La Città – 7

di Mauro Antonio Miglieruolo

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(Segue da “La Citta-6”, mercoledì 2 agosto)

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C’era una poltrona, lì vicino. Poiché sentivo di non riuscire a starmene in piedi, tremavo troppo, grande, grosso e fregnone com’ero (bisognerebbe trovarcisi per capire), mi ci sedetti. Forse piansi. Quel che è certo è che mi isolai completamente dalla realtà, rapito integralmente dal turbine della pena. Mi resi conto appena del principio di nausea che mi invitava al deliquio. Per un po’ mi astrasse completamente dalla realtà. Uscii dal pozzo della perdizione per merito dell’amico, per le sue bestemmie, le sue imprecazioni. Tornai in me che blaterava contro “quella”, cosa diavolo poteva averci per ridurre gli uomini in quello stato? Saltai su e gridai.

– Tu lo sai dov’è. Lo so che lo sai! Non avresti questa busta, altrimenti.

Tornò a fissarmi nello stesso modo impietosito del nostro incontro precedente. Non ebbi la forza di ribellarmi. Di odiarlo. Di vergognarmi. Di fare alcunché. Anche la forza di odiare era svanita. Non avevo nulla da nascondere, nulla da difendere. Nessuna dignità. Ero stato annullato dalla vita. Da me stesso mi ero annullato.

– Lasciala perdere, – mi esortò per l’ultima volta, parlando piano, sussurrando quasi. – Oltre quello che ti è stato regalato, credimi, non puoi avere null’altro. – Si concesse una pausa e riprese: – Contentati dei soldi. Contentati…

Lacerai la busta e con la busta i quattrini e con i quattrini il biglietto e con il biglietto la ragione e la possibilità di fare alcunché di ragionevole. Mi osservò sconfortato. Tonto ero, proprio tonto. Irrecuperabile. Ma io laceravo la busta per non ridurre a pezzettini l’anima già lacerata, che già stava male nel ridotto del mio male.

– Mi ha rubato qualcosa, – affermai. – Me la deve ridare.

– Non puoi riavere nulla, – sempre paziente e rassegnato, l’amico.

Ma io ero pazzo e non gli credevo. Né aveva senso credergli dopo che lui stesso mi aveva spiegato come Madonna si fosse prodigata per salvarmi. Era impossibile a quel punto rinunciare a incontrarla per poterle dire, sono pronto a pagare qualsiasi prezzo, pur di stare con te (ero molto giovane, allora).

– Dimmi dove la posso trovare, ti prego, dimmelo…

Pregai bene, probabilmente. Lo pregai in un modo che capì che ero disposto a tutto, anche a leccargli il culo, anche i coglioni, a rotolarmi per terra e invocare misericordia; per cui quando mi gridò contro vattene, stronzo! perdio, vattene! Non poté evitare un’incrinatura nella voce. E poiché rifiutai di andarmene, l’incrinatura si allargò e divenne resa, divenne una sua petizione.

– Idiota! Non hai visto il Sensoriale. Hai forse dimenticato com’è finito il tizio che ha preso il tuo posto?

Avevo visto, ma non mi importava. Che senso avrebbe avuto continuare in sua assenza? Un’ora trascorsa con lei valeva bene il resto della vita, della mia grama vita.

– Se vai da lei, nella nuova casa, – imperversò, – sarà la tua fine… oppure la sua fine… dai, non rendere inutile il disturbo che si è preso! Non puoi nemmeno immaginare i guai che ha passato per lo scherzetto dei cento euro, con il quale ti messo fuori circolazione, e per mezzo del quale ti ha tolto dai guai!

Il mare irato, nonostante le barriere elettroniche, faceva andare su e giù la Casa Galleggiante, su e giù il mio stomaco, su e giù ciò che avevo dentro, su e giù i succhi gastrici. Avevo bisogno di liberare lo stomaco, ma anche di quello mi importava poco. Lo star bene, lo star male, la nausea e lo svenimento, nulla aveva significato, salvo che avere quell’indirizzo.

L’indirizzo non veniva e la nausea aumentava. Le forza nella gambe minacciava di venir meno.

Ora gli vomito in faccia, pensai rendendomi conto con quanta velocità stesse aumentando.

Mi vidi vomitare, mamma che schifo, un getto possente, per fortuna ben diretto, uscì dalla porta e si perdette un po’ fuori un po’ dentro la barca. Dopodiché vi fu un intervallo in cui qualcosa successe, non so cosa, ero ridiventato incapace di intendere e di volere. Il sollievo però no, quello non venne. La nausea perdurava, non ero riuscito a liberarmi.

In quell’eclisse momentanea avvertii parole, delle quali decifrai i toni che dalla protesta passavano alla rassegnazione, non i significati. Infine il buio totale, nel corso del quali alle azioni non corrispose consapevolezza alcuna del loro contenuto. Per alcuni minuti fui automa, più che uomo.

Tornai in me sul molo, che correvo come un pazzo, le folate di vento che mi spostavano, ondeggiante, la testa che suggeriva di andar piano, dato che ormai sapevo, inutile mi facessi scoppiare il cuore, le gambe però non ne volevano sapere di rallentare. Desideravano correre e correvano.

La notte sincera, nel suo più autentico nereggiare, era del tutto priva di astri in cielo. Non Luna, né stelle. Lo stesso cielo, pensavo correndo, che spetterà ai sopravvissuti dell’entropia, dopo i miliardi di anni inanellati pazientemente uno ad uno, per tutti gli uno che separano dalla fine del mondo. Il buio dell’avvenire, oltre che dell’assenza di luce. Il buio della speranza. Il buio fuori e dentro, in quell’orrenda imitazione dell’ordine in cui si era trasformato l’ordine umano. Un ordine di solo artificio. Uguaglianza finta, giustizia inesistente, benessere per pochi. Persino le luci finte. In lontananza le fantasmagorie della città, il rutilante mondo artificiale nel cui grembo accogliente avevo agonizzato un paio di dozzine di anni, non potevano, non se lo proponevano neppure, illuminare quel buio. Potevano solo spezzarlo, oltraggiarlo. Da quel suo lontano spezzava infatti, non otteneva che di mortificare ogni diritto del buio, ogni norma della notte, così come spezzava le persone. Per chilometri riverberava la sua magnificenza, celebrando trionfi innumerevoli sull’umanità e sulla speranza. Verso di lei andavo, verso quella gala luminosa nella quale mi precipitavo per annullarmi, per perdermi, per sprofondare ulteriormente nel pozzo di inconsistenze che mi ero costruito intorno.

Poiché, in fondo, non proiettavo me stesso verso l’amore, dal quale mi sentivo invaso, ma nel quale non credevo, ma verso la distruzione. Il conflitto, la lacerazione, il disdoro era tutto quello che conoscessi della realtà e tutta quella conoscenza riverberavo su quel grande grandioso che avvertivo agitarsi dentro, che mi terrorizzava, minacciava il mio essere di tristezza. In quella tristezza, dopo tanti anni, avevo appreso a identificarmi. In quella malinconia. L’unico vero amore di cui sapessi ormai era l’amore per la morte, per le cose morte, per i pensieri ripetuti, per la smemoratezza, per tutto ciò che mi poteva alienare da ciò che vivevo, da ciò che ero diventato. Amavo Venere Madonna probabilmente proprio per il suo essere agente della morte. Agente degli orgasmi, agente dell’ultimo orgasmo…

Il buio mi espulse nella finzione della luce, alias pedestre illuminazione. Il molo finì e fui ai margini della città. Fui nel nessun luogo di tutti i luoghi possibili. Nel nulla del deserto metropolitano.

Nel nulla di quel deserto andai in cerca del mio granello di sabbia.

 

Senza Tempo V

Questa è la nostra Città. Strati su strati di luce artificiale. Strati su strati di artifici. Distacco, ipocrisia, menefreghismo. La Città nostra, alla quale siamo abituati dalla nascita e della quale neppure ci accorgiamo. È come un abito indossato troppo a lungo, non ci si fa più caso.

 

Una Città che non fa altro che divorarmi e io non altro che lasciarla fare. Il luogo sconfinato dei pensieri sporchi, gigantesco mercato della carne e dei cervelli.

 

Noi che percorriamo i suoi livelli, negli elevatori, nelle sale d’aspetto, nelle metropolitane, aggrappati agli appositi sostegni, le porgiamo il sacrificio mistico dei nostri sguardi vuoti, delle nostre facce dure, i cervelli atrofizzati. Ci inchiniamo davanti a lei, a questo Moloch esclusivamente volto a recintare il cielo e con un cuore ferrocemento.

 

La Città si sparge in lungo e in largo, in altezza e profondità, e dorme. Noi la costruiamo e lei attende. Attende che arrivi la morte per trionfare sulle nostre tombe.

 

E quel giorno, durante l’utima Armaggedon, si sveglierà tranquilla e sazia per constatare che è l’unica a essere sopravvissuta. Nel vuoto delle sue alte torri, nel deserto delle strade celebrerà i suoi trionfi.

Perché essa è l’eternità e noi il provvisorio destinato alla polvere.

 

UNDICI

Misurare con i passi cinquecento metri di deserto per un giovane in buona saluta è meno che niente. Si rende conto a malapena, per il crescere dei numeri, di averlo fatto. Non si stanca e resta nel tuttouguale: dal primo all’ultimo passo non è cambiato nulla. In campagna quei cinquecento metri posso, al massimo, determinare la differenza tra una quercia e un pioppo. Dentro la città e soprattutto nella nostra Città equivalgono a un salto nel tempo. Cambia il panorama, cambiano le persone, cambiano gli stili di vita. Cambia persino il regime e la costituzione. Cambia la legge, Nei cinquecento metri precedenti può capitare di trovarsi a stretto contatto con milioni e milioni di sopravviventi, mentre in quelli successivi diecimila cittadini sono considerati persino troppi. La verità è che anche il concetto di moltitudine ha i suoi risvolti relativistici.

I cinquecento metri nei quali viveva la mia ragazza era tra quelli più rarefatti. Casette basse, ognuna con il proprio giardino, niente auto in soste per le strade e parchi pubblici piene di panchine che nessuno provvedeva a distruggere; nonché verde, tanto verde. Torno torno all’abitato alte mure da città fortificata lo isolavano dall’esterno. Vi si poteva accedere tramite due sole aperture nelle mura, ambedue sorvegliatissime. Il resto del Circondario, la baraonda infernale del sopra e sottosuolo, palazzi di venti piani minimo in ambedue le direzioni e torri che sfidavano il cielo, era lontana, e debitamente tenuto lontano.

– Che vuoi? – chiese infatti di malavoglia la guardia di turno al cancello. Non si degnò nemmeno di sporgersi dalla guardiola. Se capivo capivo, sennò sarebbero stati affari miei. Diedi il nome e mostrai il passi. Non doveva essere la prima volta per quel nome quel tipo di visitatore, perché annuì e senza rivolgere ulteriori domande aprì le porte del paradiso. Non appena entrai però mi si affiancò e indicando con il dito disse: – Quel viale, percorrilo fino in fondo e poi a destra. Il primo villino è il tuo. Cammina al centro della strada, a passo normale. E non pensare neppure di poter modificare il percorso, ti teniamo d’occhio…

– Ho capito, – risposi avviandomi. – Grazie. Quel viale, l’ultima a destra.

– Bada, – insistette. – Ti teniamo d’occhio!

Non era me che avrebbero dovuto tenere d’occhio, ma lui questo non lo sapeva. Neppure lo voleva sapere. Quello a cui era veramente interessato consisteva nell’ultima voce in basso a destra della busta paga, l’assoluzione o la condanna per quel mese, a seconda della cifra, aumentata dello straordinario o decurtata dai piccoli prestiti.

Fu ligio, coerente. Mi tenne d’occhio per il primo centinaio di metri, poi tornò nel gabbiotto a leggere il giornale, dando un’occhiata, tra un titolo di testa e l’altro, alla serie di monitor che, in semicerchio, sovrastavano la sua postazione. Mi seguiva da lì. Non era facile far fesso uno come lui!

Non lo feci fesso. Neppure tentai. Non ne avevo motivo. Procedetti fino in fondo al viale e svoltai dove mi aveva detto. Trovai il cancello aperto e poi anche la porta d’ingresso. Dentro era come me l’ero immaginato. Un opprimente delirio sadomaso. Fruste, mazze, foto, cuoio, cazzi artificiali, decine di video con decine di incubi in primo piano.

Lei non c’era. Una freccia però indicava dove avrei potuto trovarla.

La camera da letto. O meglio, la camera per dormire (anche nella prima c’era un letto, ma serviva a tutt’altro che per dormire. Serviva per specchiarsi, probabilmente, essendo tutto circondato da specchi… nella seconda camera invece, linda e disadorna, solo il letto e un armadio). Dentro di essa Venere-Madonna mi guardava dall’intera parete. Notai che guardava dritto in direzione della cinepresa, in cerca di me, probabilmente, del sublime effetto, produttore di sincerità autenticità, degli occhi negli occhi. Mi fissava senza sorridere, eppure senza alcun indulgenza nei confronti della malinconia. Era serena, consapevole.

Audio e video partirono non appena fui entrato.

– Sapevo che, nonostante le difficoltà e gli avvertimenti, avresti fatto di tutto per riuscire a trovarmi. Sei un ragazzo fin troppo prevedibile… – disse in tono di dolce rimprovero. Ma lo disse sorridendo, con indulgenza. Mi sembrò persino contenta. Contenta di me e di potermi parlare. Per un momento anche io fui contento di me e molto più di lei che con tanta insperata tenerezza andava esprimendosi.

– Un bel ragazzone non ancora svezzato, – continuò. – Ho cercato di farlo io, ma il tempo a disposizione era poco… in fondo sei stato tu a svezzare me, a darmi il coraggio e le motivazioni necessarie…

Sorrise nuovamente. Ma senza altra intenzione che la necessità di sorridere questa volta, trascinata dalle parole stesse che pronunciava.

– Sei stata la prima persona che si è veramente interessata a me. Che matto che sei!

Ritornò seria.

Tornai serio. Seriamente consapevole della necessità di utilizzare il cervello. Perché quel messaggio registrato?

– Dovevo sceglie, o te, o me. Era l’unico modo per fermarli. Ho scelto. Bisognava pure ti ringraziassi, no? per avermi voluto bene! Cosicché anche io ho deciso di volerti bene. Fossi campata mille anni non ne avrei trovato uno migliore, uno più sincero, uno altrettanto bisognoso…

Non ascoltai ulteriormente. E mentre pronunciava altre parole divertite, un qualcosa del tipo come ti sei arrabbiato per quei cento euro falsi a cui devi la vita! Spalancai lo scorrevole che isolava l’angolo cottura. Forse facevo ancora in tempo. Forse potevo ancora cavarmela. O ridurre al minimo le spese…

Nulla dietro lo scorrevole.

Diedi un’occhiata rapida nella stanza precedente. Sempre nulla. Sulla destra una porta, forse quella dei servizi igienici. Chiusa. Mi arrabattai per aprirla. Le mani tremavano. Tremavo tutto. Lasciai perdere e mi ci proiettai contro con il peso dei miei ottanta chili. Il battente si spalancò.

Lei stava nella vasca, immersa nell’acqua fino al seno. Sorrideva. Sì, che sorrideva. Sorrideva dal volto, ricomposto nella cordialità dell’addio, sorrideva con il seno, orgoglioso nel suo ultimo apparire. Sorrideva serena, finalmente riconciliata con se stessa. Guardava verso la porta, sicura della propria bellezza con la quale mi salutava e mi sorrideva.

Vomitai nel water, clamorosamente, squassato dalla violenza della nausea, del quale, con quegli spasmi, pure mi liberavo. Due metri più in là Venere assisteva benevola.

La vasca era tutta piena del suo sangue. Aveva smesso di sgorgare. L’acqua era già fredda. Anche lei fredda. Io. Il locale. La Città. Il mondo un intero universo di freddo… Io, lei, il sangue… ecco cosa consegue all’incontro di due disgraziati!

Di là, nella stanza, il lettore continuava a snocciolare il suo messaggio

– Non ti dar pena per me. È da molto che aspettavo l’occasione per tirarmi fuori. E questa era l’unica strada. Credimi, non ne potevo proprio più. Come spiegarti l’inferno in cui era precipitata la mia vita? Tenta di capirmi almeno tu, e di compatirmi. Io dentro ero piena di lacrime. Ma neppure questo potevo fare, neppure piangere. Non me lo permettevano. Sangue e dolore sì, molto. Anche piacere. Ma lacrime mai, avrebbero incrinato l’immagine di vipera sadica assassina che mi avevano costruito intorno. Che mi ero costruito intorno. Sii contento per me, allora, ché finalmente ho smesso di soffocare la pena…

Smisi di ascoltarla. Uscii. Non avevo nulla da dire, nulla da ascoltare. Solo fuggire lontano. E dire che, poi? Che eravamo due nuovi schiavi? Due precari dell’esistenza? Che ci potevamo capire pur essendo impossibile l’incontrarci?

Iniziai a dirgliele quelle cose, insieme a tante altre (gliele dissi per mero gusto di dirgliele), nell’elevatore che mi conduceva nell’infimo dei miei alloggiamenti. Scesi e salii, su e giù, a caso, incapace di approdare a una qualsiasi meta. Restai ore in quell’elevatore e nei tanti altri che mi costrinsero a prendere gli sguardi incuriositi di chi mi vedeva fermo contro la parete di fondo, le mani intrecciate dietro la schiena, il capo chino. Mi mossi vagamente, come un fantasma, fino al mattino seguente, recitando automaticamente dentro di me le frasi di spiegazioni che non ci eravamo potuti scambiare.

Poi arrivò l’alba e la mente finalmente tacque. Non volle più nulla dalla bocca, più nessuna frase impossibile da pronunciare. Neppure quelle possibili, le solite, il buongiorno e buonasera, come sta? È da tanto tempo che non ci vediamo…

Le parole lunghe e le parole brevi che la Città ci ha insegnato a pronunciare.

Per molti anni non volli articolarne neppure una.

 

(fine)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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