistere e Benny Cemoli ha escluso la diretta tv. Subito Cicinelli – è ovvio – si è proposto per la radiocronaca. Già me lo sento (con quel suo tipico accento valdostano): “Aho, semo in onda. Qui se meneno per davvero, mica carote. Adesso er Minganti schiva un fendente Iww der Barbieri, robbba tosta, e se nun sapete kedè Iww studiate caproni che le Gelmini passeno e le teste resteno. Ma ecco che Franco Minganti replica con un gancio di Guthrie e vaaaaaaaa a segno; lieve ferita al sopracciglio del Barbieri ma i giudici dicono che il duello può continuare…”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *