Le mille e una scoria: ottava (e ultima) puntata

di Giorgio Ferrari (*)

8 – Riflessioni di fine racconto

Qui si conclude il racconto de “Le mille e una scoria”, ma la vicenda del Deposito nazionale andrà avanti chissà per quanto tempo ancora e chissà con quali esiti. Credo però che, a questo punto, non ci si possa sottrarre dall’affrontare alcuni aspetti che travalicano i confini della mera “gestione del presente”, ovvero la ricerca di questa o quella soluzione tecnica e l’applicazione di questa o quella norma, sollecitandoci a riflettere sull’atteggiamento dei vari soggetti in campo e sulle implicazioni future delle decisioni che verranno prese in questa fase. Andiamo con ordine.

L’atteggiamento del potere

Quando il 5 gennaio la Sogin ha reso pubblica la CNAPI dando avvio alla fase di consultazione pubblica sulla localizzazione e costruzione del Deposito nazionale, tutte le problematiche descritte nelle precedenti puntate sono inaspettatamente riemerse dall’oblio in cui erano state relegate. La carta dei siti infatti era stata definita già nel 2015 sotto il Governo Letta, ma per evidenti motivi di “opportunità politica” non fu resa pubblica per cinque anni di fila da nessuno dei governi successivi: Renzi; Gentiloni e Conte I. Suonano quindi un po’ stravaganti le dichiarazioni rilasciate (il manifesto 14/01/2021) dall’ex sottosegretario all’Ambiente con delega alle politiche nucleari, Roberto Morassut, all’indomani della pubblicazione della CNAPI: «La decisione era non rinviabile, pena una infrazione europea» e a proposito della fase di consultazione «Per la prima volta in Italia la localizzazione di una grande opera avviene mediante una procedura basata sulla partecipazione».

Intanto non è prevista nessuna procedura di infrazione che riguardi la mancata pubblicazione della CNAPI non rientrando questa fra i vincoli imposti dalla direttiva UE 70/2011 che invece riguarda la predisposizione di un «Piano nazionale per i rifiuti radioattivi», questo sì oggetto di infrazione per l’Italia che non lo aveva presentato nei termini previsti. Ma di quale partecipazione si può onestamente parlare, quando si chiede ai cittadini di consultare e commentare in soli 60 giorni una mole impressionante di documenti specialistici che sono stati studiati ed elaborati da decine di tecnici qualificati nel corso di due decenni? Senza dimenticare la Convenzione di Aarhus, la direttiva 2003/4/CE sull’informazione ambientale, le raccomandazioni della IAEA in materia di informazione, basterebbe richiamare alcuni dei princìpi contenuti nelle “Linee guida sulla consultazione pubblica in Italia” – emanate nel 2017 dalla Presidenza del consiglio dei ministri e dal ministro per la Semplificazione e la pubblica amministrazione – per rendersi conto che quella in corso è una consultazione-farsa.

Chiarezza: «Gli obiettivi della consultazione, così come l’oggetto, i destinatari, i ruoli e i metodi devono essere definiti chiaramente prima dell’avvio della consultazione; al fine di favorire una partecipazione la più informata possibile, il processo di consultazione, deve essere corredato da informazioni pertinenti, complete e facili da comprendere anche per chi non possiede le competenze tecniche».

Imparzialità: «La consultazione pubblica deve essere progettata e realizzata garantendo l’imparzialità del processo in modo tale da perseguire l’interesse generale».

Inclusione: «L’amministrazione pubblica deve garantire che la partecipazione al processo di consultazione sia il più possibile accessibile, inclusiva e aperta, assicurando uguale possibilità di partecipare a tutte le persone interessate».

Tempestività: «La consultazione, in quanto parte di un processo decisionale più ampio, deve dare ai partecipanti la possibilità effettiva di concorrere a determinare la decisione finale; pertanto deve essere condotta nelle fasi in cui i differenti punti di vista siano ancora in discussione e sussistano le condizioni per cui diversi approcci alla materia in oggetto possano essere presi in considerazione».

Si può onestamente ritenere che quanto espletato finora risponda ai succitati princìpi di Chiarezza, Tempestività e Inclusione? Che sia garantita la completezza e facilità di comprensione di questa consultazione anche a chi non possiede le competenze tecniche, quando la documentazione da esaminare consiste in elaborati di progetto e disegni tecnici altamente specialistici (oltre 230 documenti per il Deposito nazionale e più di 100 per la CNAPI) di cui pochi disponibili on line, essendo la gran parte consultabile solo in cinque località distanti centinaia di chilometri dai Comuni interessati come è il caso di quelli della Sardegna, Sicilia, Basilicata e Puglia, peraltro in costanza di divieto di spostamenti interregionali per l’emergenza Covid? E come si può ritenere rispettato il principio dell’Imparzialità, quando a gestire la consultazione pubblica è la stessa società Sogin che, come si è visto, detiene il monopolio di tutte le attività che riguardano il Deposito?

I Comuni e le Associazioni ambientaliste

Posti di fronte a questo diktat, i Comuni direttamente coinvolti (70, per l’esattezza) hanno reagito in due modi: da un lato si sono rivolti alle Regioni di appartenenza per essere sostenuti nella loro opposizione o comunque per richiedere un allungamento dei tempi di consultazione (cosa che ha visto unite tutte le Regioni coinvolte e quasi tutti i partiti presenti in Parlamento); dall’altro hanno ingaggiato (con spese non indifferenti per loro) esperti di varie discipline che redigano quelle controdeduzioni almeno sufficienti a farli uscire dalla rosa dei candidati al Deposito. Sarà uno sforzo vano perché, anche in caso di proroga, non c’è modo di inficiare le risultanze delle indagini fatte per selezionare i siti, in quanto queste, come già detto, sono frutto di un lavoro ventennale che probabilmente ha già previsto la gran parte dei commenti che saranno presentati ed è in grado di affrontarli esibendo anche numerose pezze di appoggio (documenti tecnici, analisi socio ambientali, indagini geognostiche etc) che i ricorrenti nemmeno conoscono per il semplice fatto che quei documenti sono consultabili solo di persona.

C’è poi la posizione delle associazioni ambientaliste, almeno quelle che vanno per la maggiore come Legambiente e Greenpeace, che lascia decisamente sconcertati. In un comunicato stampa rilasciato all’indomani della pubblicazione della CNAPI, Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, dopo un invito ad attivare un percorso decisionale partecipato, dice che è necessario: «individuare l’area in cui realizzare un unico deposito nazionale, che ospiti esclusivamente le nostre scorie di bassa e media intensità, che continuiamo a produrre, mentre i rifiuti ad alta attività, lascito delle nostre centrali ormai spente grazie al referendum che vincemmo nel 1987, devono essere collocate in un deposito europeo, deciso a livello dell’Unione, su cui è urgente trovare un accordo».

Dal canto suo Greenpeace, oltre a riservarsi di studiare l’applicazione dei criteri che hanno portato alla stesura della CNAPI, ha riproposto l’identico documento che aveva presentato nel 2017 come osservazioni al Programma nazionale di gestione dei rifiuti radioattivi in ambito Valutazione Ambientale Strategica (VAS) dove, per quanto riguarda l’aspetto del Deposito nazionale, si legge: «Greenpeace non condivide la strategia scelta dall’Italia, basata sull’unica ipotesi di dotarsi di un solo Deposito Nazionale che ospiti a lungo termine i rifiuti di bassa attività e, “temporaneamente”, i rifiuti di media ed alta attività. In questo senso il Programma “mette il carro davanti ai buoi” ed elimina la possibilità di una valutazione comparativa relativamente ad altre ipotesi quali la realizzazione di più depositi di stoccaggio (dedicati a specifiche classi di rifiuti), ovvero la gestione dei rifiuti radioattivi a lungo termine nei siti esistenti».

Questa ipotesi della non “unicità” del Deposito è stata analizzata nella puntata numero 4 de “Le mille e una scoria” in cui si rimarcava che le problematiche inerenti a un mantenimento sostanziale dello statu quo (più depositi radioattivi) erano significativamente più grandi e numerose di quelle scaturenti dalla soluzione unica. Del resto, l’aver riproposto lo stesso documento presentato 4 anni fa lascia supporre che Greenpeace non abbia molta voglia di misurarsi con la realtà dei fatti ma nemmeno con l’operato e il ruolo svolto da Sogin in tutta la materia.

Legambiente tuttavia non è da meno, anzi, con la sua idea di mandare all’estero i rifiuti più pericolosi compie una vera acrobazia etico-concettuale: dalla necessità di minimizzare nel nostro Paese i rischi derivanti dai rifiuti nucleari (trasporti compresi) all’invito ad esportare i rischi in tutta Europa dato che un Deposito europeo per rifiuti ad alta attività comporterebbe il trasporto da più Paesi di una quantità di scorie molto più grande di quella presente in Italia con una moltiplicazione dei rischi incalcolabile. Senza contare poi che, come ammette la stessa Legambiente, il Deposito Europeo non è neppure in mente dèi, per cui sorge spontaneo chiedersi dove nel frattempo, dovrebbero stare i rifiuti radioattivi a più alta attività presenti in Italia?

E le future generazioni?

Mi rendo conto che è difficile districarsi fra questi continui e contraddittori rimandi agli aspetti tecnici della questione rifiuti; e sarebbe oltremodo sbagliato ritenere che solo “la scienza” o la tecnologia forniranno la soluzione del problema. Le stesse norme dell’IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica, che è un organo di promozione dell’energia nucleare) non sono in grado di definire quali siano le soluzioni più adatte, limitandosi a fornire raccomandazioni che a loro volta discendono dall’individuazione di alcuni princìpi base. Fra questi – classificati come Fundamental safety principles – ce n’è uno, forse il più importante, che riguarda la responsabilità verso le future generazioni. In una norma IAEA del 1989, con riferimento alla sistemazione dei rifiuti radioattivi, era scritto: «La sistemazione dei rifiuti radioattivi ad alta attività deve essere tale da impedire prevedibili rischi futuri per la salute umana o effetti sull’ambiente che oggi non sarebbero considerati accettabili». Ma in una successiva norma IAEA, nel 2006, lo stesso principio era enunciato così: «I rifiuti radioattivi devono essere gestiti in modo da evitare di imporre un onere indebito alle generazioni future che devono risultare adeguatamente protette senza che, a loro volta, debbano intraprendere ulteriori azioni protettive».

La differenza è notevole, perché nella prima definizione si dava per scontato che il grado di rischio ritenuto accettabile dalla generazione che aveva scritto tale norma lo fosse anche per le generazioni future, cosa che metteva implicitamente in discussione la loro facoltà di decidere diversamente, ovvero di stabilire che il rischio accettabile (che sarebbero stati disposti a correre) fosse minore di quello stabilito dai loro predecessori. La norma successiva, nel tentativo di rimediare a questa “gaffe” concettuale, si spinge oltre il limite della “conoscenza” perché in sostanza postula che la soluzione adottata oggi dovrebbe essere risolutiva e tale da non rendere necessari ulteriori interventi da parte dei nostri discendenti. In entrambi i casi c’è un evidente “peccato di presunzione” che non ha appigli tecnici o scientifici ma è dettato solo dalla necessità di tranquillizzare l’opinione pubblica che la soluzione al problema dei rifiuti radioattivi c’è ed è “sicura” anche per chi verrà dopo di noi. Che questo sia un peccato di presunzione è stato reso evidente dalla sentenza della Corte Federale del distretto di Columbia (USA) che nel 2004 dichiarò insufficiente e inadatto il progetto di Deposito geologico a Yucca Mountain (Nevada) perché esso si basava sull’assunto che le misure di contenimento previste garantivano l’integrità (e quindi la funzione) del Deposito per un periodo di soli 10.000 anni mentre, come fatto presente dall’Accademia nazionale delle scienze, il picco di massima radioattività dei rifiuti si sarebbe raggiunto intorno ai 300.000 anni. Quindi o i progettisti erano in grado di assicurare l’integrità del Deposito per questo ordine di grandezza temporale oppure quel progetto andava abbandonato. E così fu.

Questioni aperte

Dunque l’attuale livello di conoscenza del problema non consente di definire una soluzione tecnica definitiva e tale da escludere che le future generazioni siano chiamate a mettere in atto ulteriori interventi. Di conseguenza l’approccio alla questione dei rifiuti radioattivi basato sul principio della non “onerosità per le future generazioni” è un approccio ipocrita che serve a rassicurare noi stessi, non i nostri pronipoti; più onesto e più realistico sarebbe ammettere che, in ogni caso, lasceremo loro una gravosa eredità e per minimizzarne le conseguenze adotteremo quelle soluzioni tecniche che, nel caso si rendesse necessario un intervento, risultino più facilmente modificabili da chi verrà dopo di noi.

Tradotto nel dibattito in corso, questo significa che la soluzione del deposito geologico, rispetto a quello di superficie, è la meno modificabile anche nell’ipotesi che in futuro si renda disponibile una nuova tecnologia che consenta di ridurre drasticamente il volume dei rifiuti radioattivi. Del resto l’idea stessa di mettere i rifiuti sottoterra a grande profondità implica una loro inamovibilità perché si presume che questa soluzione sia sicura per l’eternità; ma come si è visto con il caso Yucca Mountain ciò non è dimostrabile, e dunque perché consegnare ai posteri qualcosa che impedisce loro qualsiasi intervento? Un conto infatti è mettere sottoterra contenitori di rifiuti in perfette condizioni, un conto è trovarsi nella necessità di doverli estrarre dopo 50, 100 o 1000 anni, deteriorati ed estremamente pericolosi perché, sia chiaro, i fenomeni di corrosione sono ineliminabili e avvengono anche nei depositi geologici, con l’aggravante, rispetto a un deposito di superficie, che non si possono tenere sotto controllo né si possono fare interventi riparatori.

Si obietterà che il deposito di superficie non è eterno e che anche le sue strutture si deteriorano, al punto da essere costretti a rifarlo da capo: è assolutamente vero! Ma è questo è il nodo cruciale che si vuole ignorare: l’energia nucleare è un’ipoteca sul futuro, un lascito perenne a tutti e tutte coloro che verranno con conseguenze imprevedibili e per un tempo così lungo da sfuggire a qualsiasi immaginazione. Ecco perchè il modo con cui intendiamo fare questo lascito non è ininfluente per chi lo riceverà in futuro e non c’è verso di sfuggire a questa responsabilità.

Tornando al caso italiano è giusto ritenersi soddisfatti di aver impedito per ben due volte lo sviluppo del nucleare e, grazie a ciò, di ritrovarci fra le mani un lascito non così gravoso ma nemmeno tanto lieve da disinteressarsene o consegnarlo alla politica del laissez faire.

Il Deposito nazionale unico che si vuole realizzare in Italia, oltre che per le considerazioni esposte nella quarta puntata, rientra nel campo delle soluzioni “flessibili”, ma per come è stato proposto all’opinione pubblica è – e resta – una proposta irricevibile, imposta dall’alto, tecnicistica e senza il minimo coinvolgimento della popolazione in un discorso etico verso la collettività e soprattutto nei confronti delle future generazioni. Nè cambierebbe le cose un eventuale allungamento della fase di consultazione, di cui tanto si parla in questi giorni, perchè il problema non è disporre di più tempo per consultare documenti che in larga parte non si è in grado di commentare ma far svolgere, prima di qualunque fase di consultazione, una efficace e prolungata attività di informazione su tutte le problematiche, presenti e future, che riguardano i rifiuti radioattivi. E questo compito, per i motivi richiamati in precedenza, non può assolverlo Sogin.

Basterebbe questo a risolvere il problema? Certamente no perché, anche se si svolgesse una campagna informativa capillare con una effettiva partecipazione della gente, alla fine non si può escludere che la popolazione dica «no» al Deposito. Ma questo fa parte del gioco della democrazia: non si può pretendere che i cittadini accettino di esporsi ai rischi derivanti da un deposito di rifiuti radioattivi e nello stesso tempo non essere disposti a correre il rischio di vedersi opporre un rifiuto.

VEDI Le mille e una scoria: settima puntata, Le mille e una scoria: sesta puntata, Le mille e una scoria: quinta puntata, Le mille e una scoria: quarta puntata, Le mille e una scoria: terza puntata, Le mille e una scoria: seconda puntata e Deposito nazionale: le mille e una scoria

 

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