Sanità: “Investire nel privato non…

… non giova alla salute pubblica: link alla “lezione” di Silvio Garattini al convegno – 6 febbraio – dell’Istituto Mario Negri.

di Simonetta Pagliani (ripreso da www.scienzainrete.it/)

e un’analisi molto interessante di Carlo Bonini, Michele Bocci, Antonio Fraschilla (da La Repubblica)

In tutte le democrazie occidentali, sempre più si va verso una sanità privata e l’outsourcing di istituzioni che prima erano gestite dallo Stato: un recente convegno all’Istituto Mario Negri ha riportato l’attenzione su questi temi, analizzandone le implicazioni.

 

Privatocrazia: oltre il mantra della parità pubblico-privato in sanità è l’eloquente titolo di un convegno organizzato dall’Istituto Mario Negri di Milano lo scorso 6 febbraio, e che ha affrontato con nettezza la contraddittorietà di un sistema sanitario nato pubblico nel 1978 e poi scivolato in una problematico condominio con la sanità privata, che in regioni come la Lombardia ha decisamente preso il sopravvento su una controparte pubblica via via più debole e impoverita. La fondamentale legge 833 del 1978 aveva fatto dell’Italia un avamposto dell’applicazione del costituzionale diritto alla salute nel mondo intero, sancendo l’universalità della copertura del Servizio sanitario nazionale.

In questo momento, il nostro sistema sanitario è ancora effettivamente universale. Tuttavia, alcuni principi stanno venendo meno, come quello per il quale tutti i cittadini devono essere curati nello stesso modo. Non è così, in un’Italia dove non solo permangono, ma si acuiscono, disparità di assistenza tra regione e regione così gravi da portare a una differenza di 13 anni di vita in salute tra chi abita in Alto Adige e chi abita in Calabria.

Accesso negato nel pubblico, le scorciatoie nel privato

Anche la globalità delle prestazioni erogate è ormai messa in discussione: la gamma delle prestazioni in capo al servizio sanitario è molto ampia nel testo di legge ma, nella realtà, i LEA (livelli essenziali di assistenza) che avrebbero dovuto essere il “pavimento” sotto il quale non bisognava scendere, sono ora una chimera irraggiungibile in molte situazioni nazionali: LEA e LEP (livelli essenziali di prestazioni) sono ormai diritti esigibili per prestazioni non disponibili, in termini di presenza regionale, di tempi d’attesa e di qualità non sufficiente. Infine, i ticket sanitari sono differenziati per regione, pur su LEA identici.

Nel 2016, l’Italia era al 6° posto per percentuale di popolazione che non accedeva ai servizi sanitari; nel 2021 tale percentuale è salita all’11%, in tutte le regioni ma soprattutto al Sud. La crisi economica, accentuata dalla pandemia, ha portato alla rinuncia a spendere per la propria salute o all’impoverimento a causa dei consumi sanitari. La migrazione sanitaria, indice della disuguaglianza assistenziale, è aumentata del 50%, con trasferimento di risorse dalle regioni più povere alle regioni più ricche (e soprattutto al loro settore privato, più o meno convenzionato, più o meno mascherato) e, per di più, tali risorse sono spendibili solo da alcuni ceti sociali.

Quando è stata emanata la legge 833, la fiscalità era concepita in modo tale che il concorso alla spesa sanitaria era suddiviso in base alle risorse economiche di ciascun cittadino; ora, però, la progressività fiscale è stata gradualmente mutilata, con la conseguenza di alleviare il peso ai ricchi e di scaricarlo maggiormente sui poveri. In Italia ci sono 50 miliardari che hanno la stessa ricchezza dei 18 milioni più poveri: va impedito che la salute diventi l’appannaggio dei più ricchi.

Nei quarant’anni passati dal varo della legge, gli italiani hanno introiettato i principi di una sanità pubblica che, pur essendo sotto-finanziata (il fondo sanitario nazionale è il 6,1% del PIL, sotto il minimo adeguato di 6,5 secondo l’ONU e la metà della percentuale tedesca), ha prodotto ottimi indicatori di sopravvivenza, molto migliori, per esempio, di quelli degli USA, che pure devolvono alla sanità il 15% del PIL. Devono, perciò, vigilare perché tale eccellenza sanitaria generalista non vada progressivamente erodendosi: l’ipotesi di legge dell'”autonomia regionale differenziata”, invece di spingere verso l’uguaglianza tra le regioni, tende ad accentuarla. Si pensi che la spesa sanitaria pubblica finanzia ora fornitori pubblici per il 70% e per il 30% fornitori privati, ma le percentuali si stanno avvicinando; portabandiera di questa tendenza sono Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, che vogliono avocare a sé la governance di tutti gli enti sanitari e persino della prescrivibilità dei farmaci, pretesa che viene meno al dovere di solidarietà nazionale.

Il tramonto della sanità pubblica

A dispetto di tutte le prove esistenti sul rapporto inverso tra salute dei cittadini e assenza di un sistema sanitario universalistico, ovunque, in Occidente, vi è un restringimento della sanità pubblica a favore di quella privata. Negli Stati Uniti esso è palese (limitazione della popolazione assistita e riduzione delle prestazioni disponibili), ma anche in Italia questa tendenza è in atto da più di un decennio, serpeggiando, talvolta, in modo “carsico”, con la riduzione dell’accessibilità alle prestazioni, con la defiscalizzazione che toglie risorse alla sanità pubblica, con l’affidamento a privati di servizi assistenziali e diagnostici, con la collocazione in edifici privati di presidi di sanità pubblica.

Dagli anni ’70, d’altronde, è in atto in tutte le democrazie occidentali, una trasformazione della sanità in senso neoliberistico, in cui il primato è attribuito al mercato, che impone l’esternalizzazione (outsourcing) di tutte le istituzioni che un tempo erano in mano allo stato, in un regime in cui il privato diventa co-gestore delle risorse pubbliche. In Italia, per ora, l’esternalizzazione ha raggiunto solo marginalmente il nocciolo della cosa pubblica, ma lo sta assediando. La progressiva introduzione di strategie di mercato nella conduzione della res publica ha millantato una maggiore efficienza e un risparmio per i cittadini, ma nei paesi dove essa è più pronunciata (USA) ha già fallito in molti settori, da quello della sanità a quelli dell’istruzione e persino a quello militare.

È, comunque, un errore valutare la privatizzazione solo o soprattutto in termini costi-benefici economici: occorre valutarla rispetto al suo peso sulla legittimità stessa delle istituzioni democratiche. Come è stato ribadito durante il convegno, lo stato non è un’azienda, ma il luogo di esercizio dei diritti umani in assenza di dominio e di arbitrio. Questa è la lezione di Kant: nello stato pre-civile, è l’individuo a decidere i limiti della libertà altrui, in base al proprio potere fisico o economico. Solo lo stato democratico può definire e implementare i diritti, in nome della collettività. Le esternalizzazioni, che delegano ai privati grandi discrezionalità su tali diritti, mettono quindi a repentaglio le basi stesse della democrazia: l’appalto a organizzazioni private di funzioni pubbliche inficia la possibilità di controllo da parte dello stato, che ne viene depotenziato, mina la capacità di vigilanza civica, determinando la cosiddetta “apatia civica”, per la molteplicità degli attori in ballo e per la difficoltà di riconoscere i responsabili di eventuali carenze di servizio.

Persino le associazioni no profit possono contribuire a depotenziare le funzioni pubbliche, spesso mischiando laico e religioso e albergando, in mezzo a organizzazioni socialmente benemerite, altre affette da corruzione.

Privatizzandosi, insomma, lo stato abdica alla sua responsabilità primaria di creare situazioni di giustizia per tutti, in assenza di dominio. Silvio Garattini ha chiuso il convegno con una lectio magistralis che ha richiamato tutti i temi cari alla medicina democratica, dalla sostenibilità ambientale alla non liceità morale dei brevetti sui farmaci utili, dalla facilità di autorizzazione di famaci inutili alla necessità di allineare le assunzioni e la retribuzione del personale sanitario alle medie europee e di aumentare il fondo sanitario nazionale. Vale la pena di leggerla (o ascoltarla) per intero.

QUI

Ascolta l’intervento integrale di Silvio Garattini

da qui

 

 

La grande crisi del sistema sanitario pubblico

(di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Michele Bocci, Antonio Fraschilla – repubblica.it)

Liste d’attesa infinite, medici che lasciano gli ospedali, malati di tumore che non riescono a fare esami ed interventi in tempo utile per salvarsi la vita. E, ancora, pronto soccorsi diventati dei gironi infernali. La sanità pubblica italiana sta morendo e ha bisogno di soldi per sopravvivere. Eppure, il governo non sembra averne consapevolezza. Vanta infatti di aver incrementato il fondo sanitario nazionale (che effettivamente sta crescendo) ma finge di ignorare che intanto il suo valore percentuale rispetto al Pil sta calando. Il che significa che il finanziamento e pure la spesa, anche confrontati con l’inflazione, di fatto si stanno riducendo. Un chiaro segnale di disinvestimento.

Le grida d’allarme ormai arrivano da ogni parte: dai sindacati, dalle Regioni, dai medici, dagli infermieri e dagli stessi cittadini prigionieri delle liste di attesa. In generale, da chiunque abbia a cuore un sistema che ha regalato agli italiani un’eccellenza pubblica praticamente unica in Occidente. Il numero di letti ospedalieri diminuisce e sul territorio non si creano servizi adeguati ad assistere chi non viene ricoverato. Ci sono medici che fuggono da alcuni reparti nei quali non vogliono andare neanche i camici bianchi appena assunti. L’offerta specialistica rallenta e i cittadini che non vogliono aspettare devono spendere altri soldi per comprare le prestazioni sanitarie. Il privato così cresce e nei prossimi anni continuerà a farlo con ancora più forza, fino a diventare un pezzo fondamentale del sistema di assistenza. Chi non potrà pagare resterà tagliato fuori dalle cure. O le avrà di peggiore qualità.

Il vuoto

In questi venti anni, con i governi di Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi e ultimo Meloni, c’è stata una continua erosione del sistema. Si è creato un grande vuoto, perché la domanda di salute e di cure è incrementata a causa dell’aumento della popolazione di due milioni di persone, della crescita dell’età media e del venir meno del tessuto di relazioni familiari. Così la sanità privata si è radicata sempre di più dalla Lombardia alla Sicilia e, guarda caso, ha rafforzato i suoi rapporti con la politica con un continuo entra ed esci da porte girevoli: ci sono grandi patron della sanità privata sbarcati in politica, come Antonio Angelucci, e politici diventati oggi presidenti di gruppi importanti della sanità privata, come l’ex ministro Angelino Alfano. C’è un modello, quello di Roberto Formigoni in Lombardia, sposato ormai da un bel pezzo del Paese, dai governi Cuffaro in Sicilia a quelli del centrodestra e del centrosinistra in Calabria, Puglia e Lazio.

Ma questo riempire il vuoto ha un costo che qualcuno paga ogni giorno: chi non ha assicurazioni sanitarie, chi non ha redditi elevati da permettersi migliaia di euro per esami e interventi. Non i poveri, anzi non solo i poveri, ma una buona parte delle famiglie italiane che rinunciano ormai ad altre spese per curarsi. Perché non solo nella costosa e ricca Milano dei colossi della sanità privata, dall’Humanitas al San Raffaele, ma anche nell’ospedale pubblico del più profondo dei Sud occorre pagare per avere cure in tempi accettabili. Le segnalazioni di cittadini costretti a spendere per fare prima non si contano e arrivano da tutto il Paese.

Invertire la tendenza si può ma non bastano gli incrementi da 2 miliardi del fondo sanitario (sui 128 di quest’anno) sventolati dalla destra al governo come un successo. Va alzata la percentuale della spesa sanitaria rispetto al Pil, diretta mestamente verso un misero 6,1% a detta dello stesso esecutivo. Appunto, ci vogliono grandi investimenti. Un piano per la sanità da almeno 18 miliardi. Ma sarebbe meglio da 25.

65 mila posti letto perduti

C’è il piccolo ospedale di città che non aveva ragione di esistere, perché si trovava vicino a centri più grandi, ma c’è anche la struttura che in una zona isolata garantiva assistenza ai cittadini. In vent’anni In Italia gli ospedali pubblici sono passati da 777 a 516, mentre il numero di quelli privati accreditati è stabile e adesso le cliniche sono quasi lo stesso numero dei centri pubblici. E mentre la sanità si è ritirata, la popolazione è cresciuta, passando dai 57 milioni del 2001 agli attuali 59. Tra il 2001 e il 2019 i posti letto sono diminuiti quasi di un terzo, cioè di 65 mila. Nel 2020 con il Covid si è stati costretti ad aprirne 40mila, destinati a chiudere di nuovo in questi anni. Anche in questo caso, lo sbalzo per il privato è stato meno importante.

Dietro alla riduzione di ospedali e letti c’è prima di tutto un miglioramento clinico e tecnologico della sanità, che ha portato a ridurre le degenze e, ad esempio, ad operare in day surgery problemi che un tempo richiedevano il ricovero. La medicina cresce, le strutture diminuiscono. Fin qui non ci sarebbero problemi. “Sì, certo, questo è vero – spiega Carlo Palermo, presidente del principale sindacato degli ospedalieri, Anaao – La medicina è cambiata ma se ci paragoniamo a tutte le altre grandi nazioni il calo del numero di letti da noi è stato troppo accentuato”. Soprattutto, secondo il sindacalista, non è andato di pari passo con la crescita di altre attività di cura: “Penso all’assistenza territoriale. Basta vedere l’accesso spropositato ai pronto soccorso di persone con problemi banali, che andrebbero seguite altrove, per capire che qualcosa non torna. E nel frattempo aumentano i malati cronici che finiscono nei reparti di emergenza e non hanno un letto dove essere ricoverati”. Per Palermo “mancano tutte le strutture intermedie, i famosi ospedali di comunità. Ma siamo anche senza assistenza domiciliare, strutture di fisioterapia. A sviluppare tutto questo dovrebbe pensarci il Pnrr ma il problema è che manca il personale. Ecco, chi lo fa viaggiare il nuovo sistema?”.

Il numero dei camici bianchi negli ultimi 20 anni è stabile, intorno ai 108 mila. “Il punto – dice Palermo – è prima di tutto che i dottori italiani sono tra i più anziani. Il 56% ha più di 55 anni mentre in Inghilterra non raggiungono il 20%. Succede quindi che ogni anno vadano in pensione più persone di quelle che entrano nel sistema. Poi non basta vedere il totale ma bisogna andare nei reparti. Pronto soccorso, anestesie, chirurgie generali, pediatrie hanno ormai ben noti problemi di personale. Ci sono settori, come l’emergenza, dai quali i colleghi scappano, magari per mettersi in proprio e lavorare a gettone. È stata sbagliata la programmazione nel decennio precedente e ora è difficile recuperare. I ministri alla Salute Giulia Grillo e Roberto Speranza hanno incrementato in modo consistente i contratti di formazione ma ci vorrà ancora un po’ di tempo prima di vedere gli effetti, visto che per specializzarsi ci vogliono 4 o 5 anni”…

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