Ghassan Kanafani e…

«La terra degli aranci tristi»

Dopo i 12 anni Ghassan Kanafani non festeggiò più il compleanno: era nato il 9 aprile 1936 ad Acri (allora occupata dagli inglesi) ma quel giorno, nel 1948, vi fu il massacro di Deir Yassin e da allora lui non volle più associare la sua nascita al lutto. Quando gli israeliani invasero le terre palestinesi la sua famiglia fuggì in Libano e poi in Siria. Kanafani divenne scrittore, giornalista e poi portavoce del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina. Fu ucciso a Beirut, l’8 luglio 1972, in un attentato rivendicato dal Mossad, i servizi segreti di Israele.

Uno dei più importanti scrittori palestinesi: il giudizio è unanime. Il suo romanzo «Uomini sotto il sole» (*) è conosciuto in mezzo mondo anche per il film di Tawfiq Saleh e soprattutto per le molte versioni teatrali. Ma in Italia Kanafani è pochissimo tradotto. Un grazie dunque va all’Associazione amicizia Sardegna Palestina che pubblica «La terra degli aranci tristi» (96 pagine, 10 euri) con 8 racconti – scritti fra il 1956 e il ’62 – intensi per emozioni e scrittura. La traduzione è di Chiara Brancaccio, la bella prefazione di Wasim Dahmash. Il ricavato delle vendite andrà alla fondazione intitolata a Kanafani per creare asili e centri di riabilitazione nei campi profughi palestinesi e nelle zone più depresse del Libano. Se faticate a trovarlo in libreria andate su www.sardegnapalestina.org e ordinatelo lì.

«Non dubitai che il Dio conosciuto in Palestina aveva dovuto lasciarla anche lui e anche lui era diventato
 profugo, chissà dove, incapace di risolvere i suoi stessi problemi». Umiliazione, impotenza, censura (e
 auto-censura) sulla verità, desideri di fuga contrapposti alla necessità etica di tornare nella patria perduta,
 «il fetore della sconfitta»: sono questi i sentimenti che attraversano i racconti, alcuni realistici e altri giocati
 in chiave surreale. C'è una madre che, dopo 20 anni, «ingoia le lacrime amare di una tragedia che ancora
 oggi abita nei suoi occhi». C'è il coraggioso Abdu Ali che sparisce nel nulla. Ci sono le visioni di un
commissario quando ripensa al ragazzo «che è saltato dalla finestra durante l'interrogatorio». La metafora
 dell'esaurimento nervoso che tutti conoscono e nessuno sa spiegare. «La negazione – scrive Dahmash nella
 prefazione – di una vita normale per tanta gente».
Il primo racconto si intitola «Oltre il confine», l'ultimo «Niente». Quattro parole che possono essere lette
 di seguito. 
Così scriveva nel primo racconto («Oltre il confine» appunto): «Abbiamo venduto la nostra terra al nemico e
 siamo ingordi, ingordi tanto da inghiottire ogni cosa, persino la polvere. E' questa la parte che ci è data
 e dobbiamo rispettarla, volenti o nolenti. Ma, signore, c'è un piccolo problema che non mi fa dormire e che
 sento di doverti confidare. Molti, quando sentono di occupare uno spazio ben definito, cominciano a
 chiedersi “e poi?”. La cosa più spiacevole è che se dovessero scoprire che non avranno mai diritto a un poi
 sarebbero colti da una sorta di pazzia e comincerebbero a dire dentro di sé “che vita è questa! Meglio
 morire”. Poi col tempo comincerebbero a gridare “che vita è questa! Meglio morire”. Le grida, signore,
sono contagiose ed ecco che tutti griderebbero insieme “che vita è questa! Meglio morire”. Ma le persone
 in genere non amano molto la morte, così che saranno costretti a pensare qualcos'altro, signore...».
 E così scriveva nell'ultimo racconto («Niente»). 
«Agitò il dita in faccia all'infermiere. Voglio dirti una cosa”.Che cosa?”E' vero che è un esaurimento nervoso, ma non è qui”.Dove allora?”.
Indicò il petto e disse con calma: “Qui”.L'esaurimento nervoso non colpisce lì”.Chi l'ha detto questo?”I medici”.Sono pazzi”».

(*) in italiano pubblicato nel 1984 da Ripostes nell'antologia «Palestina, tre racconti»
 con «Sestina dei 6 giorni» di Emile Habibi e «Selim lo scemo» di Tawfiq Fayyad;
 ristampato poi, più volte, da Sellerio come «Uomini sotto il sole».


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