Il mio endorsement per il voto

di Lanfranco Caminiti

Beh, il mio endorsement l’ho già fatto tempo fa, voto per Grillo [per chi ne avesse voglia, lo motivo qui: http://lanfrancocaminiti.wordpress.com/2013/02/04/perche-penso-di-votare-5-stelle/, pubblicato da «Gli Altri», 1 febbraio]. Adesso provo a sbilanciarmi sui risultati.

Penso che il risultato di queste elezioni si sia in buona parte già deciso con le primarie del Pd. Renzi, comunque lo si voglia giudicare, era l’unico possibile candidato premier in grado di “attraversare” tutti gli schieramenti e anche l’astensionismo, era l’unico “attore” capace di rimescolare le carte, di acquisire cioè voti anche nel campo avverso [gli è stata rinfacciata come una colpa: e come altrimenti si vincono le elezioni?] e simpatie anche nell’indifferenza. Insomma una innovazione nel quadro politico italiano, ingessato da berlusconismo–antiberlusconismo. E, per chi non ne poteva più di questo bipolarismo riduttivo, una liberazione.

La sconfitta di Renzi e cioè la “conquista” di Bersani del proprio partito grazie anche al patto con Vendola — che però così ha anche rinunciato a un ruolo autonomo di giocatore a tutto campo, procrastinandolo a momenti migliori — ha avuto il suo peso nel rimettere in gioco Berlusconi [che con difficoltà si sarebbe battuto contro Renzi con il refrain dell’anticomunismo che galvanizza i suoi] e ha spostato anche una parte di quella fetta di attenzione che il sindaco di Firenze si era conquistato verso Grillo: se qualcuno ha la pazienza di ripercorrere dichiarazioni e sondaggi si vedranno le coincidenze tra l’esito delle primarie, la decisione di Berlusconi, fino a quel momento sornione, e la nuova impennata di Grillo che per mesi era dato in caduta. Insomma, le vere novità — l’ascesa in politica di Monti non mi ha sorpreso, mi è sembrata una continuità di un anno di governo — di questa campagna elettorale.

Risultato in buona parte già deciso: Bersani ha conquistato il partito, ha cioè, grazie anche alla discesa di Berlusconi, non acquisito voti in uscita ma lo ha mantenuto compatto, senza oscillazioni o evaporazioni, che sarà il primo per numero di voti, ma non avrà una maggioranza tra Camera e Senato autosufficiente per governare; Berlusconi non vincerà ma proverà a far pesare tutto quanto rastrellerà per uno sgoverno o un suo ruolo; Grillo prenderà una buona fetta di elettorato; Monti se vuole avere un ruolo lo potrà avere solo subalterno al Pd, o sperare nella immoral suasion dell’Europa di Bruxelles. Qui stiamo. Non tutto è definito, ma i risultati saranno questi. Rimane, e non è secondario e come sempre è un dato imperscrutabile, il risultato della Lega — l’unica, con Grillo, a presentare un programma “mononota”, cioè il 75 percento delle entrate fiscali sul territorio — e quindi l’effetto e il ruolo politico di contrattazione e conflitto di una eventuale macroregione “padana”.

Ora, siccome queste note sono su Grillo e il Movimento 5 stelle vorrei parlare di questo, a partire dall’ostilità fortissima che a sinistra si è radicata. L’ho detto un po’ di tempo fa: questo tempo politico ha al centro “il sistema dei partiti”, come gli anni Novanta furono caratterizzati dalla questione territoriale — lo scollamento delle unità nazionali forzate dopo il crollo dell’impero sovietico che mentre in Germania si riunificavano nel resto d’Europa si frantumavano — interpretata poi dalla Lega come frattura nord/sud. Chiunque sarà chiaro e semplice su questo avrà più opportunità di rappresentare la pancia e la testa dell’elettorato. La sinistra non lo è stata e forse, costitutivamente, non poteva esserlo.

La differenza però è sostanziale, e non è solo una successione tematica: mentre la questione territoriale, o neonazionale, è “europea” — dai Veri finlandesi ai fiamminghi del Vlaams Belang, dalla Catalogna alla Scozia, dai cechi ai polacchi agli ungheresi, e sinora per lo più declinata in modo orribile anche per le paure storiche che suscita — la questione del sistema dei partiti, dell’antipolitica è “americana”.

È il Tea Party che ha interpretato con più veemenza l’opposizione al governo federale e a Washington. Che i suoi candidati abbiano poi deciso di diluirsi nell’establishment repubblicano — che pure avevano tampinato o sbertucciato — e che in buona misura Obama sia riuscito (con la sua leadership, con il sostegno di Wall Street e con argomentazioni fortissime e capacità di raggranellare ancora speranze, ma soprattutto voti utili a prescindere contro il Gop) a “neutralizzarli” è una buona notizia. Però, le questioni di quel movimento — il peso eccessivo quando non l’ingerenza e il soffocamento delle libertà individuali da parte di uno Stato cresciuto a dismisura e “costretto” dalla crisi a crescere ancora — non sono mica scomparse.

Un punto è questo: la sinistra italiana si identifica con lo Stato. Lo Stato è visto — sia in una lettura cinica, sia in una lettura progressiva e progressista — come il regno proprio dell’autonomia del politico e la barriera di civilizzazione contro l’immediatezza della società civile.

Per contro, ogni attacco all’autonomia del politico — quindi al sistema dei partiti, identificato tout court dalla sinistra, con radici storiche dopoguerra, con la democrazia italiana — è barbarico, pericoloso, di destra, populista e via così. È, ogni attacco, letto come nient’altro che il presupposto di ogni privatismo, di ogni sfrenatezza individualista, di ogni accaparramento, di ogni sopraffazione: la lettura della società è rimasta ferma a Hobbes, aggiornata a Weber, e quando tende a andare oltre [«La filosofia dei beni comuni» di Laura Pennacchi] rimane comunque una “cosa” da tutelare, da “mediare”, con una aporia teorica irresolubile: perché se la società è invece buona è stata dominata da una maggioranza cattiva?

Ora non è che questa lettura della civilizzazione dello Stato sia peregrina —ha funzionato per tutto il dopoguerra nei nostri gloriosi trent’anni di compromesso tra socialdemocrazia e capitale — o che nell’antistatualismo non ci sia (come, per esempio, negli Stati uniti c’è) anche una componente fortemente di destra, diciamo meglio: neoliberista. Sia nello spessore teorico — von Hayek, per dire — sia nella volgarizzazione mercatista e monetarista, cioè finanziaria. Il problema è se questa dimensione progressiva dello Stato non sia ormai tutta consumata e se esistono, ravvicinati, spazi politici e finanziari, dato che quella dimensione progressiva è imperniata sulla gestione del debito, per rilanciarla, che poi sembra tutta la scommessa del Pd. Se insomma questo ruolo di regolazione del pubblico che “giustifica” la pervasività d’occupazione del sistema dei partiti non sia piuttosto diventato parassitario, dove il problema non è mandare gli onesti al posto dei disonesti, non sia insomma entrato a far parte di quello che gli americani chiamano i takers [quelli che prendono] rispetto ai makers [quelli che fanno]. In realtà, dell’impossibilità di rilanciare un ruolo progressivo dello Stato è ben cosciente il Pd ma è tutta la sua mission: rimane perciò l’occupazione del pubblico da parte del sistema dei partiti.

Il punto, secondo, è che la lettura “populista” dell’attacco all’autonomia del politico non si attaglia per nulla al Movimento 5 stelle, dove una coscienza civica dell’impegno sembra prevalere sulla dimensione privata, dove una scrupolosa ossessione delle regole sembra fare aggio rispetto la deregulation, dove l’intersoggettività, magari rozzamente o ingenuamente virtualizzata nella rete, è un valore importante, dove forme elementari di democrazia sono premiate come istituzioni forti da preservare e rafforzare. Altro che antipolitica, io parlerei piuttosto di iperpolitica, di arcipolitica.

Insomma, benché tutti i presupposti del movimento italiano, italianissimo — perché scomodare Giannini e l’Uomo qualunque, quando ci sono tratti che ricordano piuttosto la prima Rete di Leoluca Orlando, il movimento dei sindaci, alcune battaglie radicali, la Forza Italia “liberale”, la Lega che amministra, il movimento open source — nonché americanissimo, del 5 stelle potevano vederne una declinazione di destra, nel senso “forte” del termine, invece sembra prevalere una declinazione civile. In realtà una “destra politica” in Italia in grado di tesaurizzare questa crisi non c’è più e, paradossalmente, a distruggerla è stato Berlusconi.

Provo a fare una metafora paradossale, per capire il perché della “sorprendente” declinazione civile e democratica del 5 stelle: il movimento polacco Solidarnosc non era un movimento progressivo, a parte una venatura di teorici e sindacalisti trotzkisti, impregnato com’era di religiosità “arcaica”, primordiale, a petto della laicità di uno Stato socialista; a sinistra, con eccezione di qualcuno illuminato o interessato, se ne pensava tutto il male possibile, tra tonache, soldi della Cia e complotti destabilizzanti. Eppure, quel movimento era, nei risultati, non solo “storico”, presente nella storia — contrariamente all’antistoricismo delle sue componenti ideologiche — ma innovativo e democratico.

Voglio dire, il movimento 5 stelle è democratico perché ciò contro cui combatte — il sistema dei partiti diventato Stato — è retrogrado. E non ha molte opportunità di cambiamento ma un’inerzia di gravità che lo spinge a reiterarsi.

In questo senso è inimmaginabile qualsiasi rapporto futuro tra Pd e Movimento 5 stelle, tranne la ricerca parlamentare di loro “Scilipoti”, per il bene del Paese, per non precipitare nel baratro, per senso di responsabilità internazionale. Ci sentiranno da quest’orecchio?

Bene, vediamo che succederà dopo il voto, tra pochi giorni. Forse la mia è solo una lettura ingenua e ottimista, ma non fatemene una colpa, che già in famiglia mi danno addosso tutte le mattine. Sarà importante vedere come si evolverà il 5 stelle, nelle sfide che troverà davanti: potrebbe anche implodere, certo, frantumarsi, senza che il leaderismo di Grillo faccia argine e collante. Per chi, come me, ha a cuore altre declinazioni del presente, non avendo in campo un proprio cavallo l’unica è sperare che le corse non siano finite e che i risultati consentano di tenerle aperte.

(Nicotera, 21 febbraio 2013)

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