«Gli angeli dello Sterminio» di Giovanni Testori

ovvero: sapessi com’è strano invecchiare male a Milano…

di Giulia Abbate (*)

Testori è uno scrittore che un po’ conosco. Ci ho fatto un esame universitario monografico curato da Alberto Cadioli, uno dei professori milanesi più bravi e ferrati in editoria e comunicazione letteraria novecentesca. La cosa mi ha permesso di approfondire le tematiche e gli stilemi testoriani in modo metodico (e di imparare l’universitese, vi piace?). E al di là di questo, ho amato tutto di letture come «Il Dio di Roserio», «Il ponte della Ghisolfa», «La Gilda del Mac Mahon».

Mi sono fatta l’idea, personalissima e per la quale vi autorizzo a tirarmi e-sassi, che Testori sia (oltre che uno scrittore eccelso) una sorta di fratello intelligente e ripulito di Scerbanenco. Non perché Scerbanenco sia scemo, tutt’altro, a volte però lo fa, e di sicuro è un bel po’ zozzo.

Tutto ciò per arrivare a «Gli angeli dello sterminio»: un racconto distopico, allucinato e dolorante, zeppo di brutte immagini, di tutte le peggio cose che possono ossessionare un uomo anziano e inacidito come forse era Testori nel momento in cui lo scrisse.

Non sono così ingenua da pensare che il contenuto di un testo corrisponda in pieno alla personalità di chi lo scrive: i personaggi non sono sempre alter ego, i messaggi esibiti non sono necessariamente fedeli ai valori dello scrivente e così via. Ma in generale l’invettiva è invettiva ed è scritta con una certa funzione, e l’apocalisse è un’allegoria che uno scrittore esperto come Testori non usa a caso.

Partendo da una poetica chiara, profondamente e umanamente morale, da una forza dialettica e un coraggio davvero fuori dal comune, ho verificato con dispiacere che Testori dimostra un’evoluzione infausta. Qui, ha raggiunto livelli di disgusto personale, di odio per il mondo e di sparatutto, che al confronto Scerbanenco ha l’allure del Dalai Lama.

«Gli angeli dello Sterminio» è letteralmente un romanzo apocalittico-senza-il-post: la storia di come tutto finisce malamente perché tutto fa schifo e quindi dopo di me il diluvio.

Il libro. Una storia che è una parabola, una città che è un mondo, un incendio che è la distruzione meritata e grandguignolesca di tutto e tutti in un calderone nel quale squagliare schifezze random. Uno stile che è quello capace e molto alto di Testori, ma che qui, a causa del contenuto e della chiara sofferenza morale che permea le righe, si lorda delle proprie stesse lordure e tracima nel vaneggiamento.

Qualche coordinata, al di là dei giudizi personali, su questo Giudizio Universale.

Il romanzo si divide in quattro parti.

La prima è la più difficile da affrontare: racchiude degli scorci, scene estemporanee della fine in corso, e di ciò che arriva immediatamente prima o nel bel mezzo di.
Personaggi vari che hanno lo spazio di mezza pagina, che muoiono per le scale, si schiantano con la moto, stramazzano nei letti o davanti a sceneggiati televisivi, vengono mangiati dagli scarafaggi,
abbruciano, assistono ad autopsie; tra deliri incestuosi, porcherie misogine, aborti buttati negli scarichi e redivivi in processioni da incubo, sacrilegi vari e prevaricazioni ricordate, subite o agite. Olè!

Lento e guardingo, lo scarafaggio sarebbe poi salito sul letto fino a raggiungere la melma di sangue in cui il cadavere del travestito giaceva e lì avrebbe cominciato, orrendamente felice, a succhiare…

marciva il verme processionale di feti lungo la corsia maestra della storia, mentre le macchine ululanti principiavano a scagliarsi una sull’altra, una dentro l’altra, come se solo quello fosse, da sempre, il loro vero fine o come se obbedissero a un ordine – ed era, ecco, sì, era.

Nella seconda parte, abbiamo uno straccio di intreccio, un accenno del motivo, per lo meno apparente e superficiale, che innesca l’armageddon. A San Vittore, in un braccio di carcerati particolarmente difficili (ma cosa qui non lo è), maniaci o suicidi o facinorosi, si innesca una rivolta e l’incendio che presto inghiotte l’intera città in una catarsi, che si torna a descrivere proseguendo il delirio della prima parte.

Nella terza parte, la voce narrante si incarna in un vero protagonista, che abbiamo già intuito all’inizio ma di cui non avevamo abbastanza elementi per poterci fare un’idea. Un giornalista, uno scrittore scribacchino che disperato vaga nello sfacelo; arriva alla ricca casa di una donna, insieme alla quale commenta l’apocalisse bevendo champagne da flute di cristallo; e tenta di articolare un discorso meta-letterario, riguardo lo scrittore che è testimone, e che però merita di bruciare come e più degli altri. Olè!

 

procedeva l’immmenso verme processionale che, partitosi dalla Piazza…

Poi, più avanti: stringevasi le mani di raso rosso essudante dell’Arcivescovo… procedeva il verme che dalla Piazza… anzi dall’interno medesimo del Duomo… per impetrare che gli untori e l’unzione stessa, la bestemmia della moltitudine, la bestemmia del virus, dentro il secentesco computer della civis… Civis! Civis! Civis, te! Civis, te!

Quarta e ultima parte: l’apocalisse vera e propria. Qui, assumono rilevanza le figure, prima solo evocate, di sinistri e selvaggi motociclisti: li avevamo uditi scorrazzare per la città tra fiamme e sangue, e ora li seguiamo più da vicino nel loro sfacelo di omicidi stradali e di ruote che spappolano teste sui marciapiedi.
Non è difficile intuire che i motociclisti sono la versione “da bere” dei Cavalieri dell’Apocalisse, e nelle ultime allucinate scene arrivano in piazza Duomo sfrizionando e sgasando come se non ci fosse un domani. Che infatti non c’è. Grazie e arrivederci.

tu che tramonti senza mai tramontare: tu che incendi senza mai incendiare; tu che infiammi senza mai infiammare; tu che la processione dei feti-vermi e degli scarafaggi assembli e dirigi; tu che la sequela degli esseri immondi fai alzare dai sepolcri; tu che; tu che; tu; tu…

«Gli angeli dello Sterminio» fa parte di un periodo del percorso autoriale in cui un Testori convertito si è dedicato alla Bibbia (che fa un brutto effetto a un sacco di brave persone, chissà come mai) e ad alcune figure e allegorie narrative: che qui usa per esprimere il suo disagio indifferenziato, nei confronti di un tempo che non capisce più, di un mondo-città che non riconosce più.

Le pagine che più ho apprezzato sono i rari scorci nei quali si riferisce a Milano, descrivendo inorridito una città grigia, corrotta e vuota, fatta di casermoni e prefabbricati giganteschi, fabbriche ormai in disuso lasciate allo sfacelo, in un orribile deserto post consumistico: siamo nel 1992 e oltre alla conversione risalente a una quindicina di anni prima, Testori ha anche appena passato gli Anni Ottanta. E per questo in effetti ha tutta la mia comprensione.

Forse però Testori non è stato del tutto consapevole di come sarebbe potuto apparire lui, l’autore, dalle sue stesse righe. Un uomo che guarda al suo tempo come se si fosse svegliato in quel momento, e che in questo empito di sorpresa e orrore butti via anni di eleganza, profondità e assoluta rettitudine letteraria per vomitare un bestemmione insieme alla dentiera.

No, non posso pensare che Testori sia questo. Da lettrice, metto alla fine «Gli angeli dello sterminio»: e mi riprendo i raggi del sole che colano sulle staccionate, che illuminano la corsa del Dio di Roserio, che ci dicono senza esitare cosa è sbagliato e cosa deve essere giusto.

[In foto: le gargolle del Duomo di Milano]

(*) ripreso da lezionisuldomani.wordpress.com

 

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