Haiti, l’infanzia spezzata dalla violenza
Mercedes Lourdes Frias racconta un paese ostaggio delle gang, dove i bambini sono le prime vittime.
di Marta D’Auria (*)
Da oltre un anno Haiti vive una delle crisi umanitarie più gravi del continente americano. La violenza delle gang paralizza la capitale Port-au-Prince, le istituzioni sono allo sbando e milioni di persone soffrono di fame, malattie e mancanza di prospettive. I bambini sono le prime vittime: nel solo 2023 le Nazioni Unite hanno verificato oltre 2.000 gravi violazioni contro minori, un aumento del 500% rispetto all’anno precedente. Per comprendere la situazione, abbiamo chiesto aiuto a Mercedes Lourdes Frias, ritornata da qualche anno al suo paese, la Repubblica Dominicana, dopo aver vissuto in Italia dal 1990 (tra l’altro, dal 1994 al 1997 ha fatto parte del Consiglio della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, e dal 2006 al 2008 è stata eletta alla Camera dei deputati nelle liste di Rifondazione comunista). Attualmente è direttora dell’Area cartografia e responsabile del Dipartimento di ricerca dell’Istituto geografico nazionale.
– Qual è oggi l’aspetto più drammatico della crisi umanitaria ad Haiti?
«Il problema principale è la violenza. Non riguarda solo le bande armate: ci sono anche gruppi auto-organizzati e persino la polizia che spesso agisce come se fosse una banda. Questa violenza ha generato migliaia di sfollati, soprattutto a Port-au-Prince. La cosa più impressionante è che sempre più spesso la violenza ha come protagonisti i minori: i bambini non solo la subiscono ma la agiscono. L’esempio più evidente della crisi riguarda le scuole: in un solo anno circa 1.000 istituti hanno chiuso, e almeno 300 sono stati distrutti. Portare i bambini a scuola è ormai impossibile per la crescente insicurezza urbana, e anche il personale docente, se può, lascia il paese».
Secondo alcune stime, fino al 50% dei membri delle gang sono minori. Quali conseguenze sociali e psicologiche avrà questa situazione?
«Haiti nasce con un fardello storico enorme: l’enorme debito (ben 150 milioni di franchi, ridotti poi a “solo” 90 milioni nel 1838) imposto nel 1804 dalla Francia per il riconoscimento dell’indipendenza e per “risarcire” i padroni proprietari di schiavi. È un paese che non ha mai avuto stabilità né possibilità di sviluppo. Il terribile terremoto del 2010 ha poi aggravato tutto: ha lasciato migliaia di orfani senza strutture in grado di accoglierli. Molti sono finiti per strada, vittime anche di abusi da parte di volontari e militari internazionali. Da quella tragedia è nata una generazione di “figli di nessuno”: quei bambini sono cresciuti senza istruzione e senza protezione, e sono oggi reclutati facilmente dalle gang. Il risultato è una spirale di abbandono e violenza che si trasmette di generazione in generazione».
– Quali azioni urgenti servirebbero per proteggere i minori?
«Prima di tutto bisogna fermare la violenza: se non c’è sicurezza non si possono riaprire scuole né far funzionare ospedali. Oggi, a Port-au-Prince, dei tre ospedali principali ne resta operativo solo uno. Le bande non si finanziano da sole: qualcuno dall’esterno arma e sostiene questi gruppi. È lì che bisogna intervenire. Purtroppo, la comunità internazionale in passato non ha dato buoni esempi: il contingente Onu arrivato dopo il terremoto si è reso protagonista di abusi e scandali. Da un anno ad Haiti opera una missione del Kenya, che rappresenta un gesto di buona volontà, ma da sola non basta. Credo che la chiave sia sostenere gli haitiani stessi che stanno cercando di riprendere in mano il paese: ci sono intellettuali, persone impegnate, progetti locali. Serve però un piano politico serio e il sostegno di alcuni Stati che hanno avuto responsabilità nella storia di Haiti. Purtroppo, mi addolora dirlo, negli scorsi anni alcune organizzazioni umanitarie hanno sprecato o mal gestito gli aiuti».
– Sempre più haitiani decidono di lasciare il proprio paese: c’è futuro per chi resta, o l’emigrazione è l’unica via di salvezza?
«La migrazione haitiana non è nuova: già dall’inizio del secolo scorso il governo dominicano importava manodopera haitiana per le piantagioni di canna da zucchero. Si è così formata una comunità molto numerosa, ma nel 2013 una sentenza della Corte costituzionale dominicana ha tolto la cittadinanza a centinaia di migliaia di discendenti di haitiani nati nel paese dal 1929 in poi. Da un giorno all’altro sono diventati apolidi: né haitiani né dominicani. A questo si aggiunge il flusso più recente di persone che fuggono dalla violenza: molti lavorano nell’edilizia o nell’agricoltura dominicana, spesso in condizioni di sfruttamento. Va ricordato inoltre che in Repubblica Dominicana è in crescita un nazionalismo xenofobo che colpisce duramente gli haitiani. Chi prova a migrare per raggiungere Messico e Stati Uniti incontra altre difficoltà, tra abusi e respingimenti. Ho il cuore a pezzi nel dirlo: gli haitiani sono un popolo che da sempre vive nella sofferenza, sia dentro sia fuori dal paese».
– Non c’è speranza, dunque, per il futuro dell’isola?
«La storia non è lineare: prima o poi qualcosa può ripartire. Non ho grande fiducia nella mia generazione, ma credo che piccoli gesti e progetti possano fare la differenza, soprattutto se rivolti ai bambini e all’istruzione. Occorre lavorare su due livelli: quello politico, perché senza fermare le bande non c’è futuro; e quello quotidiano, fatto di azioni concrete, anche con la collaborazione tra haitiani e dominicani. È difficile, ma non impossibile».
(*) Link all’articolo originale: https://riforma.it/2025/09/24/haiti-linfanzia-spezzata-dalla-violenza/