I futuri italiani

di Julio Monteiro Martins (*)

Molti anni fa, in un racconto di «La passione del vuoto», ho fatto dire a un mio personaggio, spaventato dallo scontro ideologico sul futuro dell’Europa, che «l’Europa ciclicamente impazzisce e si divide in due metà che si odiano l’un l’altra mortalmente» per poi ricordare il monito di Primo Levi alla vigilia del suicidio: «Ci sono spaventose energie che dormono un sonno leggero».

Nel periodo in cui quel libro è uscito non c’erano ancora i partiti e i movimenti razzisti di estrema destra che hanno proliferato in Europa negli ultimi anni, favoriti dalla crisi economica nel cercare e trovare consenso in parte delle società dei Paesi europei, Italia compresa. Si pensi alla crescita di Alba Dorata in Grecia e di Marine Le Pen in Francia (il Front National sarebbe oggi il partito con maggior numero di consensi nel Paese), di Geert Wilders nella civile Olanda, ma anche alle posizioni della Lega Nord, degli ex-missini, di Grillo e Casaleggio e di gran parte del Pdl riguardo alla presenza di uomini e donne di origine non italiana sul territorio.

Pertanto non è scontato che la situazione si evolverà necessariamente verso una integrazione civile e pacifica. Per fortuna, questa è una forte possibilità, è la tendenza prevalente oggi. Ma realisticamente parlando non è una certezza. E poi, come dice il personaggio del racconto «Istantanee italiane», l’Europa ciclicamente impazzisce e possiamo solo sperare che stavolta lui si sia sbagliato e che le sue angosce siano immotivate.

Sappiamo che una società che vuole convivere e che desidera arricchirsi della diversità etnica e culturale creata dall’apporto di altri popoli ha due modelli possibili da adottare. Il modello multiculturale, come negli Stati Uniti o nella Germania contemporanea, dove tutti godono della stessa protezione costituzionale ma ogni gruppo vive isolato fra i suoi compaesani e cerca di preservare l’antica identità di provenienza, della quale è fiero. Pensiamo agli attuali afro-americani, o ai portoricani, o ai pachistani a Londra, o ai turchi a Berlino. Oppure il modello transculturale – del Brasile o di Cuba – nel quale la mescolanza generale, il sincretismo costituito dall’incontro e dalla fusione di etnie diverse, inizia già a partire dalla prima generazione di immigranti. In questo caso, l’identità nazionale precedente al posto di rinsaldarsi scompare e addirittura i cognomi sono praticamente abbandonati a favore dei primi nomi o dei soprannomi, e la neonata identità meticcia diventa il nuovo valore identitario, fonte di orgoglio culturale e anche estetico, puntando più al futuro che alle origini. Tutti si accomunano nella nuova identità – “brasiliana”, “europea”, “cubana” in una convivenza tranquilla nella quale la «bomba identitaria» è stata disinnescata da matrimoni misti, dalla scuola pubblica aperta a tutti, dalle infinite sfumature “razziali” che rendono in pratica ogni individuo una etnia a se stante.

La questione che mi preme quindi, riguardo all’Europa e all’Italia del futuro, è capire se il modello multiculturale, quello che mantiene le caratteristiche identitarie del passato, e a volte anche la lingua del Paese d’origine, possa diventare rischioso in un improbabile ma non impossibile rigurgito di violenza razzista istituzionale imposto da un’estrema destra eventualmente maggioritaria, così diventata forse a causa della disperazione economica e della delusione politica. Dico rischioso perché in un tale macabro frangente sarebbe più facile identificare, isolare, espellere o chissà sterminare gli immigranti e i suoi discendenti, resi vulnerabili, facili bersagli, proprio a causa della mantenuta diversità.

Non sarebbe invece più saggio e più sicuro prendere come parametro e come modello quello che si è dimostrato vincente, il modello transculturale nel quale l’umano, e non “la razza”, è il denominatore comune? Mi domando: non sarebbe nell’interesse delle future generazioni di europei, per avere la certezza di trovarsi d’ora in avanti sempre in sicurezza, creare una identità europea felicemente diversificata in un grande ventaglio di tipi, in una esuberante tavolozza umana che guarda al futuro piuttosto che alla “purezza delle radici”, native o straniere che siano? Insomma, – non sarebbe oculato promuovere l’inclusione in modo consapevole e quotidiano, per non rischiare di diventare domani vittime di un’esclusione drammatica?

Un italiano che visiti oggi una delle regioni brasiliane di forte immigrazione italiana soltanto tre o quattro generazioni fa – a São Paulo, a Minas o a Rio Grande do Sul – potrà assaggiare nelle mescolanze riuscite, nei milioni di “italiani tropicali” che troverà, cosa potrà diventare – se saremo saggi e fortunati – l’Italia del futuro.

(*) In questi giorni sono arrivati al blog molti interventi che, a partire dalle tragedie dei migranti nel Mediterraneo, analizzano la politica (o la non politica?) italiana e le prospettive. Troppi interventi dunque per mantenere il ritmo di 3 post al giorno (più una «scor-data») dei quali alcuni oltretutto sono appuntamenti fissi. Così ecco qui, uno di seguito all’altro, alcuni post legati a questa attualità. (db)

 

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