L’Occidente contro il Resto del Mondo

articoli, video, disegni di Raniero La Valle, Barbara Spinelli, Jeffrey Sachs, Manlio Dinucci, Stefano Orsi, Giuliano Marrucci, Fabrizio Marchi, Seymour Hersh, Fred M’membe, Pepe Escobar, Vittorio Rangeloni, Alessandro Orsini, Francesco Masala, John Mearsheimer, Alberto Fazolo, Daniele Luttazzi, Fabrizio Poggi, Salvatore Toscano, Francesco Toscano, Flavio Pintarelli, Pablo Iglesias, Raúl Sánchez Cedillo, Vasily Prozorov, Franco Fracassi, Enrico Piovesana, Francesco Vignarca, Matteo Saudino, Carlos Latuff

Ahi serva Europa, in balia di armi, denaro e potenti – Raniero La Valle

“Ahi serva Italia, di dolore ostello…”. Quando Dante scriveva queste parole l’Italia era un faro di civiltà, un giardino di bellezza, la culla del pensiero. Però non sapeva leggere i segni dei tempi, era in balia dei potenti, tradiva le sue origini e non riusciva a stare senza guerra. Questo si potrebbe dire oggi dell’Europa, serva delle armi e del denaro, chiusa nel suo egoismo, dimentica dei suoi ideali, sovversiva delle ragioni stesse per cui è nata. Era nata per chiudere con le guerre, per togliere le dogane al carbone e all’acciaio al fine di costruire, e non ai cannoni e ai carri armati al fine di distruggere, era nata per abbracciare i suoi popoli e farsi amica e accogliente a quelli di altre comunità e perfino era decisa a fare rinunzie alla sua sovranità non per farsi serva di nessuno bensì per contribuire alla pace e alla giustizia tra le nazioni. E prima ancora di Spinelli e di Spaak, di Schumann e di Monnet, di Ursula Hirschmann e Simone Weil, di Adenauer e di De Gasperi, l’“idea di Europa” era cresciuta lungo un millennio, come l’avevano illustrata Erich Przywara e Friedrich Heer, tanto cari a papa Francesco, e come aveva ispirato le lettere dei condannati antifascisti (l’identità cancellata da Giorgia Meloni) della Resistenza europea.

E ora che cosa è diventata? L’ultimo Consiglio europeo ce l’ha mostrato con la massima evidenza. L’Unione europea ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua “identità culturale”, secondo il “progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento”, come aveva detto Francesco al Consiglio europeo del 25 novembre 2014. La pace l’hanno licenziata a tempo indeterminato non solo i suoi cattivi capi, i suoi membri più atlantici, a cominciare dal Regno Unito, che arriva a promettere armi a componenti nucleari, ma anche i due personaggi che ne dovrebbero rappresentare l’unità e lo sguardo sul mondo, Ursula von der Leyen e Jens Stoltenberg, l’una pavesata con i colori di un Paese in guerra, l’altro, dimentico della storia, andato a chiedere di votare i “crediti di guerra” ai partiti socialisti a Bruxelles, come alla vigilia della Prima guerra mondiale.

Ma non solo: l’Europa non capisce nemmeno quello che, se mossi da probità professionale, le stanno dicendo gli esperti di geopolitica: che il suo vero “competitor” sono gli Stati Uniti, che per averla vassalla sono interessati a tenerla in guerra senza fine, vogliono dominarla col loro gas e i loro prodotti più avanzati, che non per niente hanno fatto saltare l’oleodotto che univa la Russia al resto dell’Europa. E non c’è nemmeno bisogno di particolari doti interpretative: l’hanno scritto gli Stati Uniti nella loro “Strategia della sicurezza nazionale” che la loro sicurezza, la loro difesa e l’obiettivo della loro bulimia militare stanno nel fatto che non vi sia alcuna potenza al mondo che non solo non superi, ma “nemmeno eguagli” la potenza americana. E se c’è una potenza che potrebbe osare eguagliarla non è la Russia, data già per disfatta, né la Cina, designata come suprema sfida del futuro, ma è l’Europa che, se facesse una politica meno suicida, potrebbe già ora competere economicamente e grazie alla proiezione della sua cultura, con l’egemonia degli Stati Uniti; ciò che potrebbe e dovrebbe fare proprio restando loro amica ed alleata per costruire insieme “un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, come essi lo vogliono, aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno, e che facevano ben prima dei crimini di Putin, col volere la fine della Russia.

Certo non è alzando l’età di pensione e gettando un Paese intero in una lotta sociale a oltranza, non è stando appesi alle labbra e al “Crimea o morte” di Zelensky, non è dicendo “nazione” per non dire “fascismo”, né incentivando le fabbriche a stipulare contratti pluriennali per la costruzione di armi che avranno bisogno di altrettanti anni per essere consumate sui campi di battaglia, sulle città e sui famosi vecchi e bambini costretti a morire anche loro in guerra, non è con queste scelte che l’Europa potrà ritrovare la sua dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta a unirsi. È per quegli ideali, non per essere “provincia” di un Impero che l’Europa è nata, con la vocazione ad attraversare il Mediterraneo e a guardare a Sud, a Israele alla Palestina e al mondo arabo, a Est, alla Russia e alla Turchia, e a Ovest, non solo a un’America sola, ma a tutte e due; e non è togliendo ai suoi popoli la loro tutela sociale che l’Europa unita sarà in grado di prevalere, politicamente e culturalmente, sui sovranismi. Ma allora quale politica dovremmo fare? E quanto dobbiamo aspettare per vedere arrivare qui una vera Schlein, non il dominio del passato, ma il coraggio del cambiamento?

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L’Occidente: un’oasi che ci fa feroci – Barbara Spinelli

Si stanno pagando con decine di migliaia di morti in Ucraina gli errori, le promesse tradite, la tracotanza, l’assenza di intuito e di capacità di penetrazione con cui l’Occidente ha gestito, sotto la guida di sei amministrazioni Usa, il dopo Guerra fredda e i rapporti con la Russia.

Guida priva di sagacia, che negli ultimi trentaquattro anni ha creato caos ovunque e l’ha chiamato “ordine basato sulle regole”, rules-based international order – le regole essendo quelle statunitensi.

La Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, ma la storia di questa violenza illegale ha radici in un passato sistematicamente occultato da chi, a Washington e in Europa, vede solo il segmento ucraino di un trentennio disastroso, che le amministrazioni Usa narrano come lotta del bene contro il male – come fantasticata ripetizione della guerra contro Hitler o favola di Cappuccetto Rosso, secondo il Papa. Qui in Occidente il bene, lì i barbari dell’inciviltà. Qui la potenza Usa, disperatamente ansiosa di apparire vincitrice della guerra fredda e unico egemone nel pianeta, lì gli Stati e popoli che quest’egemonia la rigettano perché rivelatasi incapace di produrre stabilità e convivenze incruente. È toccato a un europeo, il responsabile della politica estera Ue, Josep Borrell, impersonare la hybris atlantista con le parole più demenziali: “L’Europa è un giardino. Il resto del mondo è una giungla, e la giungla può invadere il giardino”. Quale giardino? Quantomeno incongruo sproloquiare su giardini con la Francia di Macron sull’orlo dell’insurrezione popolare, l’Italia di Meloni che vuol abolire il reato di tortura (ma è vietato dalla Convenzione Onu contro la tortura del 1984), la Polonia affamata di guerra nucleare, le guardie costiere libiche pagate dall’Ue che sparano sulla nave Ocean Viking per rimandare in Libia, in campi mortiferi, 80 migranti in fuga verso l’aiuola europea che ci fa tanto feroci.

A queste demenze siamo arrivati – accompagnate all’invio di armi sempre più offensive, uranio impoverito compreso – e c’è ancora chi parla, serio, di ritorno della guerra fredda. Non è guerra fredda quella che uccide l’Ucraina, ma esercitazione in guerre calde tra potenze atomiche. La Guerra fredda fu violenta e bugiarda, ma mai mancò la capacità di negoziare, di scansare la catastrofe, di aprire epoche di distensione, di Ostpolitik e di disarmo.

Oggi niente chiaroscuro, è tutto nero. A più riprese si è sfiorata la pace, tra Mosca e Kiev, e ogni volta Washington e Londra hanno messo il veto e imposto il proseguimento della guerra a un’Ucraina trattata al tempo stesso come eroe e vassallo. È accaduto una prima volta il 5 marzo ’22, subito dopo l’invasione, come rivelato lo scorso 4 febbraio dall’ex premier israeliano Naftali Bennett: Putin “capiva totalmente le costrizioni politiche di Zelensky e non chiedeva più il disarmo dell’Ucraina”, Zelensky era pronto a seppellire l’adesione alla Nato (impegno iscritto nella Costituzione dal 2019). Ma venne il veto di Boris Johnson e poi di Biden (l’obiettivo secondo Bennett era “distruggere Putin” – smash Putin). Lo stesso è successo dopo la proposta di tregua in 12 punti (la pace appare solo come prospettiva) avanzata il 24 febbraio da Pechino: prima ancora di conoscere le reazioni di Zelensky e i risultati della visita di Xi Jinping a Mosca, Washington respingeva non solo la pace ma anche il cessate il fuoco.

Subito prima della visita a Mosca di Xi, tanto per mettere le cose in chiaro, la Corte penale internazionale emetteva il 17 marzo un mandato di arresto nei confronti di Putin per crimini di guerra. Washington ha applaudito, anche se una legge autorizza il presidente a usare la forza ogni qualvolta un americano è incolpato dalla Corte. Difficile trattare con chi hai appena definito un criminale. Negare l’esistenza di una guerra per procura in Ucraina cozza contro il ripetersi di veti opposti alle tregue e l’evidente interesse Usa a demolire Putin.

Qualcosa però sta accadendo fuori dal piccolo recinto Nato. Qualcosa di planetario che il conflitto dissigilla. Due terzi dell’umanità sono contro guerra e sanzioni. L’egemone ha clamorosamente fallito in Afghanistan, dopo vent’anni di guerra. Ha fallito in Iraq, Libia, Siria. Ha partorito mostri come lo Stato Islamico. Da oltre mezzo secolo ignora l’occupazione illegale della Palestina e accetta la “clandestinità” dell’atomica israeliana. Gli Stati Uniti sono più che mai egemonici dunque vittoriosi nell’Ue, ma collassano nel Sud globale: un territorio sempre più ostile all’interventismo Usa, più rassicurato da Cina e Russia. È il “momento Suez” degli Stati Uniti, dicono alcuni, evocando il fiasco di Londra, Parigi e Tel Aviv quando sfidarono Nasser occupando militarmente il canale egiziano nel 1956.

Il passato occultato da governi e giornali mainstream, in Occidente, sta già passando da quando è entrato in scena, con forza inattesa e formidabile, il nuovo attivismo di Pechino: prima con il piano di tregua in Ucraina, il 24 febbraio, seguito dalla visita di Xi a Mosca il 20 marzo; poi con la riconciliazione fra Iran e Arabia Saudita patrocinata da Xi, il 10 marzo. La riconciliazione scompiglia radicalmente il Medio Oriente allargato. Rassicura Assad in Siria, spunta i piani bellici israeliani, facilita la pace in Yemen, tranquillizza lo Stato afghano, che teme nuovi interventi Usa di “regime change”. A Iran e Arabia Saudita è stata prospettata l’adesione al gruppo non allineato dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica): una vistosa promozione.

È consigliabile la lettura del rapporto pubblicato il 20 febbraio dal ministero degli Esteri cinese, intitolato “L’egemonia Usa e i suoi pericoli”. Si parla di una quintupla egemonia, sempre più destabilizzante: egemonia politica (esportazioni della democrazia che “producono caos e disastri in Eurasia, Africa del Nord, Asia occidentale”), militare (uso sfrenato della forza), economica (egemonia del dollaro, politiche predatorie), tecnologica, culturale.

Il piano cinese sull’Ucraina è vago, certo. Volutamente vago. Ma letto assieme al testo sull’egemonia Usa diventa una forma di empowerment, di coscienza della propria forza condizionante. Il primo punto dovrebbe piacere a Kiev e a Mosca, visto che difende la sovrana integrità territoriale di tutti gli Stati Onu, e si accoppia a esigenze precise: applicazione non selettiva della legge internazionale (punto 1); architettura di una sicurezza europea senza espansioni delle alleanze militari (punto 2); neutralità delle operazioni umanitarie (punto 5), fine delle sanzioni unilaterali (punto 10).

Tra le righe, quel che si legge è un’alternativa al disordine causato dal suprematismo Usa. Inutile temere il passaggio dall’unipolarismo al multipolarismo: sta già succedendo, benvenuti nella realtà. I Brics contestano anche l’uso politico del dollaro. Gli scambi tra Cina, Russia, Arabia Saudita e Iran non avverranno più in dollari. È l’inevitabile trauma che viviamo. È la conferma solenne che oltre il giardino c’è ben più di una giungla.

da qui

 

https://www.youtube.com/watch?v=eIObmRUoTx8&ab_channel=JeffreySachs

 

L’Occidente prigioniero di se stesso – Fabrizio Marchi

L’ideologia neoliberale dominante è di fatto una sorta di religione, sia pur secolarizzata, che si fonda sul postulato, pur non scritto, della superiorità del mondo occidentale su tutto il resto del pianeta che si troverebbe fondamentalmente in una condizione di barbarie. Il compito cui è chiamato l’Occidente è quello di civilizzare tutto il resto del mondo, con le buone o con le cattive. Una visione sostanzialmente messianica, religiosa, in palese contraddizione con quegli stessi principi di laicità e di tolleranza che pure dovrebbero costituire le fondamenta del pensiero liberale. Può piacere o meno ai suoi cantori ma non c’è dubbio che l’ideologia liberale si è storicamente e concretamente determinata nel modo testè descritto.

In fondo è stato così fin dalla scoperta dell’America che coincide, non a caso, con l’inizio del dominio occidentale su tutto il mondo e viene fatta coincidere con l’inizio dell’era moderna. Cambia, soltanto parzialmente, la coperta ideologica con cui questo postulato viene posto in essere. Non più la religione cristiana (cattolica o protestante) e la (superiore) civiltà “bianca” bensì l’impianto ideologico politicamente corretto. Ma il retro pensiero “suprematista” e quindi razzista che sta dietro a questo modo di interpretare la realtà è esattamente lo stesso. L’Occidente è portatore di un modello liberale e democratico (in realtà sempre più liberale e sempre meno democratico), e quindi di una civiltà considerata oggettivamente superiore e universale. Chi non c’è ancora arrivato dovrà prima o poi arrivarci e chi non si è piegato dovrà piegarsi, in un modo o nell’altro.

E’ ovvio come questo postulato ideologico porti di fatto e necessariamente a giustificare tutte le nefandezze compiute in cinque secoli di storia – genocidi, guerre imperialiste, massacri, colonialismo, dittature militari, regimi fondati sull’apartheid, saccheggio sistematico, sfruttamento, uso di ogni tipo di armi di distruzione di massa, genocidi atomici – come un male necessario per difendere la superiore civiltà liberale.

L’idealtipo liberale, ora “neoliberale”, finge di scandalizzarsi di fronte alle manifestazioni di razzismo, nazifascismo e neonazifascismo  – in genere quelle più innocue – ma in realtà non esita a sostenere i peggiori pendagli da forca nazifascisti (e non solo) quando questi gli tornano utili. E’ successo sistematicamente in Europa, con le dittature militari in America latina (ma anche in Asia e in Africa), succede oggi con la feccia nazista ucraina che i (neo)liberali sostengono attivamente, senza nessuna remora e nessun tentennamento di ordine ideologico o tanto meno etico.

Chi ha avuto modo di interloquire con queste persone, sa perfettamente che questo è il loro sentimento, né potrebbe essere diversamente per chi parte da quel postulato. Se gli porti argomenti logici in tal senso cambiano rotta e tornano al loro spartito sulla superiore civiltà occidentale (fondamentalmente anglosaxon) ripetuto come un mantra.

Naturalmente, per quanto ci riguarda, non si tratta affatto di capovolgerlo nè di esaltare, a parti invertite, tutto ciò che c’è al di fuori dell’occidente, cioè i tre quarti del pianeta. Così facendo gli si fa solo un favore, oltre a deformare anche noi, come loro, la realtà. Del resto il mondo – ma potremmo anche dire la storia dell’umanità – è un “arco” e un “insieme” complesso di storie, culture, ideologie, religioni, contesti che hanno prodotto effetti a volte positivi e altre volte, magari anche il più delle volte, negativi. Vale per gli europei e per i nordamericani come per tutti gli altri.

La mia opinione infatti è che l’Occidente abbia prodotto anche tanto di buono – filosofia, letteratura, arte, cultura, diritti, principi di libertà e di democrazia – ma che il più delle volte abbia utilizzato quanto di meglio ha prodotto nel modo peggiore, cioè come falsa coscienza ideologica per coprire la sua volontà di potenza e la sua conseguente vocazione imperialista. Ed è ciò che sta facendo anche e soprattutto oggi.

Ma da qualche tempo c’è una grossa, gigantesca novità. L’impero occidentale a guida USA non è più in grado di dominare quella parte di mondo che fino all’altro ieri era sotto il suo controllo. Ed è una parte importante e anche molto robusta, non solo economicamente e militarmente ma anche dal punto di vista della coesione sociale e culturale. Pezzi di mondo (Cina, Russia, Iran, ma anche Cuba, Venezuela, Vietnam) che hanno costruito la loro forza, né poteva essere altrimenti, a partire dalle diverse rispettive storie, culture, contesti e strutture politiche che, ovviamente, non sono né potrebbero essere quelli del mondo liberale e neoliberale occidentale e soprattutto anglosassone.

Questa ormai raggiunta e consolidata autonomia e indipendenza politica ed economica (per quanto sia possibile in un mondo totalmente globalizzato) da parte di questi ex paesi del terzo mondo – risultato di grandi lotte di liberazione nazionali anticolonialiste e successivamente di una crescita, a volte portentosa come nel caso cinese, non solo economica ma anche tecnologica e militare – ha creato un vero e proprio corto circuito e un senso profondo di frustrazione nelle classi dirigenti occidentali che non sono più in grado di imporre alcunché a quegli stessi paesi. Nasce proprio da questa incapacità/impossibilità e da questo senso di impotenza, l’accentuazione, diciamo pure l’esasperazione di quell’atteggiamento messianico e “suprematista” nello stesso tempo che, se non opportunamente elaborato e disinnescato, potrebbe condurre al disastro.

Il compito non solo dei socialisti ma di tutti i sinceri democratici e di tutte le persone di buon senso (che sono più numerose di quanto non sembri) dovrebbe essere quello di disinnescare quella vis ideologica autoreferenziale, “suprematista” e (inevitabilmente) guerrafondaia di cui sopra e lavorare per far prevalere la parte migliore della cultura e del pensiero occidentale. L’Occidente deve accettare, per la sua stessa sopravvivenza, che esiste un mondo che rifiuta di declinarsi secondo le sue categorie (che, evidentemente, non sono universali), e deve abbandonare la presunzione e la pretesa di imporle. Ciascun paese e ciascun popolo deve avere il diritto di fare la propria storia, di costruire il proprio percorso e nessuno può impedirglielo. In ogni caso, non è più possibile. Non prenderne atto sarebbe il più grave errore che si potrebbe commettere.

da qui

 

due domande – Francesco Masala

 

1 -difesa dei confini o turismo militare? 

l’Italia manderà il più presto possibile nell’Indo-Pacifico la sua nave da guerra più importante, la portaerei Cavour (da qui)

 

2 – oggi, qual è il tavolo dei vincitori?

Il conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, pensava che la conferenza di pace avrebbe offerto una buona occasione per ragionare, non solo sul Medio Oriente, ma sul futuro dell’Europa e dell’Italia, la penisola divisa, che i Savoia volevano unificare. Il problema era trovare il modo di sedersi al tavolo delle trattative. Si poteva fare? Sì, bastava partecipare alla guerra dalla parte dei vincitori. Cavour non aveva dubbi: i russi sarebbero stati sconfitti. Bisognava mettere in conto qualche morto e Cavour decise che ne valeva la pena: un pugno di morti fra i soldati piemontesi era il prezzo da pagare per sedersi al tavolo dei vincitori (da qui)

 

 

 

 

“È stata una totale invenzione dell’intelligence Usa”. Seymour Hersh torna sul caso Nord Stream – Seymour Hersh

Sei settimane fa ho pubblicato un rapporto citando fonti anonime che nominavano il presidente Joseph Biden come l’uomo che aveva ordinato la distruzione degli oleodotti del Nord Stream lo scorso settembre.

Il Nord Stream 2 a doppia rotaia era appena stato posato per l’equivalente di undici miliardi di dollari USA e aveva lo scopo di raddoppiare il volume delle forniture di gas naturale dalla Russia alla Germania.

Il mio rapporto è stato raccolto in Germania e in altri paesi europei, ma è stato quasi completamente ignorato dai media negli Stati Uniti. Poi, due settimane fa, a seguito di una visita del cancelliere tedesco Olaf Scholz a Washington, le agenzie di intelligence statunitensi e tedesche hanno tentato di rafforzare quel muro di silenzio raccontando al New York Times e che il settimanale tedesco Die Zeit ha avanzato false ipotesi per contrastare il rapporto secondo cui Biden e altri funzionari statunitensi erano responsabili della distruzione degli oleodotti.

Gli addetti stampa della Casa Bianca e della CIA hanno costantemente negato che gli Stati Uniti fossero responsabili dell’esplosione degli oleodotti, e quelle doverose smentite sono state accettate dai funzionari dei media accreditati alla Casa Bianca.

Non ci sono prove che un solo giornalista presente abbia chiesto al portavoce della Casa Bianca se il presidente Biden avesse organizzato ciò che qualsiasi leader politico serio avrebbe fatto: ha incaricato formalmente la comunità dell’intelligence statunitense di condurre un’indagine approfondita su tutte le possibilità tecniche e personali per scoprire chi l’ha fatto nel Mar Baltico?

Una fonte nei circoli dell’intelligence mi ha detto che il presidente non l’ha fatto e non lo farà. Perché no? Perché conosce già la risposta.

Sarah Miller – esperta di energia ed editrice presso Energy Intelligence, editore di importanti riviste di settore – mi ha spiegato in un’intervista perché le rivelazioni sui gasdotti hanno fatto così tanto scalpore in Germania e nell’Europa occidentale: “La distruzione dei gasdotti Nord Stream ha portato a un ulteriore aumento dei prezzi del gas naturale, che aveva già superato il livello pre-crisi di almeno sei volte“, ha affermato.

Nord Stream è stato fatto saltare in aria alla fine di settembre. Nel mese successivo, la Germania ha dovuto pagare dieci volte tanto per le sue importazioni di gas rispetto a prima della crisi, una cifra massima. L’aumento dei prezzi ha colpito tutta l’Europa e si stima che i governi abbiano speso non meno di 800 miliardi di euro per proteggere le famiglie e le imprese dalle conseguenze di questo aumento dei prezzi.

Poiché l’inverno in Europa era mite, i prezzi del gas sono ora scesi a circa un quarto del picco di ottobre, ma sono ancora da due a tre volte superiori ai livelli pre-crisi e più di tre volte superiori agli attuali livelli statunitensi. Nell’ultimo anno, i produttori tedeschi e altri produttori europei hanno chiuso i loro settori più energivori, come la produzione di fertilizzanti e vetro. Non è chiaro se queste fabbriche riapriranno mai.

L’Europa sta lottando per mettere in rete l’energia solare ed eolica, ma non è chiaro se ciò accadrà abbastanza velocemente da salvare gran parte dell’industria tedesca.” (Miller pubblica anche su Substack).

A inizio marzo Biden ha avuto come ospite a Washington il cancelliere Olaf Scholz. Solo due appuntamenti erano destinati al pubblico: un breve scambio formale di convenevoli davanti alla stampa della capitale senza la possibilità di fare domande, e un’intervista con Scholz alla CNN, guidato da Fareed Zakaria. Non ha nemmeno affrontato le ipotesi sugli oleodotti.

Il cancelliere era volato a Washington senza l’accompagnamento dei rappresentanti dei media tedeschi e non era prevista né una cena celebrativa né una conferenza stampa, anche se è consuetudine in riunioni di così alto livello. Invece, secondo quanto riferito, Biden e Scholz hanno avuto una conversazione di 80 minuti, per lo più in privato.

Nessuno dei due governi ha rilasciato alcuna dichiarazione o dichiarazione scritta dopo l’incontro, ma una persona con accesso alle informazioni pertinenti mi ha detto che la questione dell’oleodotto è stata discussa e alla fine è stato chiesto alle persone interessate della CIA di lanciare una storia di copertura insieme ai servizi segreti tedeschi, che potrebbe essere presentato alla stampa statunitense e tedesca come alternativa alla spiegazione della distruzione degli oleodotti Nord Stream…

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“Oggi tutte le strade del progresso portano a Pechino” – Fred M’membe

Ho tenuto un discorso a Pechino in occasione della cerimonia di apertura del ‘Secondo Forum Internazionale sulla Democrazia – I Valori Umani Condivisi’, organizzato congiuntamente dall’Accademia Cinese delle Scienze Sociali e dai think tank di Cambogia, Cile, Nigeria, Spagna e Tonga.

Più di 300 ospiti, studiosi ed esperti provenienti da oltre 100 Paesi e regioni hanno partecipato al forum di persona o virtualmente per discutere di democrazia e sviluppo sostenibile, democrazia e innovazione, democrazia e governance globale, democrazia e diversità della civiltà umana, democrazia e percorso di modernizzazione.
Ecco cosa ho detto:

«In un mondo veramente equo, libero e pacifico, la democrazia assume molte forme di espressione, non solo una. Credo che la democrazia sia un governo in cui tutto il popolo partecipa, in cui gli interessi del popolo regnano sovrani, in cui la sovranità del Paese, l’onore del Paese, è al primo posto.

Questo mese è il mese del discorso sulla democrazia nel mondo. Alla fine di questo mese, ci sarà una conferenza a Lusaka, o un vertice a Lusaka, in Zambia, il mio Paese, guidato dagli Stati Uniti. Sono venuti in Africa del sud per insegnarci la democrazia: un Paese che si è opposto alla nostra liberazione, un Paese che ha sostenuto i regimi coloniali – il loro regime fantoccio in Sudafrica, il regime della minoranza razzista bianca in Rhodesia, ora Zimbabwe, i governi coloniali portoghesi in Mozambico, in Angola, in Guinea-Bissau e a Capo Verde – oggi viene in Africa per insegnarci la democrazia.

Un Paese che ha rovesciato tanti governi in Africa, che ha guidato tanti colpi di Stato in Africa e in altre parti del mondo, un Paese che ha ucciso tanti nostri leader in Africa e in altre parti del mondo, gli assassini di Patrice Lumumba, quelli che hanno rovesciato Kwame Nkrumah, quelli che hanno ucciso Nasser, quelli che hanno ucciso Muammar Gheddafi, oggi vengono a insegnarci la democrazia. Un Paese che è stato costruito sulla forza brutale, sulla schiavitù di altri esseri umani, sull’umiliazione degli africani, sullo sfruttamento degli africani, sul saccheggio dell’Africa, oggi viene a insegnarci la democrazia.

Questa è l’arroganza, l’arroganza imperialista, l’arroganza razzista di cui siamo vittime. Non possiamo avere democrazia quando c’è l’egemonia della potenza imperialista più forte, più potente. Non possiamo avere una democrazia in cui le risorse di un Paese, le decisioni di un Paese sono dettate da un altro Paese. Un Paese che è dominato da un altro Paese non può essere democratico, un Paese che manca di sovranità non può essere democratico, un popolo che non può decidere da solo non può essere democratico. Una colonia e una neocolonia non possono essere democratiche.
Ecco perché oggi, alle Nazioni Unite, l’adesione è basata sulla sovranità. Solo le nazioni sovrane possono essere membri delle Nazioni Unite, perché solo le nazioni sovrane possono decidere da sole. Una colonia non può essere membro delle Nazioni Unite. Non è un caso. Non è un errore. Se non si ha rispetto per la dignità degli altri, se non si ha rispetto per la sovranità degli altri Paesi, non si può pretendere di essere un campione della democrazia.

Una volta si diceva che tutte le strade portano a Roma. Oggi possiamo dire con sicurezza che tutte le strade del progresso, tutte le strade di ciò che è meglio per l’umanità, portano a Pechino. Questo è un popolo che si è sviluppato, un Paese che si è sviluppato senza colonizzare nessun Paese del mondo, senza saccheggiare nessun Paese del mondo, senza sottomettere nessun popolo del mondo. Questo è un Paese che si sta sviluppando con il massimo rispetto per gli altri, per la sua storia, per le sue culture, e riconosce la diversità che è civiltà. Ci è stata insegnata una sola forma di civiltà, una sola forma di modernizzazione: quella occidentale. L’occidentalità era una misura del grado di civiltà e di modernità. Noi la rifiutiamo. Lo rifiutiamo perché non è corretto. Lo rifiutiamo perché è antidemocratico. Lo rifiutiamo perché è incivile pensare agli altri e al mondo in questo modo.

Oggi non possono accettare che la Cina li abbia raggiunti, che li stia per superare in molti settori dell’attività umana. La loro arroganza imperialista impedisce loro di accettare questa realtà, la loro arroganza razzista impedisce loro di accettare questa realtà. Ma il mondo sta cambiando. I cinesi che vediamo oggi, come ha detto il Presidente Xi a Mosca l’altro giorno, non si vedevano da 100 anni.

Loro (gli statunitensi) hanno plasmato un mondo di cui loro stessi hanno paura, e hanno plasmato un mondo che non è sostenibile. La democrazia, lo sviluppo umano non è sostenibile sulla base del saccheggio, della schiavitù, dell’umiliazione quotidiana di altre persone. Questo è il sistema che vediamo oggi, un sistema che non sopravviverà se verrà eliminato il saccheggio, se verrà eliminata la sottomissione di altri popoli, di altre nazioni, se verrà eliminata la disuguaglianza nel mondo. Quel sistema scomparirà. L’unico sistema che può sopravvivere e durare a lungo è quello che si basa sul mutuo vantaggio, sulle relazioni win-win, sul rispetto reciproco per gli altri, sull’accoglienza e sulla tolleranza verso gli altri e sull’amore fraterno per tutta l’umanità. Questo è ciò che troviamo oggi in Cina. Questo è ciò che ci mostra l’esempio della Cina.

In effetti, tutti i percorsi sono diversi. Non esiste un percorso uguale all’altro. Anche se ci stiamo dirigendo verso la stessa destinazione, ogni percorso ha le sue caratteristiche. Lo stiamo vedendo, lo stiamo imparando, lo stiamo sperimentando oggi con la Cina.

Ci sono molte cose da fare per ottenere il mondo che vogliamo. Un mondo più giusto, più equo, più pacifico è possibile. Ma non cadrà dal cielo, dobbiamo lottare per ottenerlo. E, come diceva Fidel (Castro), se lottiamo vinceremo».

da qui

 

 

La capitale del mondo multipolare: “A Mosca non si avverte alcuna crisi. Nessun effetto delle sanzioni” – Pepe Escobar

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

Quanto era acuto il buon vecchio Lenin, primo modernista, quando pensava: “Ci sono decenni in cui non succede nulla; e ci sono settimane in cui succedono decenni.” Questo nomade globale che si rivolge a voi ha avuto il privilegio di trascorrere quattro settimane sorprendenti a Mosca, nel cuore di un crocevia storico, culminato con il vertice geopolitico Putin-Xi al Cremlino.

Per citare Xi, “i cambiamenti che non si vedevano da 100 anni” hanno la capacità per influenzare tutti noi in più di un modo.

James Joyce, un’altra icona della modernità, scrisse che passiamo la vita a incontrare persone medie e/o straordinarie, in continuazione, ma alla fine incontriamo sempre noi stessi. A Mosca ho avuto il privilegio di incontrare una serie di persone straordinarie, guidate da amici fidati o da coincidenze propizie: alla fine la tua anima ti dice che arricchiscono te e il momento storico generale in modi che non puoi nemmeno immaginare.

Eccone alcuni: Il nipote di Boris Pasternak, un giovane di talento che insegna greco antico all’Università Statale di Mosca. Uno storico con una conoscenza ineguagliabile della storia e della cultura russa. La classe operaia tagika che si riunisce in una chaikhana nell’ambiente tipico di Dushanbe.

Dei ceceni e tuvani in uno stato di stupore mentre fanno il giro della Grande Linea Centrale. Un simpatico messaggero inviato da amici estremamente attenti alle questioni di sicurezza per discutere di questioni di interesse comune. Musicisti di eccezionale bravura che si esibiscono nella stazione Mayakovskaya della metropolitana. Una splendida principessa siberiana che vibra di un’energia sconfinata, portando il motto precedentemente applicato all’industria energetica – Power of Siberia – a un livello completamente nuovo.

Un caro amico mi ha portato alla funzione domenicale nella chiesa Devyati Muchenikov Kizicheskikh, la preferita di Pietro il Grande: la quintessenza della purezza dell’Ortodossia orientale. In seguito, i sacerdoti ci invitarono a pranzare alla loro tavola comune, dando prova non solo della loro naturale saggezza, ma anche di uno esilarante senso dell’umorismo.

In un classico appartamento russo stipato di 10.000 libri e con vista sul Ministero della Difesa – con tanto di battute – padre Michael, responsabile delle relazioni del cristianesimo ortodosso con il Cremlino, ha intonato l’inno imperiale russo dopo una notte indelebile di discussioni religiose e culturali.

Ho avuto l’onore di incontrare alcune delle persone che sono state particolarmente bersagliate dalla macchina imperiale delle menzogne. Maria Butina – vilipesa con la proverbiale battuta “spia venuta dal freddo” – ora deputata alla Duma. Viktor Bout – che la cultura pop ha metastatizzato nel film “Lord of War”, con tanto di Nic Cage: Sono rimasto senza parole quando mi ha detto che mi stava leggendo nel carcere di massima sicurezza degli Stati Uniti, tramite chiavette USB inviate dai suoi amici (non aveva accesso a Internet). L’instancabile e volitiva Mira Terada – torturata quando era in una prigione americana, ora a capo di una fondazione che protegge i bambini in difficoltà.

Ho trascorso molto tempo prezioso e mi sono impegnato in discussioni inestimabili con Alexander Dugin – il russo cruciale di questi tempi post-tutto, un uomo di pura bellezza interiore, esposto a sofferenze inimmaginabili dopo l’assassinio terroristico di Darya Dugina, e ancora in grado di raccogliere una profondità e una portata quando si tratta di tracciare connessioni attraverso lo spettro della filosofia, della storia e della storia delle civiltà che è virtualmente ineguagliata in Occidente.

All’attacco contro la russofobia

E poi ci sono stati gli incontri diplomatici, accademici e commerciali. Dal responsabile delle relazioni internazionali con gli investitori di Norilsk Nickel ai dirigenti di Rosneft, per non parlare dello stesso Sergey Glazyev dell’UEEA, affiancato dal suo principale consigliere economico Dmitry Mityaev, mi è stato impartito un corso accelerato sull’attuale situazione economica russa dalla A alla Z – compresi i gravi problemi da affrontare.

Al Valdai Club, ciò che contava davvero erano gli incontri a margine, molto più dei panel veri e propri: è lì che iraniani, pakistani, turchi, siriani, curdi, palestinesi, cinesi raccontano ciò che hanno davvero nel cuore e nella mente.

Il lancio ufficiale del Movimento Internazionale dei Russofili è stato un momento saliente di queste quattro settimane. Un messaggio speciale scritto dal Presidente Putin è stato letto dal Ministro degli Esteri Lavrov, che ha poi pronunciato il suo proprio discorso. Successivamente, presso la Casa dei ricevimenti del Ministero degli Affari Esteri, quattro di noi sono stati ricevuti da Lavrov in un’udienza privata. Si è discusso di futuri progetti culturali. Lavrov era estremamente rilassato e ha dato prova del suo impareggiabile senso dell’umorismo.

Si tratta di un movimento culturale e politico, concepito per combattere la russofobia e per raccontare la storia russa, in tutti i suoi aspetti immensamente ricchi, soprattutto al Sud Globale.

Sono un membro fondatore e il mio nome figura sullo statuto. Nei miei quasi quattro decenni di lavoro come corrispondente estero, non ho mai fatto parte di alcun movimento politico/culturale in nessuna parte del mondo; gli indipendenti nomadi sono una razza agguerrita. Ma la questione è estremamente seria: le attuali, irrimediabilmente mediocri autodefinitesi “élite” dell’Occidente collettivo non vogliono altro che cancellare la Russia in tutti i suoi aspetti. No pasarán…

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Armi nucleari. Le mosse di Putin e la cecità colpevole di Nato e Ue – Alessandro Orsini

Putin trasferisce testate nucleari in Bielorussia giacché il loro uso richiede quattro condizioni necessarie ancorché insufficienti. La prima condizione è materiale: le testate nucleari devono essere posizionate in un sito vicino all’Ucraina che ne favorisca il lancio. La seconda è giuridica: Putin deve costruire un quadro normativo che giustifichi l’uso delle armi nucleari. A tal fine, ha annesso, oltre alla Crimea, Zaporizhzhia, Kherson, Donetsk e Lugansk. La dottrina russa giustifica l’uso dell’arma nucleare per difendere il territorio nazionale. La terza condizione è psicologico-sociale. Putin deve ottenere il consenso della popolazione. Da questo punto di vista, l’enorme impegno profuso dalla Nato in Ucraina, la retorica estremista di Stoltenberg che giura che l’Ucraina aderirà alla Nato dopo avere sconfitto la Russia sul campo, la designazione della Russia come Stato sponsor del terrorismo da parte del Parlamento europeo e il mandato di cattura contro Putin spiccato dalla Corte penale internazionale, promuovono la costruzione del clima interno favorevole al gesto estremo.

I media dominanti in Italia rappresentano queste mosse come gesti rivolti soltanto contro Putin, mentre i russi le interpretano come attacchi contro tutti loro. La Nato dichiara di combattere contro Putin, ma i russi ritengono che combatta contro la loro patria. La quarta condizione è la rassicurazione della Casa Bianca, peraltro già incassata, che gli Stati Uniti non replicherebbero con l’arma nucleare contro il territorio russo.

Finora ho elencato le condizioni necessarie per l’uso dell’arma nucleare. Domandiamoci che cosa manchi per arrivare al giorno più tragico della storia d’Europa. Manca che la Russia venga a trovarsi davanti alla prospettiva di una sconfitta certa. La mia tesi è che, ove una simile circostanza si verifichi, la Cina entrerebbe in guerra al fianco della Russia interpretando la guerra in Ucraina e quella eventuale a Taiwan come un’unica guerra contro l’imperialismo americano. Fino a quando sarà possibile, Putin cercherà di vincere la guerra con le armi convenzionali. Nella logica cinese, gli Stati Uniti non devono vincere contro la Russia affinché non pensino di vincere contro la Cina. Soltanto un’alleanza militare Russia-Cina può bilanciare lo strapotere del blocco occidentale.

I giornalisti italiani che sostengono le politiche della Casa Bianca esortano a non dare credito alle minacce di Putin. A loro dire il trasferimento delle testate nucleari in Bielorussia è un bluff. Il problema è che avevano considerato un bluff anche la minaccia dell’invasione. Ecco la mia conclusione sotto forma di regolarità: il pericolo che il regime russo usi l’arma nucleare è inversamente proporzionale ai suoi successi sul campo. Se i secondi diminuiscono, il primo aumenta e viceversa. Siccome è solare che Putin userebbe il nucleare in caso di necessità, perché i media dominanti in Italia lo negano? La risposta è semplice: per creare consensi intorno alle politiche di Biden in Ucraina. Gli italiani devono essere rasserenati per ridurre il rischio delle proteste popolari. E se poi la Russia usasse il nucleare? Semplice: Corriere della SeraRepubblicaStampaFoglioGiornaleLibero e Radio 24 incentrerebbero il dibattito pubblico sulla condanna morale dell’arma nucleare da parte della Russia per impedire di discutere le enormi responsabilità di Ursula vor der Leyen e Roberta Metsola – due spaventose nullità politiche – nella corsa verso la catastrofe.

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https://www.youtube.com/watch?v=QFMZw59KseA&ab_channel=Z-Generacion

 

Avete capito chi stiamo addestrando a Sabaudia? – Alberto Fazolo

Nella Caserma Santa Barbara di Sabaudia, in provincia di Latina, è ospitato un contingente di militari della contraerea ucraina. Si trova lì per addestrarsi all’uso di un sofisticato (e costosissimo) sistema antiaereo che gli forniremo, il Samp-T.

Si tratta di reparti regolari delle forze armate ucraine, quindi non di formazioni naziste, anche se non si può escludere che tra di loro ci possano essere estremisti o fanatici. Ciò anche in virtù del fatto che il Governo manda all’estero solo le persone di cui è sicura che non disertino. Al netto dei singoli casi si dovrebbe trattare di militari non esplicitamente politicizzati.

Ciò premesso, la loro presenza determina due problemi. Il primo è di natura generale, legato al fatto che si porta la guerra in Italia, nei nostri territori. Il secondo è specifico e riguarda la contraerea ucraina: un manipolo che si è macchiato di vili e indicibili crimini contro i civili negli ultimi anni.

A tal riguardo, risulta utile elencare alcuni dei vili crimini di cui si è resa responsabile.

Il 4 ottobre del 2001 la contraerea ucraina si stava esercitando sul Mar Nero quando per sbaglio abbatté un aereo civile in volo tra Israele e la Russia uccidendo le 78 persone a bordo. Invece di lanciare l’allarme e assumersi le responsabilità, l’Ucraina alimentò l’infamante accusa che fossero stati i palestinesi nascondendo una bomba tra i bagagli. Bugia che venne presa per buona fino al rinvenimento dei resti del razzo che avevano sparato.

Questa storia del 2001 è il preludio perfetto per spiegare cosa sia successo sui cieli del Donbass il 17 luglio 2014: venne abbattuto un aereo civile con 298 persone a bordo, morirono tutte. L’aereo venne colpito da un missile ucraino, tuttavia dato che i ribelli del Donbass avevano catturato alcuni esemplari di quel tipo di missile, Kiev lì accusò dell’abbattimento. Tesi avallata anche da alcuni organismi occidentali. Peccato che i ribelli avessero i missili, ma non il resto del sistema d’arma, oltre che le competenze per usarli. Quindi, anche in questo caso quando la contraerea ucraina inavvertitamente abbatté un aereo civile, provò a scaricare la responsabilità su altri.

Da un anno la contraerea ucraina è nota e disprezzata per il crimine di guerra di ricorrere agli “scudi umani”: le loro batterie si trovano spesso in mezzo agli edifici civili (anche residenziali e scuole).

Pur non ammettendolo quasi mai, è anche la contraerea ucraina che fin dai primi giorni del conflitto ha colpito edifici civili. Sia chiaro che durante un conflitto incidenti che coinvolgano i civili possono sempre succedere: la contraerea spara in aria -missili e non solo- cercando di colpire degli obiettivi che volano (aerei, droni, missili), tutto quello che sta in aria poi ricade, il problema è come si gestisce il dopo. In coerenza con le infamie descritte nei due casi degli aerei, la contraerea ucraina prova sempre a dire che tutto ciò che cade dal cielo è lanciato dai russi. Questa menzogna regge fino a quando poi non si trovino i resti dei missili, oppure saltino fuori dei filmati in cui si veda la dinamica del disastro.

Lo scorso 15 novembre la contraerea ucraina ha lanciato un missile per intercettare dei velivoli russi, questo ha mancato l’obiettivo e -come descritto per i casi precedenti- poi è caduto al suolo uccidendo delle persone. La contraerea ucraina -come al solito- pur sapendo che il missile era il suo, ha dichiarato che fosse russo. La differenza rispetto al solito è che questo missile cadde in territorio polacco, cioè in un paese della NATO. Pertanto la NATO per statuto sarebbe stata obbligata a contrattaccare la Russia, scatenando la Terza Guerra Mondiale. Questa fandonia venne subito rilanciata da Zelensky e solo per i nervi saldi degli americani non partirono i missili nucleari. La contraerea ucraina per la sua viltà stava per scatenare un conflitto che avrebbe potuto distruggere l’intera umanità. In Italia non ci deve essere posto per questi vili criminali.

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https://www.youtube.com/watch?v=rBt_6J2V4ic&ab_channel=ChrisHedgesFanClub

 

Società di “fact-checking”: il ruolo della Cia e il maccartismo dell’informazione – Daniele Luttazzi

Vi riportiamo due bellissimi approfondimenti di Daniele Luttazzi apparsi ieri e oggi sul Fatto Quotidiano. Si sviscera con magistrale sintesi come la Cia utilizzi le sue armi per applicare un controllo capillare dell’informazione all’interno e nei paesi vassalli.

Da anni l’AntiDiplomatico, testata regolarmente registrata, combatte contro la vergognosa censura che subisce.

In questi due articoli avete alla perfezione presentati i mandanti

Chapeau.

Società di fact-checking: il ruolo della Cia e il maccartismo bellico – Daniele Luttazzi

Riassunto della puntata precedente: il giornalista inglese Alan MacLeod ha scoperto che Facebook, Twitter, Google hanno assunto ex-agenti Cia e Fbi per il fact-checking (bit.ly/3TXfwNMbit.ly/3zm6QXPbit.ly/3M77os2 ); e che “la maggior parte delle organizzazioni di verifica dei fatti con cui Facebook collabora per monitorare e regolare le informazioni sull’Ucraina sono finanziate direttamente dal governo Usa tramite le ambasciate Usa dei loro Paesi e il National Endowment for Democracy (Ned), che fu creato da Reagan come facciata per la Cia” ( bit.ly/3JTTmaG ).

Pur avendo uno staff di funzionari statali, il Ned è una società privata, quindi non soggetta alle norme e al controllo pubblico a cui sono soggette le istituzioni statali.

Il Ned è stato coinvolto in molte operazioni controverse, come il tentativo di rovesciare il governo del Venezuela; e il colpo di Stato che nel 2014 spodestò il presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovich. MacLeod: “Il cambio di regime è una delle sue funzioni primarie. Lo fa istituendo, finanziando, sostenendo e addestrando tutti i tipi di gruppi politici, economici e sociali nei Paesi bersaglio. Ufficialmente, in Ucraina ha speso finora oltre 22 milioni di dollari”.

Allen Weinstein, co-fondatore del Ned, ha ammesso al Washington Post: “Molto di ciò che facciamo oggi, la Cia lo faceva segretamente 25 anni fa”. Le società di fact-checking usate da Facebook decidono quali contenuti sulla guerra ucraina possono diventare virali e quali vanno soppressi come fake news. MacLeod: “Volevo sapere chi fossero, vista l’importanza che hanno sulla politica mondiale.

Facebook è la più importante fonte di notizie del mondo, usata a questo scopo da tre miliardi di persone ogni mese.

Nessun’altra organizzazione ha questo potere. Delle nove organizzazioni di fact-checking usate da Facebook per l’Ucraina, cinque sono finanziate direttamente dal Ned e da ambasciate Usa; le altre quattro pure, ma non lo dicono esplicitamente. Per esempio, il gruppo lituano ‘Patikrinta15min’ scrive che i loro sponsor ‘non possono essere partiti politici, organizzazioni statali o aziende legate a politici’, però prendono finanziamenti dal Poynter Institute e dalla sua filiale Ifcn, entrambi finanziati dal Ned. Tutti i nove gruppi fanno parte della rete Ifcn”.

Spiega Meta: “Ogni volta che un fact-checker valuta un contenuto come falso sulle nostre piattaforme, noi ne riduciamo la distribuzione per ridurre la visibilità e lo etichettiamo di conseguenza, per avvisare gli utenti che tentano di condividerlo”.

I fact-checker, che Meta definisce “indipendenti” ( bit.ly/3Klzu1E ), sono tutti “certificati” dll’Ifcn/Poynter Institute (Open, che in Italia fa il fact-checking per Facebook, da cui riceve finanziamenti pari al 5% dei propri ricavi, ribadisce “la totale mancanza di rapporti con partiti o movimenti politici o da entità affiliate a partiti politici”, e si definisce “membro attivo” dell’Ifcn: bit.ly/42TrQ5U.)

MacLeod: “Il Ned, cioè la Cia, finanzia il Poynter Institute per addestrare i fact-checker lituani su quali informazioni sono giuste e quali sbagliate; e l’ambasciata Usa quelli polacchi di Demagog. Altri gruppi sono finanziati dai governi olandese, inglese, tedesco. ‘Fact Check Georgia’ ha i loghi di Ned e dell’ambasciata Usa in calce a ogni pagina, e dovremmo credere che sono neutrali. Gli arbitri morali le cui decisioni impattano su miliardi di utenti Facebook sono manovalanza di Washington. La censura è globale. Nel 2016 Google cambiò di colpo un algoritmo, e il risultato fu che siti di informazione alternativa persero per sempre gran parte del loro traffico Google: ‘Democracy Now’ ne perse il 36%, ‘Alternet’ il 63% e ‘MintPress’ il 90%. Questo rende insostenibile economicamente la loro attività: è un attacco alla libertà di espressione”. Maccartismo digitale: la nuova frontiera.

La miriade di ex-agenti Cia, Fbi e Nsa che si occupano di contenuti sui social – Daniele Luttazzi

Riassunto delle puntate precedenti: la maggior parte delle organizzazioni di fact-checking con cui Facebook collabora per pilotare le informazioni sull’Ucraina sono finanziate dal governo Usa; e Google riduce il traffico ai siti di informazione alternativi. Per capire chi prenda certe decisioni, il giornalista Alan MacLeod ha esplorato LinkedIn, scoprendo la miriade di ex-agenti Cia, Fbi e Nsa che si occupano del fact-checking e della sicurezza informatica a Facebook, Twitter e Google (bit.ly/3TXfwNM, bit.ly/3zm6QXP, bit.ly/3M77os2). Sorprese anche a TikTok (bit.ly/3G3autl) e Reddit (bit.ly/40u852U).

“Decidono cosa vedono gli utenti nei propri feed di notizie: costruiscono la loro realtà.

Spaventoso, perché nessuno lo sa,” spiega MacLeod.

Uno dei fact-checker è Aaron Berman, che in un promo di Facebook parla del suo lavoro nel “team contenuti” sostenendo l’importanza della trasparenza (bit.ly/40pnCkt, a 23’18”). MacLeod: “Ma omette il suo passato alla Cia. Ed è ridicolo che Facebook recluti, come arbitri morali su cosa è vero o falso, personale Cia, un’agenzia che ha una lunga storia di attività di disinformazione, colpi di Stato, centri di tortura e traffico di droga e di armi. Aaron Berman scriveva ogni mattina i memo di intelligence per i presidenti Obama e Trump; ora modera i contenuti della più grande media company al mondo. Questo è così distopico che è difficile esprimerlo a parole. Berman non è neppure il peggiore. Nel 2013 Scott Stern era il capo del targeting in Asia occidentale per la Cia. In pratica decideva chi veniva colpito ogni giorno dai droni in Yemen, Afghanistan e Iraq. La Cia stessa ha ammesso che il 90% delle persone uccise dai droni erano civili innocenti. Adesso Stern decide chi sparge disinformazione su Facebook e lo elimina da Internet”. Anche Nick Lovrien, vicepresidente di Meta, è un ex-agente Cia (bit.ly/40pnCkt, a 37’05”)”.

Nel 2018, quando Zuckerberg fu convocato dal Senato Usa dopo lo scandalo Cambridge Analytica, alcuni politici proposero di smembrare il monopolista Facebook e di mettere Zuck in galera per aver favorito, con conseguenze letali, la diffusione di hate speech e disinformazione. MacLeod: “Qualche settimana dopo, Facebook diventò partner dell’Atlantic Council, il think tank Nato che nelle sue pubblicazioni definiva ‘cavalli di Troia del Cremlino’ tutti i gruppi antagonisti in Europa: il Labour di Corbyn, l’Ukip, Podemos, Vox, Syriza e Alba Dorata. Nel consiglio di amministrazione ci sono Kissinger, generali Usa, ex-direttori Cia. Questa gente adesso controlla la moderazione dei contenuti. Non credo che le due cose siano scollegate”.

La legge antitrust non fu applicata contro Facebook: un’azienda così estesa e influente conviene ai controllori. Ben Nimmo, ex-Atlantic Council, è il capo della global intelligence di Facebook: durante le elezioni in Nicaragua cancellò col suo team centinaia di account e di pagine di media pro-sandinisti, contrari al candidato sostenuto dagli Usa. La propaganda, insomma, non è solo russa, come insegna il precedente della guerra in Iraq, motivata da bugie che furono amplificate da giornalisti embedded. MacLeod: “Oggi ci sono giornalisti che esistono solo per attaccare il sentimento progressista no-war e anti-imperialista che si sta formando. Ti dicono che sei una marionetta di Putin”. Il controllo del discorso pubblico non è certo una novità: nel 1977, dopo un articolo del New York Times di Sy Hersh sulla Cia che spiava gli attivisti no-war (nyti.ms/2AKuGz4), un’inchiesta di Carl Bernstein svelò che 400 giornalisti Usa avevano lavorato segretamente per la Cia (“La Cia e i media”: bit.ly/3zkANr4).

MacLeod: “Ma oggi è tutto più palese. Ken Dilanian del Los Angeles Times inviava i suoi articoli alla Cia che glieli correggeva prima della pubblicazione. Quando uscì la notizia (bit.ly/414K5Uf), Dilanian fu promosso in tv: fa il corrispondente alla Nbc. È così che si fa carriera”.
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Mosca presenta “i nuovi concetti di politica estera”: l’Europa ad un bivio storico – Fabrizio Poggi

Di fronte alla realtà di un mondo sempre più multipolare, con una potenza planetaria sinora dominante il cui progressivo declino costituisce oggi il maggior pericolo di guerra mondiale; di fronte alle manovre statunitensi contro ogni ipotesi di accordo russo-cinese, peraltro rafforzata dagli stessi USA che, perdendo alleati in giro per il mondo a vantaggio dei rivali, soffiano sul fuoco delle ambizioni polacche in Europa; di fronte a questa nuova realtà, Mosca licenzia i nuovi concetti della politica estera russa, in continuità con le linee adottate a novembre 2016.

I caposaldi di tale nuova formulazione, illustrati dal Ministro degli esteri Sergej Lavrov, consistono nella determinazione della Russia quale potenza al tempo stesso Euro-Asiatica e Euro-Pacifica, bastione dell’intero mondo russo, uno dei centri sovrani dello sviluppo mondiale, con un preciso ruolo nell’equilibrio pacifico globale. I rapporti di Mosca verso altri stati o unioni inter-statali, in base al carattere della loro politica nei confronti della Russia, sono distinti in costruttivi, neutrali o ostili.

Mosca precisa di non essere nemica dell’Occidente, di non volersi isolare da esso e conta sul fatto che l’Occidente comprenda l’infruttuosità del confronto con la Russia, e accetti le nuove realtà multipolari. Al sodo: per adattare l’ordine globale alle realtà di un mondo multipolare, Mosca presterà prioritaria attenzione alla rimozione del dominio USA e di altri stati ostili, o con ambizioni egemoniche, negli affari mondiali. È obiettivo di Mosca garantire la sicurezza reciproca in egual misura a tutti gli Stati, non escludendo però il ricorso alla forza per respingere e prevenire attacchi armati contro se stessa e i propri alleati.

Per quanto riguarda l’intera area in cui la Russia è inserita, Mosca intende vederla quale regione di pace, buon vicinato e prosperità; è dunque prioritario l’approfondimento di legami e coordinamento con «centri di potere globali sovrani amichevoli» quali Cina e India. Al tempo stesso, si guarda alla più estesa cooperazione internazionale, opponendosi a linee di divisione nella regione Asia-Pacifico. Anche per questo, il progetto-chiave è la trasformazione dell’Eurasia in un unico spazio continentale di pace, stabilità, fiducia reciproca, sviluppo e prosperità, insieme a una piena e «reciprocamente vantaggiosa cooperazione con la civiltà islamica amica». Piena collaborazione anche coi continenti africano e latino-americano e coi Paesi del bacino caribico. Per quanto riguarda i centri considerati ostili, si dice chiaro e tondo che l’attuale corso USA rappresenta la principale fonte della politica anti-russa e dei rischi per la pace mondiale, mentre si “consiglia” alla UE di rinunciare alla politica antirussa e optare per una maggiore indipendenza dagli Stati Uniti, col che si inciderebbe positivamente su sicurezza e benessere dei Paesi europei.

Dunque, la risposta russa all’aggressività statunitense e ai suoi tentativi di aggrapparsi a un mondo unipolare, è la priorità attribuita a legami sempre più stretti coi «centri di potere globali sovrani amichevoli» quali Cina e India. D’altronde, negli stessi USA si guarda al rafforzamento dell’asse russo-cinese come a un “merito” tutto americano, cui Washington ha contribuito con la propria pressione e incoscienza, col rischio di sbalzare gli Stati Uniti dal loro “piedistallo”. E non bastano le “alleanze” di cui è uso vantarsi Joe Biden: Quad, AUKUS, Giappone o Corea del Sud. Dopo la visita di Xi Jinping a Mosca, per dire, Bloomberg ha scritto apertamente che la questione di una “potenziale” alleanza russo-cinese non è più attuale, dato che essa è già un fatto. Si tratta di una unione tesa «alla riorganizzazione della politica mondiale, pur se gli americani, accecati dalle proprie azioni, non lo vedono». La stessa CNN, vicina ai Democratici, ammette che «l’America si prepara a una contrapposizione con la Cina che può trasformarsi in una guerra fredda, mentre, contemporaneamente, conduce una guerra indiretta con la Russia in Ucraina. Russia e Cina insieme hanno grosse possibilità di ribaltare i piani americani in Ucraina e da altre parti». The Washington Post mette l’accento sulle parole di Putin, largamente ignorate dai media, sull’uso del yuan negli scambi della Russia coi paesi asiatici, africani e latino-americani. Secondo American Conservative, le sanzioni non hanno fatto altro che provocare l’ulteriore avvicinamento Mosca-Pechino, accelerando il rifiuto di un mondo unipolare.

Sul South China Morning Post di Hong Kong, il banchiere malese Andrew Sheng nota che gli americani avevano vinto la guerra fredda contro l’URSS tagliando fuori la Cina dal campo sovietico; oggi, la NATO, identificando Cina e Russia quali «minacce esistenziali», è riuscita in ciò che hanno sempre temuto gli strateghi: un conflitto contro due avversari potenti: «In ogni caso, l’Europa e gli altri si metteranno dalla parte del vincitore. L’America rimarrà una fortezza difesa da Atlantico e Pacifico. Ma quanto a lungo sarà in grado di mantenere la più grande forza militare del pianeta, se l’economia mondiale va in recessione?».

Washington è comunque decisa, scriveva un mese fa la russa RT, a qualsiasi provocazione pur contrastare l’avvicinamento russo-cinese. Con l’usuale metodo di bastone e carota, mentre il Congresso discute la cessazione dei rapporti commerciali con la Cina e l’adozione di sanzioni nel caso Pechino appoggi militarmente la Russia, si insiste su un viaggio del Segretario di stato Antony Blinken a Pechino e addirittura di un possibile incontro Biden-Xi: tutto, nel tardivo tentativo di impedire l’asse Mosca-Pechino. The Heritage Foundation stila addirittura l’elenco dei passi necessari, a loro dire, per annientare la Russia e conquistare la Cina: completa interruzione delle relazioni con la Cina nella cooperazione scientifica ed educativa e nello scambio di studenti;

blocco di tutte le applicazioni per telefoni cellulari create da sviluppatori cinesi; cessazione degli investimenti cinesi in tecnologia e estrazione petrolifera in USA; cancellazione degli investimenti in Cina; restrizioni all’acquisto di beni dalla Cina, in particolare ad alta tecnologia.

Ciò che trattiene per ora la Casa Bianca da passi troppo azzardati, sono i forti legami economici tuttora attivi con la Cina: eventuali sanzioni potrebbero incidere dolorosamente sugli Stati Uniti stessi, notano gli esperti russi sentiti da RT, dati gli stretti legami tra molte imprese statunitensi e cinesi, con la tecnologia elaborata in USA e le merci sfornate in Cina. Non meno amare potrebbero risultare le contro-sanzioni cinesi.

A proposito dei “successi” americani, anche la britannica Daily Express nota che, nel corso dell’ultimo anno e nonostante la forte pressione occidentale, la Russia è riuscita addirittura ad allargare il campo dei propri alleati: naturalmente, a spese dello stesso Occidente. Così che, oltre agli alleati “indiscussi” – Bielorussia, RPDC, Nicaragua, Siria – si aggiunge sicuramente la Cina, mentre è in gioco la “neutralità” dell’India, che ha notevolmente incrementato l’importazione di petrolio russo e non ha aderito alle sanzioni. In base inoltre ai dati del Economist Intelligence Unit, il numero di paesi che condannano la Russia è sceso da 131 a 122. Così che, a livello mondiale, il decantato “isolamento” russo vede il blocco USA-UE diretto contro Mosca rappresentare appena il 36,2% della popolazione mondiale, mentre sale al 30,7% il numero di paesi neutrali. Anche paesi alleati dell’Occidente, nota Daily Express, quali ad esempio Colombia, Turchia, Qatar, stanno rivedendo il proprio atteggiamento verso Mosca.

E, “neutrali” a parte, qualcosa sembra muoversi nei meandri del bastione yankee in Europa: la iena polacca.

La Dziennik Polityczny – dichiaramente d’opposizione e orientata verso la Russia: ma tant’è – constata che gli USA sono intenzionati a scatenare la Terza guerra mondiale per mano polacca.

L’annuncio di Vladimir Putin sul dispiegamento di armi nucleari tattiche in Bielorussia entro il 1 luglio, scrive la rivista, ha provocato un vero shock tra i leader mondiali. Tutti i paesi UE hanno iniziato a redigere «trattati e accordi raffazzonati» secondo cui, affermano, non possano essere dislocate armi nucleari all’interno dei confini NATO. Il presunto spostamento di armi nucleari fa aumentare le tensioni in tutta la regione; nessuno ha detto però che Putin ha rilasciato la dichiarazione non a caso, bensì immediatamente dopo che Londra aveva annunciato di voler inviare a Kiev munizioni all’uranio impoverito.

Ai russi, come bielorussi e polacchi, non piace combattere, scrive Dziennik Polityczny. Per trascinare i nostri paesi in guerra, bisogna far pressione sui punti dolenti, calpestare l’orgoglio storico, invadere la sovranità e l’inviolabilità del territorio, incatenare paesi e popoli. La Polonia, forse il paese più russofobo, ha voglia di combattere contro la Russia; o, almeno, questa è l’impressione dell’osservatore esterno, che si basa sulle affermazioni di quel gruppo criminale che è il partito governativo PiS, completamente agli ordini di Washington. Gli USA hanno “illustrato” in dettaglio al governo polacco come odiare i russi, hanno ricordato tutti gli “errori” polacchi quando si sono trovati nello stesso campo storico con la Russia; hanno quindi assicurato che non si possa fare a meno della vendetta, aggiungendo la promessa di accesso all’Olimpo europeo.

Ecco dunque che ora i polacchi sono ostaggi della crociata propagandistica dei governi UE e se gli USA sono riusciti a fare degli ucraini carne da cannone dai fratelli russi, sarà ancora più facile gettare i polacchi nella fornace per indebolire la Russia. L’unico problema che potrebbe sorgere è che i polacchi non moriranno in una guerra scomoda, il che significa che se non riusciranno a impedire loro di lasciare il Paese, come hanno fatto in Ucraina, allora non rimarrà nessuno. E questo è un grosso problema, dato che la UE “risolve” i problemi in solido: se Washington getterà la Polonia nella mischia, la stessa sorte toccherà a tutta la UE.

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“Ripudia la guerra”: al via il referendum popolare contro le armi all’Ucraina – Salvatore Toscano

Un gruppo di cittadini si è costituito nel comitato promotore del referendum “Ripudia la guerra”, avviando la raccolta delle 500mila firme necessarie alla presentazione della proposta. Secondo i promotori, che fanno appello all’articolo 11 della Costituzione, le autorità italiane dovrebbero impegnarsi nei conflitti internazionali non mediante l’invio di armi bensì con un lavoro diplomatico volto a ottenere il cessate il fuoco e delle trattative di pace. Così sono stati elaborati tre quesiti riguardo l’abrogazione delle disposizioni sull’invio di armi all’Ucraina contenute nell’art. 2 bis della Legge 28/2022 e nell’art.1 della legge n. 8/2023; nonché delle disposizioni contenute all’art. 1, comma 6, lettera a) della legge 185/1990 che ammettono eccezioni al divieto di invio di armi ai Paesi in stato di conflitto armato.

«Riteniamo che nessun governo o anche parlamento possano ritenersi investiti della responsabilità di condurre il Paese in un conflitto che rischia di degenerare in modo irreversibile, senza interpellare la popolazione», ha dichiarato il comitato promotore del referendum “Ripudia la guerra”. Il riferimento è all’attuale guerra in Ucraina, salvo poi estendere la richiesta a una previsione generale. A tal proposito, i quesiti referendari intendono abrogare tre articoli di legge, o parte di essi. Il primo riguarda l’art. 1, comma 6, lettera a) della legge n. 185 del 9 luglio 1990, che vieta “l’esportazione, il transito, il trasferimento di armi verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere”. Il quesito intende eliminare l’ultima deroga, dunque “o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere”.

Il secondo quesito intende, invece, abrogare l’articolo 2 bis del decreto-legge 25 febbraio 2022, n. 14, nella parte afferente alla cessione delle armi a Kiev.

Il terzo riguarda infine l’abrogazione dell’art. 1 del decreto-legge n. 185 del 2 dicembre 2022, riguardante la proroga della cessione delle armi all’Ucraina fino al 31 dicembre 2023.

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LE VOCI CANCELLATE DELLA SINISTRA UCRAINA – Flavio Pintarelli

Il westsplaining della sinistra occidentale cancella le esperienze politiche complesse che si oppongono all’imperialismo russo. Un’intervista a partire dalla raccolta di testimonianze Qui siamo in guerra (Malamente, 2022)

Per la sinistra occidentale, il giudizio sull’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe della Federazione Russa si è rivelato un nodo politico complesso da sciogliere, che ha aperto numerose linee di faglia in un’area politica già messa alla prova da una fase, quella del conflitto tra populismi e liberalismi, le cui coordinate non sono state sempre di facile lettura. Nel dibattito che è seguito all’aggressione orchestrata da Putin fin dal 2014, la sinistra occidentale ha faticato a riconoscerne e stigmatizzarne in modo chiaro la natura imperialista, concedendo alle argomentazioni della propaganda russa uno spazio che a quelle di chi subiva le conseguenze dirette dell’invasione veniva al contempo minimizzato, se non addirittura negato.

Un atteggiamento che numerosi accademici e militanti dell’Europa orientale e centrale hanno avvertito così frustrante da coniare, per descriverlo, un neologismo, westsplaining, modellato sul concetto femminista di mansplaining. Le voci della sinistra ucraina (ma anche bielorussa e russa) sono state così messe in minoranza, quando non cancellate del tutto dal dibattito sulla guerra, interno alla sinistra occidentale. Per restituire loro uno spazio e una visibilità, nell’autunno del 2022, l’editore anarchico Malamente ha pubblicato un libro, Qui siamo in guerra, che si pone proprio il compito di presentare al pubblico italiano scritti e testimonianze prodotte dai movimenti anarchici, antifascisti e femministi in Ucraina, Russia e Bielorussia in questi mesi di conflitto. Il libro è curato da Nerofumo, un militante anarchico del circolo Berneri di Bologna, a cui ho chiesto di raccontarci qualcosa a proposito dei testi raccolti nel libro…

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Senza rivolta il pacifismo è sconfitto

Pablo Iglesias intervista Raúl Sánchez Cedillo

…Sostieni che il pacifismo dovrebbe diventare la forza chiave in un movimento sociale e politico in Europa. Ma oggi non vediamo nulla che si avvicini alle proteste contro la guerra esplose in tutto il continente nel 2003. Pensi che questo cambierà?

C’è qualcosa di inquietante e orribile nell’apatia del mainstream nei confronti dell’attuale escalation della guerra, sia prima che dopo l’invasione russa. Includo qui l’entusiasmo pro-militare della sinistra liberale sia in Europa che negli Stati uniti, che propaga il valore guerrafondaio della civiltà con arroganza morale. Questi fenomeni devono ancora essere analizzati. In Spagna, il movimento pacifista è stato a lungo una soggettività forte in quella che può essere definita la sinistra sociale, e quindi la sinistra politica. La lotta contro l’adesione alla Nato nei primi anni Ottanta ha dato vita a Izquierda Unida, la principale coalizione di partiti di sinistra nel paese.

Ancora più importante, questa lotta ha coinvolto le giovani generazioni nella politica del movimento sociale che, a partire dal 1989, ha intrapreso la campagna per porre fine al servizio militare obbligatorio. Infine, il movimento contro la guerra in Iraq è stato eticamente trasformativo per molti cittadini spagnoli. Ciò ha spianato la strada al governo Zapatero (di centro-sinistra) e al movimento democratico radicale noto come 15-M, che a sua volta ha portato, tra le altre cose, all’ingresso della sinistra nell’attuale governo di coalizione spagnolo. Allora perché non ora? E perché non in Spagna?

Permettetemi di sottolineare alcune cose che dovrebbero essere considerate, non separatamente ma nella loro interconnessione: la natura brutale dell’invasione russa e la sua performance mediatica; l’eccellente macchina di propaganda ucraino-statunitense e i suoi tentacoli sui social media; e il fatto che nessun partito di sinistra in Spagna, a eccezione di Podemos, parli della militarizzazione in corso nell’Ue. L’Ue, ovviamente, è il fornitore dei fondi che impediscono il collasso sociale.

Ci sono due fattori di fondamentale importanza. Per prima cosa, l’invasione russa ha spezzato la spina dorsale della sinistra. Ha diviso la sinistra e accelerato la trasformazione militarista sia delle fazioni filo-atlantiche che filo-russe. E in secondo luogo, questa vulnerabilità può essere compresa solo se teniamo presente la profonda depressione e l’angoscia che la gestione capitalista della pandemia di Covid-19 ha causato nella psiche globale, soprattutto rispetto a come percepiamo il valore della vita. Ora possiamo vedere la frustrazione, la vendetta e la paranoia che ne derivano, ma anche i tentativi di riconnettersi, guarire il corpo e salvare l’amore per il bene comune e la cooperazione contro l’assolutismo dei profitti, della proprietà e del potere capitalisti.

Lo sfondo di questo regime di guerra emergente è un capitalismo planetario i cui governanti guardano ora ai limiti della terra e della sua biosfera, un capitalismo pronto a intensificare ulteriormente l’austerità fiscale, con risultati che renderanno la vita difficile da sopportare per la maggior parte degli esseri umani. In questo contesto, la guerra si presenta ancora una volta come soluzione di contraddizioni sociali e politiche, come mezzo per imporre «l’ordine» sia all’interno che all’esterno. La resistenza alla guerra è inevitabile e penso che crescerà nei mesi a venire. Ma questo non significa che la resistenza si svilupperà come controforza offensiva.

La storia ci insegna che senza rivolta il pacifismo ha sempre perso la partita. Per questo propongo la «pace costituente» come orientamento politico pratico: un punto d’incontro in cui la resistenza contro la guerra, la disobbedienza, l’abbandono e il sabotaggio sono legati alle lotte sindacali, femministe, Lgbtq, anticoloniali, antifasciste ed ecologiste, come così come alle lotte per la salute pubblica e l’istruzione. Questo potrebbe essere un movimento molteplice ma convergente verso una rivolta capace di realizzare nuove forme di potere popolare. Il nostro obiettivo in Spagna è costruire una democrazia antifascista ed emancipatrice, rompendo i legami tra guerra, austerità, concentrazione della ricchezza e autoritarismo. Puntiamo a una repubblica confederale, qualcosa che è diventato possibile immaginare nel corso del movimento 15-M – qualcosa di nuovo e fattibile, non nostalgico. Qualcosa che le sinistre sociali e politiche finora non sono riuscite a creare.

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Intervista a Vasily Prozorov per la controinformazione italiana

(intervista di Alessio Trovato)

La parte ucraina lo chiama traditore e gli ha promesso vendetta, la parte russa lo definisce eroe. Ma chi è Vasily Prozorov, cosa ha fatto, perché lo ha fatto, e cosa sono gli UKR LEAKS? In questa intervista/lettera aperta per la controinformazione italiana, si racconta rispondendo ad alcune domande.

Esattamente, che lavoro svolgeva in Ucraina?

Buon giorno. Mi chiamo Vasily Prozorov. Sono stato un membro del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) a partire dal 1999. Per molto tempo, ho lavorato nelle unità operative, in particolare nelle unità per la lotta alla corruzione e al crimine organizzato. Nell’aprile 2014, sono entrato a far parte del Centro antiterrorismo dell’SBU, che si occupava della cosiddetta Operazione antiterrorismo (ATO) nel Donbass. Ho lavorato lì fino alla fine del 2017. Il mio grado militare era Tenente Colonnello. Sono stato ripetutamente premiato con decorazioni dall’SBU e da altre agenzie ucraine.

A mio parere, nel febbraio 2014 c’è stato un vero e proprio colpo di Stato a Kiev, che non ha fatto altro che danneggiare il popolo ucraino. Pertanto, dall’aprile 2014, ho iniziato volontariamente, per motivi ideologici, a collaborare con i servizi segreti russi, poiché volevo combattere a tutti i costi contro coloro che erano saliti al potere a Kiev a seguito del Maidan.

Nella sede del Centro antiterrorismo del Servizio di sicurezza dell’Ucraina, ero un ufficiale di collegamento con altre agenzie di sicurezza e governative, il che mi permetteva di ricevere informazioni da altri servizi e agenzie speciali dell’Ucraina. Per esempio, frequentavo costantemente la Verkhovna Rada, il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero della Difesa, lo Stato Maggiore delle Forze Armate, la Guardia Nazionale, il Comando delle Forze di Operazioni Speciali e la Direzione Principale dell’Intelligence del Ministero della Difesa dell’Ucraina. In particolare, una volta ogni 10 giorni, ricevevo dallo Stato Maggiore una mappa della situazione nella zona ATO da trasmettere alla leadership dell’ATC SBU (centro antiterrorismo dei servizi di sicurezza).

In questo modo ho trasmesso informazioni a Mosca. Mosca vedeva così la mappa della situazione nella zona ATO prima ancora del comando dell’ATC SBU.

 

Cosa è successo dopo, perché ha lasciato?

Alla fine del 2017, ho deciso di concludere le mie attività. In quasi 4 anni di lavoro sotto copertura, si era accumulata una grave stanchezza e il rischio di esposizione era diventato molto alto. Avevo già scritto una lettera di dimissioni dall’SBU ed ero anche stato sollevato dai miei compiti presso l’ATC.

Il 22 dicembre 2017, gli agenti dell’SBU si sono presentati nel mio appartamento in affitto a Kiev e nella casa della mia famiglia a Zaporozhye e mi hanno perquisito, accusandomi di lavorare per l’intelligence russa. Con grande difficoltà e dopo aver speso molto denaro, sono riuscito a sfuggire al procedimento giudiziario e a portare la mia famiglia fuori dall’Ucraina. In seguito, mi sono trasferito in Russia, dove ho iniziato il mio lavoro investigativo, denunciando i crimini di guerra del regime di Kiev.

Come hanno reagito in Ucraina quando è andato in Russia e ha raccontato ciò che sapeva?

Dopo la mia partenza, a Kiev sono stati aperti diversi procedimenti penali contro di me, tra cui quelli per tradimento di Stato, traffico d’armi e diserzione. Tuttavia, poiché sono riuscito a passare sotto il naso dell’SBU, non hanno fatto subito un gran rumore. Mi hanno semplicemente inserito nella lista dei ricercati. Un anno dopo la mia partenza, il 25 marzo 2019, ho tenuto una conferenza stampa a Mosca, dove ho parlato dei crimini del regime di Kiev dei quali ero venuto a conoscenza. In seguito, sui media ucraini sono apparsi molti articoli su di me, accusandomi di crimini orribili e diffamandomi in ogni modo possibile. Tuttavia, dopo un po’ di tempo, il clamore si è spento di nuovo. Il fatto è che menzionare le mie attività ricorda ai servizi di sicurezza ucraini un grave fallimento. Pertanto, cercano di non menzionarmi affatto nei media, concentrandosi piuttosto nel cercare di eliminarmi fisicamente.

 

Cosa farà ora? Quali sono i suoi progetti?

Progetti? Continuare a denunciare i crimini di guerra del regime di Kiev. Sia quelli commessi prima del 2022 che quelli commessi ancora prima.

A suo tempo, ho indagato sull’incidente del volo Boeing MH-17 nell’estate del 2014 e credo di aver dimostrato in modo ragionevole che questo incidente fu il risultato di un’operazione speciale dei servizi segreti occidentali e della leadership di Kiev. Sono stato il primo a svelare l’esistenza di una prigione illegale chiamata “Biblioteka” all’aeroporto di Mariupol dal 2014. Ho creato un’intera serie di indagini sulle attività dei battaglioni di volontari nazionalisti e sui crimini che hanno commesso nel Donbas. Ho pubblicato diverse indagini sulle attività delle strutture di guerra psicologica in Ucraina, anche contro la popolazione europea. Ho svolto un lavoro serio per smascherare le attività dei laboratori militari e biologici statunitensi in Ucraina. E ho cercato di supportare tutte le mie indagini con i documenti che ho ottenuto lavorando in Ucraina dal 2014 al 2018.

Continuerò le mie indagini per smascherare i crimini di Kiev contro le persone e contro l’umanità in generale. A tal fine, mi reco spesso nell’area in cui si svolge l’Operazione speciale, dove raccolgo materiale fattuale.

Uno dei miei obiettivi più importanti è far arrivare la verità alle persone nei Paesi occidentali. Il fatto è che la censura nel mondo occidentale ha superato tutti i limiti immaginabili. Personalmente, il mio canale YouTube, dove pubblicavo le mie indagini, è stato distrutto tre volte…

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Le richieste degli Stati Maggiori delle Forze Armate: nuove armi per almeno 25 miliardi – Enrico Piovesana

Sarà di almeno 25 miliardi di euro il costo degli investimenti straordinari in nuovi armamenti se il ministro della Difesa Guido Crosetto recepirà le proposte che i Capi di Stato di maggiore di Esercito, Marina e Aeronautica hanno avanzato nelle loro audizioni programmatiche alle Commissioni Difesa di Camera e Senato. Un programma di riarmo imponente che avrebbe un notevole impatto sui bilanci statali, giustificato dai militari con il rischio concreto di una guerra determinato dal conflitto in Ucraina, che richiederà adeguati approfondimenti. Anche in considerazione del record di approvazioni di programmi di procurement militare avvenuto nella scorsa Legislatura (e di cui l’Osservatorio Mil€x ha dato conto in numerosi articoli)…

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Quasi un miliardo il costo complessivo per l’Italia dell’aiuto militare all’Ucraina – Francesco Vignarca

Le nuove stime (oltre 950 milioni previsti) derivano dagli ultimi annunci in sede europea relativi all’aumento dei fondi dell’European Peace Facility destinati al Governo di Zelensky, oltre che dalle valutazioni relative ai primi sei invii di armamenti italiani.

Le dichiarazioni in Parlamento della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, secondo cui l’invio di armi all’Ucraina non costituirebbe un costo per le casse statali e quindi una sottrazione di risorse al bilancio dello Stato, hanno riacceso l’attenzione sugli aiuti militari anche del nostro Paese al governo di Zelens’kyj. L’affermazione appare essere poco fondata, proprio per la natura del meccanismo di sostegno militare implementato già poche settimane dopo l’invasione russa, ed è già stata smentita in passato da analisi nostre e condotte da altri. La questione assume però rilevanza non solo dal lato “politico”, ma anche da quello delle valutazioni delle cifre coinvolte soprattutto in virtà delle recenti notizie provenienti dal livello europeo, che impongono una rivalutazione del costo complessivo anche per l’Italia di tale scelta di aiuto militare.

Il nostro Osservatorio Mil€x si è già occupato in passato di elaborare una stima a riguardo, sempre sottolineando che la secretazione dei dettagli sugli invii armamenti operati mediante successivi decreti interministeriali non consente una valutazione precisa e completamente certa. Rimandando ai precedenti articoli per i dettagli procedurali, si evidenzia dunque come questa stima potrebbe essere suscettibile di aggiornamento e miglioramento (che verrà prontamente realizzato)  qualora dovessero essere forniti dal Governo dati più accurati, con tutti i dettagli rilevanti.

La base giuridica dell’invio di armi all’Ucraina è costituita da Decreti-legge (poi convertiti in Legge a seguito di voto parlamentare) predisposti sia dal Governo Draghi che dal Governo Meloni, basati sul medesimo schema. Tramite i già ricordati Decreti interministeriali vengono individuati materiali di armamento in surplus, non più utilizzati dalle Forze Armate italiane, che vengono quindi spediti verso l’area del conflitto ucraino. Ovviamente non vi è alcun costo di nuovo acquisto per tali materiali, ma a parte i costi logistici di spedizione è altrettanto ovvio che alcuni fondi dovranno essere individuati per il ripristino delle scorte. Pur non essendoci un meccanismo automatico in tal senso, anche perché è molto probabile che soprattutto i primi inviti abbiano coinvolto materiali d’armamento datati, diverse sono state le conferme di esponenti politici e della Difesa in relazione ad una tale necessità (da declinarsi ovviamente in base alle nuove funzioni e necessità operative aggiornate). In particolare è stato proprio il ministro della Difesa Guido Crosetto a dichiarare esplicitamente lo scorso 25 gennaio 2023, durante un’audizione parlamentare, che l’Italia dovrà comprare di nuovo le armi che ha spedito gratuitamente all’Ucraina: «L’aiuto che abbiamo dato in questi mesi all’Ucraina è un aiuto che in qualche modo ci impone di ripristinare le scorte che servono per la difesa nazionale».

Una valutazione del costo completo degli aiuti militari deve dunque partire da un’analisi di quanto inviato, elemento non facile da ricavare proprio per la secretazione di tutti i dettagli a riguardo. Secondo alcune dichiarazioni del ministro degli Esteri Tajani rese ad inizio 2023 l’Italia aveva già inviato fino a quel momento circa 1 miliardo di euro di controvalore di armamenti, mentre il Kiel Institute con il suo progetto di monitoraggio complessivo dei sostegni internazionali all’Ucraina riferisce una cifra di 350 milioni di euro. Come dato di partenza di base abbiamo perciò scelto di attestarci su una cifra di 500 milioni che ci pare più realistica nel valutare il controvalore, pur se non è possibile sapere se si tratta di prezzi di costo per nuovo riacquisto o valutazioni di magazzino. Tale elemento di partenza è fondamentale perché, come abbiamo già spiegato, è su tale cifra che si basano le richieste di rimborso avanzate dai Paesi Membri all’Unione Europea, che da mesi ha deciso di aiutare lo sforzo di aiuto militare ingrandendo sempre di più i fondi della European Peace Facility dedicati allo scopo. Quest’ultimo è uno strumento finanziario ‘fuori bilancio’ (quindi di competenza del Consiglio UE e non della Commissione) a supporto delle iniziative militari internazionali europee: venne istituito il 22 marzo 2021 con una prospettiva settennale (che nessuno pensava di dover utilizzare così copiosamente per l’Ucraina) e una dotazione previsionale di 5.692 milioni di euro, aumentata a 7.979 milioni a metà marzo 2023 proprio per poter inglobare le decisioni sempre più onerose relative al conflitto ucraino. In pratica l’EPF è finanziato dai contributi annuali degli Stati membri dell’UE stabiliti in base a calcoli basati sul Reddito nazionale lordo per i quali la quota di contribuzione annuale dell’Italia risulta essere di circa il 12,8% del totale.

Con le decisioni prese a febbraio 2023 i fondi EPF destinati all’aiuto militare all’Ucraina hanno raggiunto la cifra complessiva di 3,6 miliardi di euro. Il rimborso verso gli Stati Membri non potrà però coprire integralmente le richiese proprio per l’enorme invio di sistemi d’arma effettuato nell’ultimo anno: attualmente si prevede una restituzione attorno al 50% del valore spedito (ma tale quota potrebbe scendere ulteriormente in quanto secondo diversi retroscena molti Stati starebbero gonfiando le cifre relative alle proprie spedizioni). A prima vista il sistema di rimborso tramite EPF potrebbe apparire utile a diminuire il costo legato al ripristino delle scorte, ma se si considera che tale Fondo europeo è come detto alimentato dalle quote degli Stati membri il risultato reale va in tutt’altra direzione, soprattutto per un Paese come l’Italia. Proprio in virtù del continuo rialzo del tetto finanziario dell’EPF, ben oltre la dotazione iniziale, lo stesso Consiglio Europeo ha potuto decidere a marzo 2023 un nuovo programma di sostegno all’invio di munizionamento verso l’Ucraina, con due fasi da 1 miliardo di euro ciascuna.

Per tutti questi fondi l’Italia ha un obbligo di contribuzione già evidenziato pari circa al 12,8%, da cui deriva la parte principale del costo che il nostro Paese deve sostenere relativamente alle decisioni di invio armamenti al governo ucraino. In pratica è soprattutto questa “quota collettiva” a gravare sulle casse statali e a smentire con evidenza le dichiarazioni dell’onorevole Meloni: il costo non è direttamente legato al ripristino delle scorte ma esiste ed è rilevante. Applicando infatti i meccanismi di calcolo derivanti dalla pluralità di scelte messe in campo otteniamo per l’Italia ad oggi un costo già sicuro di 838 milioni di euro e un costo in prospettiva di oltre 950 milioni di euro (la differenza deriva dal fatto che al momento l’Italia non ha ancora formalizzato la propria partecipazione alla seconda tranche dei programmi di nuovo munizionamento, pur se è probabile che lo farà così come è abbastanza probabile che debba comunque pagare la propria quota)…

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Redazione
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