Le trappole del «parlar civile» e del non detto

di Giuseppe Faso (*)
1. Di recente sono usciti due volumetti, che invitano a “valutare il peso delle parole”, onde evitare «sedimentazioni e giudizi arbitrari» tali da «compromettere anni di lavoro contro i pregiudizi e per l’inclusione sociale»: cito alternativamente dai due lavori, anche se si tratta di libri non sovrapponibili per obiettivi, contenuti, strutturazione.
Sono ambedue opera di giornalisti: il primo, «Parlare civile. Comunicare senza discriminare» (Bruno Mondadori € 15) è a cura di Redattore sociale, individua otto «aree a rischio discriminazione» (p. VIII) tra cui più spazio è dedicato all’immigrazione, e si rivolge soprattutto agli «operatori della comunicazione» (p. IX). L’altro, di Giulio Di Luzio, «Clandestini. Viaggio nel vocabolario della paura» (Ediesse, € 10) si presenta come «un manuale di autodifesa per i giovani contro quelle semplificazioni che individuano nel migrante il nemico simbolico a cui addebitare i mali della società» (quarta di copertina) ma è rivolto anche a «docenti, genitori, educatori, formatori» (p. 15) e i colleghi giornalisti entrano in scena in maniera diversa, fin dalla dedica «Ai migranti dileggiati dal giornalismo italiano» (p. 9).
Siamo in questo secondo caso davanti a un tono e un atteggiamento piuttosto di denuncia, a volta anche declamata; mentre nel caso di «Parlare civile» (titolo azzeccato) c’è un’impostazione pedagogica, che promette «le conoscenze di base aggiornate» (p. IX) per orientare chi lavora nei media e indurlo a “ridurre il rischio di discriminazione” ed «evitare che un linguaggio deformante diventi linguaggio normale, ma senza correre il rischio, d’altro canto, che le parole siano “proibite” per l’imposizione di una linea ideologica» (ibidem).
Le strategie discorsive, gli esempi fatti, il linguaggio adoperato sono in linea con questa caratterizzazione: mentre «Clandestini», che pure affronta un numero di parole assai più alto, rischia una uniformità di tono e un interscambio di argomentazioni da una voce all’altra, in «Parlare civile» le parole che sono messe a fuoco vengono analizzate col supporto di un’informazione meno aneddotica e più congrua all’analisi, pacata e incisiva.
Di Luzio indulge a qualche approssimazione («un sistema di rappresentazione grammaticale contiguo alla discriminazione»), all’enfatizzazione tramite il punto esclamativo – di cui si fa grande abuso, come di aggettivi e avverbi onnicomprensivi, come tutto, mai, e in genere di aggettivi pesantemente valutativi -, alla prevaricazione sull’informazione da parte del giudizio; e ciò può offuscare l’adeguatezza di alcuni nodi interprativi, rilucenti qua e là per un cambio di passo che si vorrebbe più sistematico. Anche l’affollarsi degli argomenti della denuncia rischia di rendere poco didatticamente fruibile, come invece vuol essere, il lavoro di Di Luzio: in questo caso un rallentamento, una concentrazione dell’attenzione e una maggiore pacatezza avrebbero aiutato.
Faccio un esempio. A pagina 61, dopo l’ennesimo punto esclamativo, leggo: «sono conclusioni spesso legittimate dalla “comunità scientifica”, che parla disinvoltamente di insicurezza “percepita”, “predisposizione agli stupri”, “dati di fatto”, esibendo tabelle indecenti, dove la semplice presenza dei Rom viene declinata come “reato”, i delitti denunciati come “delitti compiuti”… ». E’ un elenco attento di voci su cui ho lavorato («Lessico del razzismo democratico», DeriveApprodi, 2010) e mi fa piacere che vengano riprese. Ma ciò che là veniva analizzato e su cui si argomentava qua diventa rapida prova della cattiveria dei media e di presunti “esperti”. Sono convinto che non di denuncia abbiamo soprattutto bisogno, ma di analisi, decostruzione, straniamento.
Assai più sobrio, e perciò più incisivo, il dettato di «Parlare civile», in cui la soggettività di chi scrive fa un passo indietro rispetto al controllo dell’argomentazione. Si veda, per esempio, il primo termine della sezione che più interessa qua, «badante», con una capacità di articolare informazioni che provengono da articoli di giornale, contratti nazionali di lavoro, vocabolari e soprattutto dichiarazioni di associazioni di categoria.
C’è, in Di Luzio, una capacità di reagire a termini che vengono normalmente e colpevolmente accettati (da blitz a diverso, da biblico a statistica, ecc.) con la ricostruzione del contesto che mostra come essi operino discriminazione; a volte però il contesto si estende e l’analisi ci rimette in intensità, con troppe similarità di ragionamento fra una “voce” e un’altra. Forse sarebbe stato meglio rifarsi a una più frequente concretezza di tali contesti, mostrando episodi significativi. Si sarebbe così sfuggiti al rischio messo in luce dall’affermazione che campeggia nella quarta di copertina di «Parlare civile»: «non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole».
Si impara da tutt’e due le pubblicazioni, in un caso ritagliando spunti appropriati e tenendo a bada l’effusione dimostrativa, nell’altro ricavandone informazioni accurate e indicazioni preziose per la decostruzione del discorso razzista. Se mai, una perplessità di metodo riguarda gli interlocutori cui ci si rivolge, le strategie di persuasione adottate, e in generale il “che fare?” delle persone che (come Di Luzio, il team di Redattore sociale, Federico Faloppa, Lorenzo Guadagnucci, Marcello Maneri e altri, fra cui chi scrive) hanno sentito questa problematica come urgente.

2. «Redattore sociale» è stata la prima agenzia di stampa che ha aderito alla campagna – di «Giornalisti contro il razzismo» – «Mettiamo al bando la parola clandestino». Al di là del riconoscimento dell’ottima qualità del libro, siamo alla ricerca del massimo di efficacia possibile per le nostre attività.
Del limpido discorso introduttivo di «Parlare civile» quello che mi convince meno sono le righe finali, citate sopra, quando ci si propone di «evitare che un linguaggio deformante diventi linguaggio normale, ma senza correre il rischio, d’altro canto, che le parole siano “proibite” per l’imposizione di una linea ideologica». Le virgolette imbarazzate e il ricorso all’accusa di ideologia non possono nascondere le ripresa di un’obiezione frequente a discorsi contro il sessismo e il razzismo. Così non solo si evita di «proibire parole con imposizioni ideologiche», ma si rischia di non volere correre il rischio di sembrare ideologici. Mettendo le mani avanti, si rischia di accettare la liceità di un’accusa indimostrata e di confermare l’inermità di chi non ha fatto lo stesso gesto di resa. Non è certo ciò che «Parlare civile» si propone.
Quando su questo sito si proposero alcune parole da adoperare al posto di altre, si cercava di suggerire una terminologia meno discriminatoria, ma si offriva il fianco a chi reagisce alle perplessità accusando di ricorrere al “politically correct”, o a censure intolleranti. Chi non ne abbia memoria, apra i giornali o ne scorra le edizioni online, e veda con quanta arroganza si sono mosse simili accuse per rispondere alle preoccupazioni espresse dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, sulla violenza (anche verbale) contro le donne. Una preoccupazione che è stata tacciata di “ideologia”: un termine ormai sottratto a ogni dignità concettuale, usato com’è non tanto per indicare un «sistema concettuale e interpretativo» o un «complesso delle motivazioni ideali usate per legittimare interessi e poteri reali» (cito apposta dai dizionari più in uso), ma per bollare idee non assimilabili alla chiacchiera quotidiana. Chi metta un punto interrogativo su dispositivi di falsa coscienza conformistica verrà accusato di falsa coscienza. Chi azzardi un dubbio su una cattiva abitudine, anche linguistica (che so, inciucio, divisivo, buonismo, ecc) verrà accusato di essere ideologico e divisivo, di demonizzare e di richiamarsi al politically correct. Un linguaggio preformato, che molto dice su chi lo adopera, e assai poco su chi subisce queste intimidazioni. A queste posizioni si concede che ci sia il rischio di «proibire l’uso di parole con imposizioni ideologiche»?

3. Si proponeva, in questo sito, di riflettere su che cos’è, davvero, un “clandestino”. Non molto tempo dopo, ho mostrato (a p. 32 del «Rapporto sul razzismo in Italia», a cura di Grazia Naletto, manifesto libri, 2009 oppure su http://www.cronachediordinariorazzismo.org/wp-content/uploads/rapportosulrazzismo.pdf) come il termine «clandestino» non tolleri, contrariamente a un vezzo (discutibile) di cronisti e redattori, la sostituzione con un sinonimo. Così, leggiamo di solito: «cinese…orientale…sol levante…dagli occhi a mandorla», e chiuso il ciclo si ricomincia: «cinese…orientale… dagli occhi irrimediabilmente a mandorla». E invece, su due parole questa ossessione del sinonimo non scatta; così leggiamo abitualmente “clandestino… clandestino… clandestino… clandestino…” e “badante… badante… badante… badante…”. Studenti di liceo, posti davanti a queste misteriose eccezioni, hanno osservato: se si usasse un sinonimo di «clandestino» e «badante», sospetteremmo che dietro queste parole c’è altro, e dentro un forte potenziale discriminatorio.
«Parole di plastica» le definisce Uwe Pörksen in un libro cruciale tradotto in Italia da una raffinata casa editrice dell’Aquila, Textus dopo il 2009, quando avevo indicato come sintomatica l’elusione del ricorso al sinonimo per «badante» e «clandestino». Ci trovo, a p. 63, fra le proprietà che implica la “plasticità” delle parole: «soppiantano i sinonimi». Ed ecco altre proprietà: «dispensano da questioni morali (…) più che un contenuto, hanno una funzione». C’è molto altro, in Pörksen, ma i libri importanti bisogna invitare a leggerli ed evitare di saccheggiarli. Pörksen ci sta dicendo che alcune parole, che diventano «la prigione quotidiana delle percezione», sono stereotipi connotativi: scompare la loro capacità denotativa, se mai ne hanno avuto una, e più che indicare contenuti dell’esperienza hanno la funzione di colonizzare l’immaginario, con la prevalenza assoluta della connotazione sulla denotazione.
Per servirci di una similitudine, inventata da una linguista messicana Beatriz Garza Cuaron («La connotación: problemas del significado», 1978), la denotazione di una parola è come la prima onda che si forma quando si getta un sasso nell’acqua; e la connotazione (sensazioni, valutazioni, associazioni) come i cerchi successivi. Alcune parole hanno l’effetto di non produrre la prima onda, ma solo i cerchi concentrici successivi.

4. Il quesito che pongo agli amici di «Giornalisti contro il razzismo» e di «Redattore sociale» è il seguente. Se «clandestino», «badante» ecc esercitano un richiamo così potente nella maggior parte dei giornalisti, sarà davvero raccomandandone un uso più consapevole che otterremo un parlare più civile?
E qui la riflessione ritorna su «Parlare civile» (<http://www.parlarecivile.it/), e sul discorso su deformazione e normalità nel discorso che conclude una introduzione peraltro ottima.
Se i fenomeni sono costruiti socialmente nel discorso, come si fa a contrapporre al «linguaggio deformante» un «linguaggio normale»? Il “normale” non sarà anche lui “normato” e perciò sospetto di ideologia non confessata? La parola «negro», analizzata molto bene nel libro, non è stata forse difesa, pochi anni fa, da persone colte, in nome della sua “normalità”? Una normalità che stingeva nella “naturalezza”, addirittura, dimenticando l’esortazione brechtiana a non scambiare ciò che è normale con ciò che è naturale. Il richiamo alla natura è un imbroglio, ma anche il richiamo al normale potrebbe rivelare la debolezza dell’impostazione epistemologica del richiamo a un “parlare civile”. I significati e gli usi del linguaggio si negoziano, a partire da una parzialità che in alcuni casi sarà sperimentale, innovatrice e inviterà, con l’esempio prima che col richiamo ad abbandonare alcuni epiteti “normali” adoperati da persone “normali”: ieri erano “serva”, “negro”, “svergognata”, “pazzo”; oggi sono “buonismo” “badante”, “clandestino”, “demonizzare”, “divisivo” ecc.
Si tratta di un linguaggio normale perché normalizzato, grazie a un compromesso fatto proprio da chi non ha «un motivo particolare per rifiutare concessioni» (Moscovici, «Psicologia delle minoranze attive», Boringhieri, p. 194). La normalità di “serva”, “svergognata”, “pazzo” è saltata quando gradualmente un numero significativo di persone ha rifiutato di concedere all’interlocutore questi modi abituali di categorizzare, e ha smesso di condividerli: con puntiglio, all’inizio, e pian piano poi senza farci più caso. Si è scoperto così che si poteva non ridurre il normale al naturale, e che accanto all’influenza conformizzante della maggioranza e al compromesso c’è la possibilità di un’influenza innovatrice, che mette inevitabilmente in discussione «la fragile rete delle relazioni, delle credenze e del consenso» (Moscovici, p. 117); anche rifiutando il linguaggio normale che costruisce tale rete.

5. Non sarà il richiamo alla “normalità” che ci aiuterà nell’impresa di trasformare il discorso di senso comune sull’immigrazione; altro è il “buon senso” indicato come «cassetta degli attrezzi» da Di Luzio a p. 11: il buon senso infatti implica lavoro ermeneutico, prove in laboratorio, decentramento del punto di vista, straniamento epistemologico. Tutto il contrario rispetto al senso comune, ancorato alla fissità di “ciò che tutti dicono” o di “so io, è così”, il buon senso, nell’analisi del discorso, sa di essere tale solo se sarà capace di andare sempre al di là delle proprie stesse acquisizioni.
Si richiama al buon senso, ad esempio, quanto scritto nella quarta di copertina di «Parlare civile»: «Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole». E’ una battuta efficace e tutta da condividere, purché si accetti il suo rovescio, sempre di buon senso: «Non esistono battute giuste. Esiste un uso giusto delle battute». La “giustezza” (l’efficacia) della battuta emergerà in un dialogo in cui qualcuno afferma che alcune parole sono sbagliate in sé e da evitare. Ma la maggior parte di chi ha lavorato sulla lingua della discriminazione non dice che una parola sia in sé discriminante: se mai, ne ricostruisce i contesti, i co-testi e le situazioni. La critica a certe scelte linguistiche non muove da un richiamo alla “giustezza” o meno delle parole. A chi si rivolge allora la battuta? Non si rischia di ritornare a un atteggiamento che concede: «non hai usato una parola sbagliata, era l’uso che non era appropriato» – nascondendosi che la sistematicità di alcune scelte rivela una loro funzionalità? Non si tratta di lapsus da correggere, ma di scelte da combattere.

6. Siamo di fronte a un compito assai più arduo del previsto; una volta compiuta la decostruzione, e verificato, accanto al dilagare del discorso razzista più sfrontato e becero, l’irrobustimento di un discorso “democratico-e-razzista”, come negoziare un linguaggio meno stigmatizzante con i produttori di questo secondo tipo di discorso? Come si potrà scongiurare il pericolo che Lucia Annunziata, intervistando Cécile Kienge, dica «Lei dalla sua Africa si porta dietro una quota di …non so…. poligamia, animismo. Sa che questo … diciamo… potrà esserle imputato prima o poi»? Si potrà, certo, discutere quell’ “imputato”, ma non basta un’analisi lessicale; ci vorrà piuttosto una competenza testuale e pragmalinguistica, per mostrare i danni attuati da Annunziata (e non solo con quest’espressione). Ma se non si prova a straniare il comportamento di Annunziata, vedendo quanta quota di intolleranza da inquisizione “si porta dietro”, ci si abitua a tanta volgarità, senza rendersi conto della scarsa professionalità di questa e altre espressioni della giornalista. E come sarebbe possibile convincerla che “esiste un uso sbagliato delle parole”, quando ha espresso parole funzionali e capaci di rendere la rilevanza di ciò di cui aveva scelto di parlare? Come ricondurre Annunziata a un livello di “parlare civile” se le si concede di costruire un presupposto stigmatizzante a ogni cosa che Kyenge può dire (l’eredità della poligamia e dell’animismo, detta da una che come erede di orrori storici è più plausibile)?
Quando il 99% dei quotidiani ha presentato la nuova ministra Cécile Kyenge con l’unico tratto saliente che vi ha individuato, l’essere di colore, sarà meglio chiedere loro di sostituire il termine discriminatorio con “nera”, o mettere in discussione la rilevanza di tale dettaglio? Nel primo caso si concederebbe che la locuzione “di colore” riguardi una caratteristica rilevante della ministra, nel secondo si prenderebbe atto, senza accettarlo, del fatto che la locuzione costituisce la rilevanza del carattere. Solo la seconda posizione ha senso, dal punto di vista scientifico (si veda ad esempio l’autorevole voce «Referente» di Ducrot, in «Enciclopedia Einaudi»); l’altra cade nella trappola e si lascia imbrogliare.
Espongo problemi e dubbi che il gruppo di «Parlare civile» avrà incontrato e riconosciuto: lo dimostra l’efficacia delle analisi svolta in quel libro. Proprio per questo è necessario uno sforzo sul piano del metodo. Una disamina del lessico dell’esclusione è imprescindibile, e ad essa va affiancata, operazione già più impegnativa, un’analisi delle strategie discorsive, della posizione delle parole e degli effetti subdoli del non-detto (come ho solo accennato nello scritto citato più su) o di quanto ripreso per via di incapsulatori anaforici (come ha mostrato Faloppa), o scegliendo la forma attiva o passiva di un verbo nel titolo (come ha fatto Maneri). Ma tanta ricchezza di analisi, se sarà utile nei luoghi e nei momenti devoluti alla pedagogia, difficilmente riuscirà a modificare linguaggi e gesti, di fronte a un’offensiva in cui l’intrico fra volgarità, aggressività, potere di dettare (e interdire) tempi e agende sta impedendo un confronto rispettoso della pluralità di istanze e posizioni; e di fronte all’arretramento di troppi democratici su trincee avvelenate da abitudini non interrogate e acquiescenze, certo, inconsapevoli. A meno che non si insista di più ad aprire luoghi di confronto fra minoranze attive e i destinatari di tanto astio, costruendo dispositivi per riconoscerne il diritto di voce. Sembrano pratiche a portata di mano, ma non le stiamo realizzando abbastanza.
(*) Riprendo questo testo dal sito di «Giornalisti contro il razzismo» e di «Cronache di ordinario razzismo» (db)

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