«Il teatro di Oklahoma»

Anarres (intesa come libreria) si dà una rivista: Batigrafie, Sorvoli e Metamorfosi. 

di Giuliano Spagnul. A seguire una noticina della “bottega”.

Il teatro di Oklahoma è la neonata rivista, dal titolo kafkiano, partorita da una giovane libreria, anch’essa dal nome impegnativo, quanto utopicamente ambiguo, di Anarres. Situata in un quartiere di Milano (soggetto all’ennesima aggressione speculativa) denominato Nolo, Anarres si incunea fra gli interstizi del vorace affarismo meneghino come libreria bistrot, luogo di incontri e saperi scambisti; ora con questa nuova avventura (con l’apporto editoriale di Agenzia X) va in viaggio a proporsi nei vari centri sociali e feste alternative del nostro provato Paese.

L’editoriale comincia con il classico «c’era una volta» che, al contrario di quel che comunemente si crede, non designa una volta sola quanto piuttosto una volta per tutte. Volta in cui c’era un «male armato e frastagliato gruppo di relazioni e individui – in una città qualunque dell’occidente capitalista – che scoprì nella parola comunità una modalità di resistenza al presente e una particolare maniera di stare all’interno delle lotte del proprio tempo». Quella è una volta che si ripete in luoghi e tempi diversi ma proprio nel ripetersi crea quella differenza che la fa unica e ricca di nuove potenzialità. È la storia dell’eterna lotta dell’esistere che senza il conflitto, l’aspra opposizione all’ordine esistente, sarebbe destinata infine a estinguersi, a cessare, appunto, di esistere.

Nella sua corposità di quasi 180 pagine «Il teatro di Oklahoma» si suddivide in tre sezioni: Batigrafie, Sorvoli e Metamorfosi.

La rivista «segue (o rincorre) fili diversi. Un blog che nasce a gennaio 2020, dalla volontà di un pugno di individui tra loro legati in varie forme e modi da passate esperienze collettive, che si portano dietro la consapevolezza della gran differenza tra incarnare il desiderio di una nuova comunità e l’arroganza di credersene l’immediatezza». La sfida di questa nuova rivista si apre vagliando in profondità il tema più discusso di questi ultimi anni: l’approssimarsi di una più che probabile fine del mondo e le probabilità di poterla ancora scongiurare. Tema ormai frustro dal sapore sempre più scaramantico se non fosse che qui, giustamente, non si cerca di rispondere alla domanda del cosa fare ma a interrogare la domanda stessa. «Interessa qui provare a ripensare la domanda che guida e sottende le riflessioni e le pratiche, più o meno sovversive, più o meno conservatrici, in qualsiasi modo confuse, riguardanti il presente (la catastrofe) (…) Che cosa? non è è una domanda neutra. Che cosa? implica un modello, porta sempre il riferimento di una struttura concettuale».

Sono Batigrafie, tentativi di sondare le profondità marine dove il terreno si ripropone di nuovo come superficie. Andare in profondità quindi per arrivare alla superficie delle cose, alla loro effettiva realtà dove gli eventi si succedono nella loro concretezza di – appunto – eventi reali che incidono nel nostro quotidiano tentativo di esistere. È un viaggiare che al posto del cosa fare? richiede un come? «che ha a che vedere più con esercizi di etica che con manifesti di critica (che in qualche modo richiede identità e punti fermi)». Esercizi quindi, non una nuova etica ma l’umiltà necessaria «per imparare ad abitare nel mondo piuttosto che possedere una casa dove abitare». Su queste basi non programmatiche ma piuttosto nomadi e quindi capaci di trovare, di volta in volta, le vie di fuga necessarie per rifiutare «ogni possibile ontologia di vittoria» la rivista apre ai vari temi delle emergenze con cui dobbiamo fare i conti, nell’auspicio di non cadere nella tentazione di doverle superare vincendole, ma di come? conviverci. Cioè ancora occuparci del presente e non di un consolatorio quanto ipotetico futuro sempre a venire.

Troviamo quindi la pandemia, emblema di «una società sempre più malata, ma sempre più potente» in questa efficacissima immagine presa da Guy Debord (Il pianeta malato, 1971) e di conseguenza la ferita del TAV. «Se la valle è ovunque», per poi proseguire con gli arresti e le estradizioni di quel pugno di “reduci incanutiti” da decenni riparati oltralpe. E ancora il carcere col suo «deserto semantico»: quali parole abbiamo ancora per dirne l’orrore… E molto, molto altro ancora; ma insomma cercatela, sfogliatela, compratela o, se proprio non vi sono rimasti che gli occhi per piangere, rubatela. Ne vale la pena anche fosse solo per rileggere un grande Franco Fortini e la sua «Milano, città scomparsa?». Dimentico tantissime altre cose ma non posso non segnalare la grafica raffinatissima e le splendide illustrazioni. Buona lettura!

NOTICINA DELLA “BOTTEGA”

Un bentornato a Giuliano e un grande-grande abbraccio (lui sa perchè). Poi il benvenuto a questo «Teatro di Oklahoma» che consideriamo, prima ancora di averlo materialmente incontrato, un cugino. Se  non siete kafkiani (dovreste diventarlo però) vi spieghiamo il riferimento del titolo. Alla fine del romanzo  «America» – opera giovanile di Franz Kafka, rimase incompiuta e fu pubblicato postuma – il protagonista vede su un manifesto che il teatro di Oklahoma è alla ricerca di collaboratori e promette di assumere chiunque si presenti. Come finirà non lo sa Karl-Franz… fiiiiguriamoci noi. Però è bello sapere che ti cercano.

 

Redazione
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