Algeria: la bandiera della zia Aichoucha

di Karim Metref

Nanna Aichoucha (leggere aisciuscia) ovvero zia Aichoucha è la sorella di mio padre. Una donna dolce e paziente che ha passato una vita molto dura senza mai lamentarsi.

Non sto qui a raccontare le vicende della sua vita di donna che ha dovuto crescere sola una ciurma di bambini.

Ma la sua storia privata, come quella di tutti gli Algerini della sua generazione, viene investita frontalmente dal treno della Storia del nostro Paese durante la guerra di liberazione.

La nostra famiglia è presa di mira dalla soldatesca francese. Suo nipote, figlio della sorella scappa in montagna con i partigiani del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) e diventa uno dei luogotenenti del famoso colonnello Amirouche. Prima di essere circondato e gasato in una grotta nelle montagne del Giurgiura.

Suo fratello, mio padre, viene arrestato. Un partigiano torturato ha fatto il suo nome come attivista della rete civile del Fln. Prelevato dal liceo dove studiava fu torturato a lungo e poi rinchiuso in carcere per anni.
Suo padre e i suoi fratelli sono segnati come pericolosi elementi indipendentisti. I soldati vengono a casa tutti i giorni. Picchiano, insultano, minacciano, rompono tutto.

Poi la famiglia prende e se ne va ad Algeri, per cercare di nascondersi nella grande città.

Il nostro villaggio, considerato covo di indipendentisti, nel frattempo viene svuotato e preso a cannonate.

La famiglia ad Algeri si nasconde: prima dai soldati e dalla polizia e poi dall’organizzazione terroristica di estrema destra OAS. Paura, angoscia permanente. Ogni membro della famiglia che esce la mattina per andare a lavorare o studiare potrebbe non tornare mai.

Potete immaginare la gioia della zia Aichoucha e di tutte le donne algerine quando nel 1961 vince il “sì” al referendum per l’indipendenza. La guerra stava per finire.

Dopo la proclamazione definitiva dell’indipendenza, le nuove autorità del Paese chiamarono a festeggiare per il 5 luglio. Data simbolo che chiudeva giorno per giorno un ciclo di 130 anni di dominio coloniale.

La zia Aichoucha passò, come molte delle vicine, la notte del 4 al 5 luglio a cucire questa bandiera che vedete: disegnata un po’ male, tagliata e cucita alla buona. Ma non importa. Quella era solo stoffa. Quello che conta è quello che si cela dietro. Quello che conta è la speranza che si concentrava in quei tre colori e in quella stella un po’ goffa con la mezza luna un po’ storta.

Quella bandiera fu utilizzata per festeggiare l’indipendenza. Ma l’indipendenza fu presto sequestrata dal così detto esercito delle frontiere. I leader della rivoluzione sono finiti in carcere, in esilio o assassinati in giro per il mondo. Qualche vecchio partigiano tenta di riprendere le armi. Ma la gente non ce la fa. Non vuole più. “sebaa snin barakat”, Sette anni bastano gridava la gente. Le cose in qualche modo rientrano in ordine. Almeno nel nuovo ordine, voluto dai colonnelli.

Mia zia mette la sua bandiera in un cassetto, fra le cose care. E’ stata una così grande speranza. Ma quella speranza rimane rinchiusa nel cassetto. Tanti anni.

La dolce zia Aichoucha è morta qualche anno fa, senza mai riavere l’occasione di ritornare in piazza portando con orgoglio quella sua bandiera.

Adesso mia cugina, figlia della zia Aichoucha, ha tirato fuori quella bandiera. Era rimasta lì ben 57 anni. Insieme al fratello arrivato dalla Francia per essere presente in questi momenti storici, l’hanno portata in piazza e sventolata di nuovo. In ricordo della zia Aichoucha, in ricordo delle sue speranze e delle sue delusioni.

L’hanno portata e l’hanno sventolata in piazza sperando di poterla riportare spesso con gioia e orgoglio e di non tenerla più rinchiusa in quel triste cassetto delle speranze tradite. Le speranze della zia Aichoucha. Le speranze dell’Algeria.

Karim Metref
Sono nato sul fianco nord della catena del Giurgiura, nel nord dell’Algeria.

30 anni di vita spesi a cercare di affermare una identità culturale (quella della maggioranza minorizzata dei berberi in Nord Africa) mi ha portato a non capire più chi sono. E mi va benissimo.

A 30 anni ho mollato le mie montagne per sbarcare a Rapallo in Liguria. Passare dalla montagna al mare fu un grande spaesamento. Attraversare il mediterraneo da sud verso nord invece no.

Lavoro (quando ci riesco), passeggio tanto, leggo tanto, cerco di scrivere. Mi impiccio di tutto. Sopra tutto di ciò che non mi riguarda e/o che non capisco bene.

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