Le esternazioni di Cingolani: un assist ai fossili?

di Mario Agostinelli e Alfiero Grandi

Roberto Cingolani ogni giorno descrive la sua missione con varie suggestioni (“fusione nucleare, idrogeno verde, impresa ciclopica”) ma con al fondo un tratto ben distinguibile e non accettabile. Il ministro non interviene nelle scelte con la drammaticità imposta dall’urgenza della crisi climatica: al contrario, confida in una chiave esclusivamente tecnologica per affrontare la «compromissione della termodinamica del Pianeta» (parole sue). L’assetto accentratore con cui l’esecutivo Draghi descrive e imposta la ripresa post pandemica, gli offre un palcoscenico dal quale detta le sue formule magiche, visto che i progetti di rilancio del Paese non contemplano il coinvolgimento della società o una dialettica fra punti di vista, ma sono ispirati dai grandi gruppi, con agganci internazionali e sensibili alle lobbies multinazionali, talvolta in contrasto con le direttive europee, soprattutto in materia ambientale.

Il ministro, partendo dall’affermazione che entro il 2030 l’Italia dovrà installare 70 GW di rinnovabili (moltiplicando per 10 gli attuali investimenti), ha collocato successivamente al 2030 la vera decarbonizzazione della produzione elettrica e dell’industria. In sostanza, si tratta dell’avallo alle resistenze conservatrici dei gruppi energetici nazionali e internazionali, mentre occorre una svolta e un cambiamento drastico di paradigma entro il 2025. Così si copre il più banale passaggio dal carbone al gas, come richiesto in ogni sede dai vertici di ENI e di ENEL. Quando poi si afferma che dopo il 2030 avremo altri 25 anni per uscire dalle fonti fossili si “buca” il 2050, la dead line posta dalla UE.

Che questo percorso sia quello che paventiamo, lo dimostra in alcune pieghe il «decreto semplificazioni» appena varato: il nostro Paese non vuole prepararsi alle rinnovabili senza l’ausilio dei combustibili fossili e quindi ci si lamenta dei ritardi nei processi autorizzativi per le rinnovabili ma si allentano le regole di controllo e di protezione dell’ambiente e della salute nel caso specifico di nuove centrali (articolo 18).

Perfino sul nucleare, pur sapendo che la questione in Italia è stata chiusa da ben due referendum, il ministro è stato molto blando nei confronti del tentativo della Francia e di altri Paesi di far passare a livello europeo la fissione dell’atomo come fonte «a basso tenore di carbonio», trascurando la letalità del suo impiego pur di farla accettare, al pari del CCS, come fonte per produrre idrogeno blu, anziché verde. Cingolani avrebbe dovuto dire semplicemente che l’Italia porrà il veto a qualunque tentativo di alimentare un futuro altro che residuale per il nucleare in Europa.

Intanto c’è un inspiegabile ritardo del governo Draghi nell’approvare (doveva essere inviato a Bruxelles il 31 marzo scorso) il piano per decidere dove installare l’eolico off-shore, mentre lo stesso fotovoltaico richiede un’accelerazione nelle autorizzazioni con la collocazione prioritaria su superfici esistenti e in aree industriali dismesse. In realtà si coprono le resistenze al superamento dell’uso di tutte le fonti fossili il prima possibile. I gruppi pubblici, che dovrebbero essere i primi ad adeguarsi alle direttive di un governo che fa riferimento al Green Deal Europeo, tentano di eluderne l’indirizzo entro i confini nazionali mentre al di fuori di essi – dove risulta forse più complicato fare greenwashing – investono solo in rinnovabili!

Così, per le centrali elettriche a carbone, dove il phase out è obbligato, si pensa al rimpiazzo di potenza con metano anziché passare direttamente a rinnovabili, pompaggi o idrogeno verde, ridisegnando così consumi, produzioni e buona occupazione in territori a lungo vulnerati dalla combustione dei fossili.

Il gas naturale ha chiuso il suo ciclo: insistere con nuove infrastrutture, come si vorrebbe fare con i turbogas a Civitavecchia – clamorosamente in contrasto con la popolazione, le istanze sociali e le istituzioni – significherebbe pregiudicare una riconversione ecologica laddove è già matura a partire dal mondo del lavoro.

Le politiche industriali stesse non possono aspettare il 2030 per cambiare. Pensiamo all’Ilva di Taranto: dopo la recente sentenza occorre decidere il suo futuro, contemporaneamente occupazionale e ambientale. Lo Stato è già entrato in Ilva con una partecipazione azionaria rilevante e presto sarà un’azienda pubblica a tutti gli effetti che potrà riprendere un’attività solo se compatibile con la salute. In questo caso l’uso delle rinnovabili e dell’idrogeno è forse l’unico asse di fondo su cui provare a riprogettare una destinazione, lungo l’intero ciclo che tocca l’acqua, i gas in atmosfera, la bonifica del suolo.

La gestione della transizione ecologica che si sta evidenziando non appare convincente. Cingolani ha il dovere di esplicitare come verranno impiegati oltre 50 milioni al giorno per 5 anni previsti dal PNRR. La velocizzazione non può risolversi in un favore ai colossi energetici che oggi svolgono un ruolo di resistenza verso il cambiamento, la difesa del clima e l’innovazione, frustrando il ruolo delle istituzioni territoriali e la presa di coscienza delle collettività.

LA VIGNETTA – scelta dalla “bottega” – è di MAURO BIANI: non vale solo per Taranto…

 

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