Libellule nella rete

recensione di Giuliano Spagnul al romanzo di Loretta B. Angiori

L’immagine della libellula in una rete evoca una doppia suggestione: drammatica quella che la vede come cibo per ragni e pacificante quella che, nella rete della vita, la vede realizzare la propria agognata libertà. Libertà, quest’ultima, conseguita solo dopo aver imparato a sottostare agli obblighi del mondo che la circonda e che solo allora le permetterà di poter volare, anche, in modo imprevedibile. Obblighi e libertà, limiti e possibilità.

Di fronte a un mondo che si prospetta sempre più privo di “grandi cambiamenti” è possibile aggrapparsi all’idea di poter “diventare libellule”?

È questa, io credo, la domanda che in questo romanzo d’esordio di Loretta B. Angiori, Libellule nella rete (edizioni Zona 42, 2023) accompagna la duplice storia (raccontata a capitoli alterni) di Rei, che vive nella grande città pubblicando in rete contenuti sull’uso del riciclo, e Chiara che in una comunità in montagna svolge il ruolo di amministratrice di sistema.

Due mondi, ma non due realtà indipendenti. La comunità rurale deve sempre assoggettarsi, in ultima istanza, alle leggi del sistema che domina il mondo nella sua globalità. Ma non siamo in un universo di tipo orwelliano. La distopia è comunque moderata e lascia spazi, di tipi diversi, sia dentro che fuori la metropoli. Momenti di autonomia in cui poter misurare la lunghezza della propria catena.

Se nelle comunità extraurbane (qui in particolare siamo a Piana di Urlele) è possibile dimenticarsi volutamente del proprio dispositivo mobile nell’espletare le proprie mansioni lavorative e condurre un’esistenza relativamente indipendente dagli schemi costrittori di una vita continuamente esposta alla condivisione e approvazione pubblica, nella metropoli è parimenti possibile partecipare (legalmente in forma anonima e in appositi luoghi non evidenziati pubblicamente) a condivisioni dei propri vissuti nella forma più libera possibile.

La storia si muove in un mondo che più di futuro sa di presente; un qui e ora un po’ diverso dal nostro ma tutto sommato compatibile, affatto familiare. Più facile immaginare la fine del mondo che di questo sistema, vale anche qui il ritornello fisheriano. Del resto, come ricorda Isabelle Stengers “distruggere il capitale o fare a pezzi il capitalismo o roba simile è un sogno, ma non è un sogno molto interessante, perché nessuno al mondo è in grado di immaginare che cosa succederebbe se ciò accadesse davvero. Viviamo in un mondo davvero complesso; dobbiamo capire e fare altri sogni.” (1) E a riprova, il romanzo ci da un piccolo assaggio delle conseguenze di un collasso improvviso del sistema.

E se non c’è nessuna rivoluzione possibile non è per la forza di chi detiene il potere e, in fondo, neanche per l’impotenza di chi non lo detiene. Ma per la consapevolezza, ormai acquisita da tutti, che un rimandare al “dopo” il difficilissimo compito di imparare a coesistere e a creare un nuovo stile di vita sia, nella sua astrattezza, tanto attrattivo quanto estremamente pericoloso. Riprendendo Stengers, per imparare a coesistere non “avremo mai il tempo se diciamo che lo faremo domani. Credo che la creazione di nuove abitudini di vita sia un processo positivo e costruttivo, e che non sia mai troppo presto per cominciare.”

L’incontro di Rei e Chiara, di due mo(n)di apparentemente inconciliabili, in realtà rappresenta la doppia profilatura di uno stesso individuo. Da un punto di vista esterno (raccontato in terza persona) la prima, e in soggettiva (come io-narrante) la seconda. Creature in trasformazione e alla ricerca di interezza, necessitano dell’incontro con l’altro, di quell’altro che non può non determinare una costante pratica del conflitto e a cui il potere della mediazione non può offrire facili soluzioni.

Le figure maschili, soprattutto quella più autorevole di Giona e quella più contraddittoria e istintiva di Tobia, rappresentano l’urgenza della rottura di uno status quo, la sfida continua alle gabbie, non solo del potere costituito ma di tutte quelle che tendono all’equilibrio della stasi perfetta, in cui obblighi e libertà vengono ripartiti e definiti.

Eppure è proprio a una figura femminile che viene affidato il compito di mettere in discussione le cose date per scontate: Emma, che non è più in vita, presente nella memoria di molti dei protagonisti, autrice del libro di contrappunti (un raro reperto cartaceo) il cui incipit è una citazione dall’Orlando di Virginia Woolf, e che contiene testi di persone a cui non piace l’idea di un’identità unica separata dagli altri.

Emma è l’entità che si fa garante delle singolarità dell’uno e della molteplicità, a cui l’uno partecipa perché ne è costituito. Ed è, non essendo più vivente, memoria che permette una traduzione intellegibile della condizione umana, di un privato che è fatto dal pubblico (sociale) e che quindi è traduttore di qualcosa che gli viene dato. Tutte le esperienze vissute in prima persona o no, sono esperienze che lo costituiscono e che necessitano d’essere tradotte e rimesse in circolo. La memoria quindi ricorda anche ciò che non abbiamo conosciuto personalmente perché tutto ciò che ci ha attraversato fisicamente, materialmente, virtualmente ecc. ci ha costituito e ha formato il nostro stato: di essere traduttori di vita altrui.

L’originale è la vita altrui, la traduzione è la nostra.

È Emma quindi in questa fabula speculativa (per trovarle un nome che non l’associ con l’ormai desertificato terreno della fantascienza come l’avevamo conosciuta nel secolo scorso) che fa da figura chiave per dettare il tempo, lei che ormai ne è fuori, “per fare emergere le parole giuste, per dare un senso a quello che proviamo, per generare un cambiamento vero.” Un bisogno di tempo che necessita di rallentare, perché è l’unico modo per “porre un limite al caos” (Deleuze-Guattari) ma senza volerlo fermare nella situazione perfetta; cosa che il ribelle irriducibile scampato dalla balena, non permetterebbe comunque di fare.

La densità di questa fabulazione, che riguarda tante persone mediocri, come noi tutti siamo (che per diventare grandi forse possiamo solo nella morte) offre una marea di punti di vista diversi e situazioni ed eventi che offrirebbero percorsi tanto ricchi quanto, forse, anche inconcludenti; piste promettenti ma troppo presto abbandonate o lasciate per una ulteriore fabula futura. I Mer, queste robotiche intelligenze artificiali collettive orientate verso la comprensione del mondo vegetale, ma forse necessitanti di affetto dal mondo umano, sono uno di questi percorsi che accennano, ma solo accennano, a un carattere fondamentale che nell’umano rischia oggi di naufragare: il comportamento imprevedibile. L’indeterminato che sta alla base della possibilità stessa della vita umana in quanto tale.

Altra parziale incursione, ma con un effetto decisamente riuscito nella sua resa drammatica è l’unica pagina in cui affiora il problema della sessualità. L’esperienza terribile di Rei, i cui responsabili vorrebbero che fosse derubricata a performance e così legittimata dalla pratica del consenso (di quel consenso che tutta la pragmatica della nostra quotidianità informatizzata ci ha abituato a considerare insignificante e comunque obbligatoria). (2)

Avremo ancora il tempo necessario per diventare libellule?

 

 

Nota 1: Isabelle Stengers, Rischio, speranza, cambiamento  in Maria Zournazi, Tutto sulla speranza, Moretti e Vitali, 2013

Nota 2: Il film L’accusa (Les Choses humaines) 2021 di Yvan Attal presente su Raiplay offre in modo drammaticamente efficace una situazione, nella sostanza, identica sulla problematica del consenso nelle “performance” sessuali della gioventù odierna.

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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