Le Corbusier: una macchina … da abitare

di Lucilla Brignola (*) – PRIMA PARTE

Una macchina…da abitare. Le Corbusier, Unité d’Habitation a Marsiglia – Prima parte

L’Unité d’Habitation a Marsiglia ©MjZ

Il 14 ottobre del 1952 fu inaugurata l’Unité d’Habitation di Marsiglia, edificio simbolo di un nuovo modo di vedere e vivere l’architettura, espressione delle più moderne tecniche progettuali e costruttive, emblema del Razionalismo, delle teorie del Bauhaus e sintesi di tutte le esperienze e teorie di Charles-Édouard Jeanneret-Gris.

Questo nome, per i non addetti ai lavori, potrebbe non essere significativo, ma se lo si sostituisce più semplicemente con Le Corbusier o Le Corbu o anche LC tutto appare più chiaro anche per coloro che non si interessano di architettura. Lui stesso aveva già utilizzato questo nome per firmare alcuni articoli sull’Esprit Nouveau, giornale fondato in collaborazione con il pittore Ozenfant adottandolo poi definitivamente anche sulla carta d’identità ed è quello con cui oggi tutti lo conoscono e con il quale ha firmato le sue opere, a volte molto discusse, come appunto l’edificio in questione.

Pur non laureato in architettura ma alla scuola d’arte fu un grande teorico che seppe trasfigurare i principi dell’architettura classica in chiave moderna senza frapporre distinzioni tra Architettura e Urbanistica e ponendo al centro delle sua visione creativa l’Uomo come misura di tutte le cose.

Le Modulor di Le Corbusier.

Le Modulor divenne la sua unità di misura (2,26 metri) che corrisponde a un uomo con il braccio alzato. Fusione di module (modulo) e or (sezione aurea) era una scala dimensionale in parte di derivazione matematica e in parte antropomorfica riferita all’uomo di sesso maschile e non femminile e non disabile e quindi, dagli avversari delle sue teorie, considerata una misura standard arbitraria.  L’atteggiamento alquanto negativo nei confronti del sesso femminile rappresentava una manifestazione della sua identità e la storia dei murales nella villa E-1027 a Cap Martin di Eileen Gray forse è esplicativa del suo pensiero nei riguardi delle donne, o almeno di alcune donne. Le Modulor era anche inteso come base per la standardizzazione del processo costruttivo e della duplicazione in serie ed è stato utilizzato anche per la progettazione dell’Unité d’Habitation.

Quello di Marsiglia, secondo Le Corbusier, doveva essere il primo di una serie di edifici che avrebbero contribuito a risolvere i problemi abitativi del dopoguerra.

Con alterne vicende, ne furono costruiti altri quattro: a Rezé-les-Nantes tra il 1953/’55, a Berlino nel 1957, a Briey Forestnel nel 1961e a Firminynel nel1967.

L’edificio di Marsiglia prese forma in Boulevard Michelet nell’8° Arrondissement dopo cinque anni di lavoro tra molte difficoltà dovute soprattutto ai problemi legati alla necessità per le maestranze delle varie imprese di adattarsi all’uso dei nuovi materiali, come il beton brut, ed alla nuova tipologia edilizia, inconsueta per quei tempi, in cui si stava sperimentando il processo di prefabbricazione. Come disse Le Corbusier all’inaugurazione:

“Faite pour deshommes, faite à l’échelle humaine,
dans la robustesse des techniques modernes,
manifestant la splendeur nouvelle du béton brut,
pour mettre les ressources sensationnelles de l’époque au service du foyer”
.

“Fatto per gli uomini, fatto a misura d’uomo,
con la robustezza delle tecniche moderne,
che mostrano il nuovo splendore del cemento grezzo,
per mettere le strabilianti risorse di quest’epoca al servizio della casa”
.

Nato, come già detto, dopo la guerra per la necessità di avere alloggi sociali, fu commissionato dal Ministero della Ricostruzione a Le Corbusier lasciando ad architetti più tradizionalisti la ricostruzione del centro città.
La Cité Radieuse, il luogo nel quale veniva ristabilito il rapporto uomo-natura sorse, quindi, in un’area periferica di circa 3.500 metri quadrati immersa nel verde. L’edificio, che poteva contenere circa 1.600 persone, si estende per 140 m di lunghezza e 24 m di larghezza, su 18 piani per un’altezza di 56 m, 337 appartamenti tutti duplex (su due piani) con 23 differenti tipologie e con 26 servizi comuni.

Piante e sezioni de l’Unité d’Habitation di Marsiglia con l’indicazione degli appartamenti duplex su due piani (blu scuro e blu chiaro) e della tipologia dei servizi comuni ad un piano (rosso)
Rappresentazione dei duplex distribuiti su due piani e serviti da la Rue Interieure
Rue Interieure ©MjZ

Il Municipio di Marsiglia all’inizio decise di consegnare i primi appartamenti, a chi ne aveva diritto come risarcimento per i danni di guerra, ai dipendenti pubblici. In seguito fu deciso di venderli tutti, cosa che avvenne tra il 1952/’59.

Al tempo fu definito la maison du fada (casa del pazzo) o le cube de béton (cubo di cemento) ma oggi è considerata una meta turistica obbligata per chi è di passaggio a Marsiglia, anche per i non architetti.

Fin dall’inizio l’edificio fu criticato e osteggiato; rappresentava il moderno in tutte le sue parti.

Per l’uso del materiale principale, il cemento, per il suo aspetto esteriore assolutamente inedito ma sempre diretta espressione delle necessità funzionali.
La vita nella Cité Radieuse era organizzata in tutti i particolari.
Era un villaggio in miniatura, una città verticale con i servizi distribuiti lungo la rue (corridoio) centrale e sul tetto giardino. Il modello ispiratore di questo prototipo di città verticale era stata la Certosa di Ema al Galluzzo (Firenze) che Le Corbusier aveva visitato nel lontano 1907. La Certosa era una miscela assolutamente equilibrata di vita comune ed intimità; ogni cella racchiudeva tutto il necessario per vivere e i cortili, gli orti comuni e le aree per la preghiera erano gli spazi collettivi.
Questo fu illuminante per lui su come doveva “funzionare” un edificio di abitazione.

L’Unità di abitazione doveva essere una machine à habiter. Una struttura in cemento armato simile ad una scacchiera nella quale i 337 appartamenti si incastravano come in un puzzle. Le cellule abitative, posizionate trasversalmente al profilo longitudinale dell’edificio, rappresentavano la dimensione privata nella quale andava salvaguardata l’intimità della vita familiare ma con la possibilità, anche con un interfono, di conversare con gli altri inquilini.

Le cellule erano tutte uguali, non erano legate alla classe sociale di appartenenza, cambiava solo la superficie dei singoli appartamenti e tutti gli ingressi si affacciavano sui corridoi centrali, le 5 rues intérieures. In questi spazi destinati alla vita comune, che rappresentavano la dimensione pubblica, si svolgeva la socializzazione.

 

©MjZ

Al settimo e ottavo piano una rue percorre longitudinalmente l’edificio in tutta la sua lunghezza rendendo facilmente usufruibili tutti i servizi da parte degli abitanti: una scuola, una biblioteca, un asilo, un supermercato, un hotel con ventuno stanze, una lavanderia, i negozi e, sul tetto giardino, una piscina, un parco giochi, l’asilo nido, un solarium, un auditorium all’aperto e un percorso ginnico di 300 metri. Il colore è posto come connotato distintivo che caratterizza gli spazi in netto contrasto con il grigio del cemento e dal tetto, si contempla la vista da un lato della montagna e dall’altro del mare.

Viste esterne ©MjZ

Il verde e il sole erano gli elementi indispensabili che dovevano caratterizzare la Cité Radieuse.

Niente in questa costruzione era stato lasciato al caso, tutto era stato progettato fin nei minimi particolari e, in quegli anni, era un fatto inusuale. L’arredo delle cucine era stato curato da Charlotte Perriand e queste erano aperte sui salotti, avevano la cappa sui fuochi e la ghiacciaia che si poteva caricare dall’esterno. Armadi a muro, porte scorrevoli, parquet, la scala interna in legno, una biblioteca per dividere gli spazi, cassette esterne nelle quali si inseriva la lista della spesa che poteva essere evasa dagli stessi negozi presenti nell’edificio. Bagni essenziali e non maiolicati, superfici vetrate lungo tutto l’appartamento e riscaldamento centralizzato con bocchette all’interno delle abitazioni.

Interni di un appartamento ©MjZ

Una nuova organizzazione degli spazi significava necessariamente un nuovo modo di vivere, ma questo aveva come risultato una scarsa possibilità, per chi ci abitava, di apportare modifiche sostanziali, d’altronde l’abitazione era corredata di tutti i comfort disponibili all’epoca. Le forme erano elementari, geometricamente pure, sparivano gli stili del passato.
I noti Cinque punti di LC, che erano già stati attuati nella villa Savoye a Poissy (1928/’31), abitazione privata oggi sede della fondazione Le Corbusier, venivano finalmente sperimentati in un edificio pubblico che permetteva una loro utilizzazione su larga scala e in maniera strutturale.
I pilotis, le piante, le facciate libere, le finestre a nastro e il tetto giardino, questo era il suo programma progettuale innovativo che finalmente poteva mettere in opera.

Viste d’insieme e prospetto laterale de L’Unité d’Habitation a Marsiglia ©MjZ

L’uso dei pilotis, in questo caso massicci pilastri di forma tronco-conica, permetteva di sollevare la costruzione da terra consentendo l’utilizzazione dello spazio sottostante anche per altre funzioni e, soprattutto, che l’edificio non fosse a contatto con l’umidità del terreno.

Le piante, le facciate libere e le finestre a nastro erano consentite grazie all’uso dei telai in cemento armato in sostituzione dei setti in muratura e alla possibilità di arretrare i solai rispetto alla facciata utilizzando gli spazi liberamente e con ampie finestrature.

Vetrate interne ©MjZ

Non più tetti a falde, finalmente lo spazio delle coperture poteva essere recuperato e utilizzato per attività e servizi comuni ad uso degli abitanti e per inserire il verde che non doveva essere necessariamente al piano terra.
Col trascorrere del tempo le abitudini e le esigenze degli abitanti sono cambiate; anche tra gli inquilini c’è stato il ricambio generazionale e, pur restando l’albergo e la scuola, alcuni servizi hanno lasciato il posto ad altre attività.

Questo edificio, molto discusso al momento della sua costruzione, oggi è diventato un luogo molto alla moda e alquanto dispendioso per vivere; ambita residenza di artisti, sede di vivacissima attività culturale molto condivisa dalla comunità degli abitanti che hanno formato un’associazione, una vera e propria comunità verticale apolitica e apartitica nata per difendere i loro interessi e sviluppare le relazioni umane.

Nel 1986 l’Unité d’Habitation è diventata monumento storico che, nel 2016, l’UNESCO ha inserito nella lista dei siti del patrimonio mondiale dell’umanità insieme ad altre 16 opere di Le Corbusier, un dovuto riconoscimento per uno dei Padri dell’Architettura.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati o per gentile concessione dell’autore e sono coperte dal diritto d’autore ©MjZ

Lucilla Brignola, architetta, si laurea a Roma presso presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Collabora con importanti società di progettazione e costruzioni e partecipa a numerosi concorsi nazionali ed internazionali vincendo premi e riconoscimenti. Numerose sono le attività di progettazione svolte sul territorio italiano e le partecipazioni a progetti esteri selezionati dall’O.A.R., Ordine degli Architetti di Roma, e presentati alla Triennale di Architettura di Sofia (BG) e alla International Roundtable a Spalato. Da sempre socialmente impegnata, svolge, parallelamente alla sua professione, attività socio-culturali-divulgative al fine di promuovere l’Architettura e l’Arte.

(*) da www.diatomea.net.

Tutte le foto sono di Monja Zoppi

qui la seconda parte: https://www.diatomea.net/im-archi/una-macchinada-abitare-le-corbusier-unite-dhabitation-a-berlino-seconda-parte/

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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