Il sillabo imprenditoriale del MIUR? No, grazie!

non si ferma il processo di distruzione dell’istruzione: critiche nella sostanza e nella forma a “Percorsi di Educazione all’imprenditorialità” (per le scuole superiori), un terrificante parto del ministero

Il sillabo imprenditoriale del MIUR: “Oggi spieghiamo: il Business Model Canvas” 

di Rossella Latempa

L’ultimo dei documenti recapitati alle scuole dal MIUR il 14 Marzo scorso è il sillabo sull’”Educazione all’imprenditorialità” per le scuole superiori. Un documento diviso in 5 “temi propedeutici all’introduzione strutturale all’imprenditorialità”. Nel primo tema l’allievo è chiamato a “misurare la sua propensione imprenditoriale”. Attività didattiche più adatte: “Personal model canvas, giochi di ruolo, quiz individuali”; il “Silent coaching per stimolare l’autoconsapevolezza”, oltre a (più banali) “visite guidate in impresa”. Nel secondo, l’allievo deve “comprendere i principali trend tecnologici”, “analizzare il contesto e coinvolgere gli stakeholder di riferimento” attorno alla sua idea. Attività didattiche: “Case histories”, “schede SWOT di valutazione di idee imprenditoriali”, “Innovation e Creativity Camp o Startup bootcamps”, “Hackaton” “incontri di co-creazione anche su format di matchmaking”; “Personas”. Nel terzo tema si parla del “team building”, la “leadership”, il “design thinking” il “Business model plan e canvas”, la “lean startup”, da sviluppare con attività didattiche come il “Brainstorming, “simulazioni di selezione del personale”. Il quarto e il quinto tema: ”fundraising”, “budget”, “marketing e growth hacking”, “strumenti di comunicazione”, “internazionalizzazione”, contabilità, prezzi e potere d’acquisto, monete e criptovalute; finanza e fintech, gestione del budget. Attività didattiche: “simulazioni di crowfunding”, “esercizi di digital marketing”, di “promozione del Made in Italy”, “Theory of change”, “edugames, interviste”. Chi ha pensato e scritto tutto questo? Colpisce, oltre alle solite avanguardie intellettuali (Confindustria e Fondazioni varie), la presenza di Scuola Zoo: una holding che fattura 10 milioni di euro “un po’ Scuola e un po’ Zoo”; un po’ kollettivo, un po’ business incubator, che è ormai in “linea diretta con il ministro”. Che fare? Forse è giunto il momento di dire: “No, grazie. Perché credo ancora in una Scuola statale come luogo di trasmissione della passione del sapere, oltre che di formazione di una coscienza civile e politica. Non lascerei a tecnici e rampanti policy makers l’arduo compito di interpretare le esigenze della società sulla base parametri puramente economici”.

     Questo post è la terza parte (di tre) che analizzano i recenti documenti del MIUR dedicati ai “Percorsi di Educazione all’imprenditorialità”:

  1. il modello teorico europeo che definisce la competenza imprenditoriale;
  2. la certificazione ministeriale delle competenze per le scuole elementari e medie;
  3. il sillabo per le scuole superiori.

Link alla prima parte:
La competenza imprenditoriale: una cosmologica “Teoria del Tutto” per il terzo millennio?

Link alla seconda parte:
Piccoli imprenditori crescono: i modelli MIUR per le scuole elementari e medie

Piccoli imprenditori crescono / Terza parte

“Oggi spieghiamo: il Business Model Canvas” sul nuovo Sillabo sull’educazione imprenditoriale del MIUR.

L’ultimo dei documenti recapitati alle scuole dal MIUR il 14 Marzo scorso è il sillabo sull’”Educazione all’imprenditorialità”. Di tutti, sicuramente il più inquietante. La sensazione ad una prima lettura è di completa incredulità e smarrimento. Se alle elementari e alle medie gli insegnanti possono ancora cavarsela con qualche gioco di ruolo e problemino pseudo reale di spesa-ricavo-guadagno da risolvere cooperativamente, alle superiori la musica cambia. La circolare di accompagnamento prepara il terreno con un linguaggio post-pedagogico: “promuovere un approccio sinergico … una modalità cross-curricolare, in cui gli obiettivi risultano trasversali ed orizzontali rispetto ai vari insegnamenti”. Come dire: bisogna farsene carico un po’ tutti. Per quel che riguarda le metodologie, per fortuna, nessun sussulto. Si tratta delle prassi didattiche divenute oramai esse stesse “tradizionali” nella prosa ministeriale: protagonismo degli studenti, dimensione pratica, imparare facendo, creatività, problem solving (Ora pro nobis).  Su di esse ormai l’occhio educato alla letteratura dell’innovazione didattica  dell’insegnante scivola senza indugio, quasi recitandole. Il Sillabo è il vero “pezzo forte”. Un documento di 11 pagine diviso in 5 “temi propedeutici all’introduzione strutturale all’imprenditorialità”, divisi in vari sotto-temi, declinati con una serie di verbi all’infinito o argomenti. Ogni tema è corredato da esempi di attività didattiche. Siccome è impossibile commentare ciò che non si comprende, l’unica strada percorribile è selezionare alcuni frammenti, invitando il lettore all’analisi e all’esercizio critico del testo completo.  I 5 temi seguono idealmente la nascita di un’idea dalla sua forma alla sua realizzazione di mercato.

  • Nel primo tema l’allievo è chiamato a fare un’autovalutazione e a “misurare la sua propensione imprenditoriale”. Si introducono i concetti base di impresa (vision, mission, ruolo sociale, diverse forme del lavoro e di impresa). Le attività didattiche più adatte sembrano essere: il “Personal model canvas, giochi di ruolo, quiz individuali”; il “Silent coaching per stimolare l’autoconsapevolezza”, oltre a (più banali) “visite guidate in impresa”.

Cosa saranno mai i canvas? [qui la riposta, NdR] E il silent coaching? Non eravamo rimasti alla Mindfulness?

  • Nel secondo, l’allievo viene introdotto ai “pilastri di un’idea” intesa come “risposta ad un’esigenza”, da saper trasformare in “valore in termini di scalabilità e replicabilità”. Deve “comprendere i principali trend tecnologici”, “analizzare il contesto e coinvolgere gli stakeholder di riferimento” attorno alla sua idea. Le attività didattiche più adatte sembrano essere: “Case histories”, “schede SWOT di valutazione di idee imprenditoriali”, “Innovation e Creativity Camp o Startup bootcamps”, “Hackaton” “incontri di co-creazione anche su format di matchmaking”; “Personas”.

Qui le cose si complicano. Siamo lontani anni luce dal concetto di idea come “esperimento mentale” galileiano: le idee che contano derivanoda un’esigenza e vanno trasformate in valore scalabile. E poi bisogna attrezzarsi subito con qualche MOOC su Creativity camp – Startup bootcamp, ma soprattutto “Personas” (che sicuramente non è il titolo dell’ultima serie di Netflix).

  • Nel terzo tema si parla del “team building”, la “leadership”, il “design thinking” il “Business model plan e canvas”, la “lean startup”, da sviluppare con attività didattiche come il “Brainstorming, “simulazioni di selezione del personale” e gli (straordinari, nel titolo, almeno per chi scrive) “esercizi di accelerazione”, che non sono problemi di cinematica o dinamica, ma compilazioni di Business plan di varia natura.

Qui alcuni argomenti sembrano quasi “confortevoli”. I nuovi e più scintillanti corsi di formazione ci hanno abituati al cooperative working e al brainstorming.

  • Il quarto e il quinto tema sono quelli propriamente dedicati agli aspetti di realizzazione: si entra nel vivo delle opportunità di finanziamento: ”fundraising”, “budget”, “marketing e growth hacking”, “strumenti di comunicazione”, “internazionalizzazione”. In “cittadinanza economica” si introducono elementi di economia e crescita, contabilità, prezzi e potere d’acquisto, monete e criptovalute; finanza e fintech, gestione del budget. Le attività didattiche possibili sono “simulazioni di crowfunding”, “esercizi di digital marketing”, di “promozione del Made in Italy”, “Theory of change”, “edugames, interviste”.

Due domande.

La prima: chi ha pensato e scritto tutto questo? La circolare parla di “rappresentanze di impresa”, “attori della società civile”, “associazioni professionali”, “istituzioni”, “mondo accademico”. Niente di più generico. In un documento a parte c’è una non ben identificata quanto suggestiva “lista della Coalizione all’imprenditorialità” (non se ne fa cenno nella circolare, si tratterà proprio degli autori?). Se una rappresentanza ampia e pluralista di insegnanti latita in documenti come il Piano di Formazione dei docenti o il Piano Digitale, figuriamoci quanti insegnanti potremo mai trovarne all’interno della Große Koalition imprenditoriale. Infatti, solo l’ADI – Associazione Docenti e Dirigenti Italiani – e la CRUI- Conferenza dei Rettori Universitari Italiani -rappresentano, in senso lato, Scuola e Università statali (e non). Colpisce, oltre alle solite avanguardie intellettuali (Confindustria e Fondazioni varie), la presenza di Scuola Zoo. Chi di noi pensasse ancora ad un blog scanzonato di studenti, è rimasto molto indietro (per prima, chi scrive).  Si scopre, ad esempio qui, che Scuola Zoo è una holding che fattura 10 milioni di euro “un po’ Scuola e un po’ Zoo”; un po’ kollettivo, un po’ business incubator, che fa formazione per gli studenti (come diventare R.I.S. , Rappresentanti di Istituto Scuolazoo, come affrontare le esperienze scuola-lavoro)  ed è ormai in “linea diretta con il ministro”.

La seconda domanda: come verranno attuati i percorsi di imprenditorialità? Su questo punto la circolare sembra fare maggiore chiarezza. Gli insegnanti, potranno “avvalersi della cooperazione con organizzazioni che possiedono il know-how” del settore. I pur rilevanti ed incrementali tentativi di ri-formulare la professionalità docente dall’interno, per retro-azione ed adeguamento volontario, messi in atto dai piani programmatici ministeriali e dalle nuove direttive sulla valutazione, non riuscirebbero – pensiamo – a colmare il vuoto di know-how. D’altra parte, il contributo alla formazione autonoma nato con la Buona Scuola (500 euro), non coprirebbe le spese di un master ASFOR in General Management, anche per il più volenteroso start-upper tra i docenti.

Le strade possibili al momento appaiono due.

“Raccogliere la sfida” e trasformarsi in novelli Prometeo, accettando la partnership degli esperti esterni e contribuendo alla trasformazione graduale della Vecchia Scuola in un FabLab di co-workers.

Oppure esercitare il diritto, pacifico e individuale, di anteporre una propria scelta etica a quella indicata dalla normativa. Chiamiamola “obiezione di coscienza” o “disobbedienza civile”. Il succo è dire: “No, grazie.  Perché credo ancora in una Scuola statale come luogo di trasmissione della passione del sapere, oltre che di formazione di una coscienza civile e politica. E per cambiarla comincerei ad entrare nelle classi e parlare con chi le abita da anni: non lascerei a tecnici e rampanti policy makers l’arduo compito di interpretare le esigenze della società sulla base parametri puramente economici”.

da qui

QUI i documenti ministeriali

dice l’Accademia della Crusca

Firenze, Accademia della Crusca, 17 aprile 2018

Il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) ha pubblicato lo scorso 14 marzo un documento programmatico volto a promuovere l’educazione all’imprenditorialità nelle scuole statali secondarie di II grado.

Senza pronunciarsi sul merito – che pur si presterebbe a varie considerazioni – il Gruppo Incipit guarda con grande preoccupazione alla lingua con cui tale documento programmatico è stato redatto, tenuto conto della sua importanza all’interno dell’istituzione scolastica.

Il Gruppo Incipit aveva già attirato l’attenzione sulla forte propensione del sistema universitario italiano a impiegare termini ed espressioni del mondo economico-aziendale (cfr. comunicato stampa n. 6 del 17 giugno 2016), ma constata che nel documento in questione tale tendenza ha raggiunto un nuovo livello di intensità: l’adozione di termini ed espressioni anglicizzanti non è più occasionale, imputabile magari a ingenue velleità di “anglocosmesi”, bensì diventa programmatica, organica e assurge a modello su cui improntare la formazione dei giovani italiani.

È infatti sufficiente scorrere il Sillabo per la scuola secondaria di secondo grado per verificare la meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari di lingua intesa quale strumento di comunicazione e di conoscenza. Concretamente, questo pare il messaggio del Sillabo: per imparare a essere imprenditori non occorre saper lavorare in gruppo, bensì conoscere le leggi del team building, non serve progettare, ma occorre conoscere il design thinking, essere esperti in business model canvas e adottare un approccio che sappia sfruttare la open innovation, senza peraltro dimenticare di comunicare le proprie idee con adeguati pitch deck pitch day.

Più che un’educazione all’imprenditorialità, questo documento sembra promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana e delle sue risorse nei programmi formativi delle forze imprenditoriali del futuro. Pare una sorta di contraffazione paradigmatica della cultura e del patrimonio italiano: è così che si vogliono promuovere e valorizzare le eccellenze italiane, il “Made in Italy”?

Proprio in considerazione della gravità del modello linguistico-concettuale offerto dal Sillabo, il Gruppo Incipit, nella presente occasione, rinuncia a proposte di traducenti italiani (del resto sarebbe necessario tradurre l’intero documento), ma rivolge un appello ai responsabili del MIUR, affinché si usi maggiore rispetto nei confronti della lingua e della cultura italiana.

da qui

L’IMMAGINE – di Giuliano Spagnul – è stata scelta dalla redazione della “bottega”

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

  • Il MIUR si rifa a una Ris.ONU, la 2250/2015 che parla espressamente di “educazione all’imprenditoria”. E’ quindi importante che la Scuola assuma il valore del concetto “imprenditoria” che non va demonizzato, ma nemmeno indirizzato a obiettivi che con l’istruzione non c’entrano.
    La scuola ha la funzione fondamentale di indirizzare a un’imprenditoria che valorizzi le attitudini, ma nel quadro dei principi democratici, ponendoli alla base dell’iniziativa imprenditoriale, che deve essere trasparente, onesta, rivolta alla formazione di manager ben diversi da tanti che speculano nelle società di oggi solo per il proprio tornaconto.
    Non si deve dire un “NO grazie”, ma si deve riformulare il Sillabo alla luce dei principi su cui si fonda l’attività economica nella nostra Costituzione.
    Per una società futura in cui gli imprenditori risultino formati ai valori etici, e non lasciati, come è oggi, senza nessuna guida formativa.
    Antonia Sani

  • Francesco Masala

    sono d’accordo con te, il no grazie è riferito a quel documento, che sembra un copia/incolla di quello di un altro paese (per la lingua inglese ha ragione l’Accademia della Crusca, secondo me).
    il legame principale di questo documento è con l’alternanza scuola lavoro (ASL), forse, ma se l’ASL è l’applicazione di quel documento è un fallimento totale.
    se le due cose sono separate magari bisognerà ripensare tutto, da una parte vorrei insegnare l’imprenditorialità e dall’altra faccio lavare i piatti in un ristorante, o faccio fare fotocopie in un ufficio, e basta.
    a me sembra che le due cose vadano insieme, con un obiettivo, svilire quello che si fa in classe, e sancire che tutto quello che viene da fuori è buono, a priori.

  • Francesco Masala

    dal Manifesto di oggi (27 aprile):

    A giugno il test sui bambini imprenditori, di Anna Angelucci e Rossella Latempa

    Come ampiamente documentato sul sito online Roars, dal prossimo giugno maestri e docenti della scuola elementare e media dovranno certificare le competenze dei loro allievi, utilizzando i nuovi modelli nazionali predisposti dal Ministero dell’istruzione.

    Per i ragazzini delle medie, la scheda di certificazione conterrà una parte dedicata alle 8 competenze europee redatta dai loro insegnanti ed una parte a cura dell’Invalsi, che registrerà i risultati ottenuti ai test di Matematica, Italiano ed Inglese, diventando di fatto fonte privilegiata di informazioni pubbliche sui livelli di apprendimento del singolo allievo.

    Per i bambini delle elementari, la scheda di certificazione è riferita alle otto competenze europee, tra cui proprio quella denominata «spirito di iniziativa e imprenditorialità», che in Italia è diventata semplicemente «spirito di iniziativa», pur mantenendo in nota il riferimento originario all’entrepreneurship, l’imprenditorialità. I consigli di classe delle varie scuole del paese dovranno adoperarsi per «testare» la capacità di «realizzare progetti», essere «proattivi» e capaci di «assumersi le proprie responsabilità» fin da piccoli.

    Fin da bambini «in una logica di verticalità», spiega la recente circolare ministeriale che suggerisce «percorsi di educazione all’imprenditorialità nelle scuole superiori», è importante orientare gli studenti verso «una forma mentis imprenditoriale», l’ «assunzione del rischio» e delle «proprie responsabilità». Tutte cose utili non solo per diventare imprenditori veri e propri – si chiarisce – ma in qualsiasi contesto lavorativo e di cittadinanza attiva. Il futuro cittadino-imprenditore globale, suggerisce la letteratura economico-educativa internazionale, va costruito fin da piccolo.

    «Starting strong», scrive l’Ocse nella recente pubblicazione Early Childhood Education and Care, dove parole nobili come educazione e cura, non sono più diritti universali dell’infanzia di ciascuno, ma mezzi e strategie finalizzate e re-interpretate in funzione di un obiettivo: «gettare le fondamenta dello sviluppo di skills». Il futuro cittadino transnazionale è cittadino solo se attivo. Nei documenti scolastici la parola cittadinanza non esiste più, se non in concomitanza del termine «attiva». La qualificazione è diventata da qualche tempo necessaria, come se non potesse esistere un cittadino in-attivo, in-competente: un cittadino contemplativo, che non produce nulla. Che gioca, legge, colora, perde tempo. Almeno alle scuole elementari.

    L’approccio alla realtà, competitiva e perennemente incerta. Il report europeo da cui nasce il modello Entrecomp, quadro europeo di riferimento per l’educazione imprenditoriale richiamato dalla normativa ministeriale, si pone il problema pedagogico – come insegnare l’imprenditorialità – in un paragrafo specifico: «La componente conoscenza non rappresenta una sfida per l’educazione imprenditoriale metodi come letture o elaborazione delle informazioni non sono appropriati». Continua: «Elementi di competitività vanno introdotti gradualmente dalla primaria alla secondaria, per dare agli allievi l’opportunità di convalidare le loro idee e l’ambiente imprenditoriale/di start up [in cui operano]». Il paradigma della competitività, pilastro concettuale del manifesto La Buona Scuola fin dalle premesse – dove si afferma che «bisogna dotarsi di quel capitale umano per tornare a crescere, competere, correre» – è alla base del pensiero imprenditoriale.

    Insegnare a pensare, ragionare e progettare in maniera imprenditoriale significa in sintesi: stabilire un equilibrio ambivalente e schizofrenico tra cooperazione e competizione; sviluppare la capacità di ridefinire continuamente i propri obiettivi; gestire l’incertezza in una realtà non predicibile e non controllabile.

    Il paradigma pedagogico è ormai esclusivamente quello economicistico, in una cornice di vero e proprio darwinismo sociale. Come scrive Sarasvathy, autore di riferimento del cosiddetto effectuation approach, richiamato dal Sillabo europeo :«Un imprenditore sa che le sorprese non sono deviazioni dal cammino. Sono la norma, la flora e la fauna del paesaggio da cui ciascuno impara a forgiare il proprio percorso nella giungla».

    Siamo proprio convinti di voler introdurre, fin dalle elementari, un simile atteggiamento nei confronti della vita e del futuro? Di trasformare l’infanzia in un “paese dei mostri selvaggi” le cui cifre più profonde siano l’incertezza e la destrezza, la competitività, l’arrivismo? L’arte di vendersi imparata sui banchi di scuola?

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