In Brasile la conservazione della biodiversità…
… passa attraverso le comunità quilombolas.
di Martina Ferlisi (*)
Anche il Coordinamento nazionale delle comunità nere rurali quilombolas (Conaq) prende parte alla trentesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2025, la Cop30, iniziata il 10 novembre a Belém, in Brasile. Una partecipazione che è stata rivendicata con forza da parte delle comunità afrodiscendenti e quilombolas come riconoscimento del loro importante contributo alla conservazione della biodiversità, legato alla profonda conoscenza della gestione autenticamente sostenibile delle risorse naturali.
“I quilombos sono comunità formate da persone nere che sono fuggite dalla schiavitù (i primi quilombos in Brasile sono stati fondati a partire dalla seconda metà del 1500, ndr) e hanno creato spazi di resistenza e libertà, solitamente in luoghi isolati con una propria organizzazione politica e culturale -spiega ad Altreconomia José Maximino Silva, coordinatore nazionale del Conaq-. Oggi quelle che chiamiamo comunità quilombolas sono delle derivazioni di una di queste precedenti formazioni. La particolarità dei quilombos è che sono costituiti da persone con un’identità etnica molto forte e che hanno un senso di appartenenza al loro spazio fisico e geografico molto sviluppato”.
Attualmente in Brasile 24 delle 27 unità federative (26 Stati a cui si somma il distretto federale dove si trova la capitale Brasilia) che compongono la Repubblica federale brasiliana presentano una comunità quilombola. Secondo l’ultimo censimento condotto nel 2022 dall’Instituto brasileiro de geografia e estatística (Ibge, l’Istat brasiliano) 1,3 milioni di persone si identificano come quilombolas e sono distribuite in più di ottomila comunità, 1.700 Comuni e in tutti i biomi del Paese.
Il ruolo positivo e strategico delle comunità quilombolas, e più in generale delle comunità tradizionali, nella conservazione e protezione ambientale e delle foreste è stato più volte dimostrato. Una delle ultime ricerche realizzate è stata quella del 2023 di MapBiomas, -la rete globale, composta da università, Ong e aziende tecnologiche, che monitora il consumo di suolo e i suoi impatti in Sud America e in Indonesia-, che dimostra come dal 1985 al 2022 i territori abitati da questi gruppi, registrati nel censimento Ibge 2022, hanno perso circa il 4,7% della loro vegetazione nativa, mentre nelle aree private la perdita è stata del 17%. Inoltre per le zone che sono state riconosciute di proprietà delle rispettive comunità afrodiscendenti la perdita è stata ancora inferiore e pari al 3%, dato che rende evidente l’impatto positivo della regolarizzazione fondiaria.
Il riconoscimento del ruolo dei quilombos è infatti profondamene legato alla regolarizzazione dei loro territori ovvero al processo di certificazione ufficiale da parte del governo federale della proprietà fondiaria dei luoghi in cui i discendenti di coloro che sono fuggiti dalla schiavitù hanno lavorato e vissuto per generazioni. Questo consente alle comunità quilombolas di rimanere nelle aree dove storicamente hanno abitato e di utilizzare le risorse naturali presenti per sostenere le loro vite, rafforzando così la loro azione di difesa ambientale e stimolando il tramandarsi di pratiche sostenibili che sono state mantenute per generazioni.
“La questione fondiaria è alla base di tutto perché è nei territori che abitiamo che risiede l’identità etnica della nostra popolazione e il nostro senso di appartenenza ancestrale -racconta Maria Aparecida Ribeiro de Sousa, coordinatrice nazionale del Conaq e del suo collettivo di donne-. Non ci accontenteremo mai di un territorio qualsiasi. Noi non vogliamo la terra di nessuno ma solo il diritto a rimanere nello spazio dove i nostri antenati sono sempre stati e dove siamo oggi, per garantire che anche le generazioni future possano continuare a occuparlo”.
La titolarità ufficiale dei territori collettivi tradizionali offre infatti protezione legale contro le controversie sulla terra, come l’accaparramento e il furto di risorse, oltre a garantire l’accesso a politiche pubbliche alla base dei diritti sociali, come la salute, l’istruzione, la sicurezza alimentare e l’alloggio. Inoltre rappresenta un importante passaggio nel processo di riparazione nei confronti della storia delle persone afrodiscendenti che è stata a lungo dimenticata.
“Quando avvenne quella che noi chiamiamo la falsa abolizione della schiavitù, il 13 maggio 1888, i neri furono ‘liberati’, ma non furono loro fornite le condizioni per sopravvivere, per continuare a esistere e avere il diritto a una vita dignitosa -prosegue Maria Aparecida Ribeiro de Sousa-. Pertanto questa questione è essenziale ma lo Stato brasiliano è stato lento e negligente in questo processo, il che ha portato alla perdita di diversi nostri leader”.
Nel 1988 la Costituzione federale stabilì infatti che i superstiti delle comunità dei quilombos avrebbero ottenuto il riconoscimento definitivo della proprietà delle loro terre e che lo Stato avrebbe avuto l’onere di emettere tali titoli. È stato però solo nel 2003 che un decreto presidenziale (il n.4.887) ha normato le procedure amministrative per l’identificazione, il riconoscimento, la delimitazione, la demarcazione e la titolazione della proprietà definitiva delle terre occupate dalla popolazione quilombola. Dal 2004 l’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria (Incra) ha emesso 180 titoli a beneficio di 142 comunità quilombolas in 58 territori. Attualmente sono in corso 1.937 processi di regolarizzazione fondiaria, il numero è quindi ancora molto basso. Inoltre la loro complessità ed estrema lentezza contribuiscono a un contesto di crescente vulnerabilità degli attivisti e attiviste quilombolas.
“Queste procedure possono arrivare a durare venti anni -continua José Maximino Silva-. Abbiamo calcolato che se dovessimo concluderle a questo ritmo per tutte le comunità oggi censite, sarebbero necessari duemila anni. E noi non abbiamo tutto questo tempo, anche perché intanto vengono perse molte vite. Ogni volta che l’iter avanza si verifica infatti un aumento della brutalità, delle minacce e delle morti dei nostri rappresentanti”.
I leader affrontano infatti quotidianamente minacce, attacchi, violenza fisica e sessuale e molti sono stati assassinati, come riporta la ricerca “Vite interrotte”, pubblicata nel 2025 dal Conaq con il sostegno dell’Unione europea, nell’ambito del progetto “Resistencia quilombola” (resistenza quilombola) di cui l’Ong italiana Cospe è capofila. Da questo documento, che è stato prodotto coinvolgendo oltre 90 comunità in situazione di conflitto, risulta che dal 2019 al 2024 sono almeno 58 le minacce registrate con circa 9.800 persone a rischio costante di morte a causa di conflitti territoriali, invasioni armate e distruzione di case, mentre sono 46 gli omicidi di membri dei quilombos difensori dei diritti umani.
“I nostri spazi sono ambiti soprattutto dai grandi proprietari terrieri e dalle grandi imprese, come l’industria mineraria e i parchi eolici. Questi oppressori vorrebbero impossessarsi o non vogliono lasciare le nostre aree e le comunità locali sono costrette ad affrontarli -dice José Maximino Silva-. La quasi totalità delle minacce e dei pericoli deriva proprio da questo scontro in difesa del territorio. Quanto più i leader lo difendono tanto più vengono intimiditi. Colpiscono i portavoce dei nostri gruppi perché sanno che se mettono a tacere loro mettono a tacere l’intera comunità”.
Dal 2008 al 2024 inoltre 22 donne quilombolas, in gran parte leader comunitarie, sono state uccise e due hanno subito tentati omicidi. “Le donne hanno un ruolo particolarmente importante all’interno delle nostre realtà -racconta Nathalia Purificação, coordinatrice della comunicazione del Conaq-. Storicamente sono loro che sono presenti sul territorio e lo nutrono, sono quindi le protagoniste nella sua difesa e di conseguenza sono anche le più esposte e attaccate. Dal 2021 al 2023 siamo riusciti a mappare più di 50 casi di minacce contro di loro. Abbiamo deciso di adottare una prospettiva di genere in questa ricerca anche perché vengono ancora uccise per il solo fatto di essere donne. Una buona parte degli atti violenti contro di loro proviene infatti anche da partner, fidanzati, vicini, colleghi di lavoro e di associazione. Nel loro caso c’è quindi molto più di un conflitto territoriale e di una disputa sulla terra”.
Lo studio “Vite interrotte” riporta infatti come le donne vengano assassinate in un modo molto più crudele rispetto agli uomini. Come nel caso di Maria Bernadete Pacífico, portavoce quilombola di Bahia e coordinatrice nazionale del Conaq, assassinata ad agosto 2023 a 72 anni davanti ai suoi nipoti, con più di 26 colpi di pistola al volto.
“Mãe Bernadete era già morta dopo i primi tre colpi, era a casa sua, era impreparata. Era stata minacciata ma era stata rimossa dal programma di protezione due mesi prima di essere assassinata; quindi lo Stato non monitorava più la sua situazione ma lei non ne era a conoscenza -conclude Nathalia Purificação-. Da cinque anni denunciava l’omicidio di suo figlio, morto anche lui per aver difeso il suo territorio. Il modo in cui è stata assassinata ci fa rendere conto del fatto che è stata molto di più di un disputa per la terra ma si è trattata di una dimostrazione di potere maschile nella sua forma più crudele”.
(*) Link all’articolo originale: https://altreconomia.it/in-brasile-la-conservazione-della-biodiversita-passa-attraverso-le-comunita-quilombolas
