«L’ultima mano»: un racconto di Marco Alberto Donadoni

Fra le vecchie-nuove guerre e intorno ad altri domani possibili (*)

 


Efhrem, seduto a gambe incrociate, guardava i fianchi della ragazza che nel sonno si era scoperta.
La pelle dorata dal sole rifletteva i raggi che filtravano attraverso le persiane della parete-finestra. Per un attimo cullò il pensiero di sporgersi avanti e baciarla, svegliandola. Ma fu solo un attimo.
Lentamente, facendo scricchiolare le giunture, stirò prima le braccia, poi le gambe, osservando le venature bianche delle cicatrici da cui erano coperte. Silenzioso scivolò dal letto e si infilò in bagno.
La doccia, il vapore, l’accappatoio caldo e asciutto. La faccia deformata dalle goccioline che appannavano lo specchio, in un’esplosione di riflessi d’argento. Esplosa, come per un colpo di disgregatore, pensò. Tornato in camera gettò l’accappatoio su una sedia, prese il vestito bianco col rombo rosso sul petto, e cominciò a vestirsi. Con un gesto veloce e delicato si chinò sui capelli biondi della ragazza che ancora dormiva, li sfiorò con un bacio e, rialzandosi, posò sul comodino l’anello che si era sfilato dal dito. Non le doveva nulla, lo sapeva. A lui, al grande Asos Rosso, al vincitore del Gioco, tutto era dovuto. Da tutti. Ma la sera prima, alla festa, era stata così brava a fargli credere di desiderarlo come uomo e non come simbolo, che meritava pure una ricompensa. Prese la borsa col rombo rosso, si diresse alla porta e uscì. Si domandò se l’avrebbe più vista: non sapeva nemmeno il suo nome.
Il sole basso lo costrinse a mettere gli occhiali scuri. Mentre saliva sulla moto una banda di ragazzini cominciò a gridare il suo nome, porgendo attraverso i cancelli foglietti su cui chiedevano una semplice firma da adorare poi in segreto. Ma quel giorno non aveva voglia di curare l’immagine del grande-amico-di-tutti. Facendo rombare il motore schizzò sulla rampa, attraversò i cancelli e in un attimo la massa dei piccoli fans fu solo un ricordo. Come la ragazza. Il traffico lento del primo mattino fu superato con una furiosa corsa che per poco non lo mandò a sbattere contro un camion. Nessuno si sognò di protestare contro quel pazzo incosciente: i denti si scoprivano in sorrisi beati quando i comuni mortali riconoscevano il Grande Asos Rosso, qualunque cosa facesse.
Lo stadio era già circondato da una folla imponente, in coda davanti ai botteghini. Nessuno voleva perdersi la finale. E nemmeno l’annuncio della visione in chiaro su tutte le pay tivù più importanti del Paese aveva fermato quella furiosa caccia al biglietto. Con un ultimo rombo il motore si spense dentro la rimessa che fra poche ore avrebbe accolto tutte le autorità nazionali. Il guardiano rimase a seguirlo in una smorfia ebete di ammirazione, mentre entrava negli spogliatoi.
“Stamattina Giorgia era veramente impossibile! Il caffè non era abbastanza nero, il latte non aveva la schiuma, i bambini non volevano andare a scuola, voleva cambiare la macchina nuova perché il tetto non si apre abbastanza in fretta…”
Giorgia era la sua ex moglie, e chi gli parlava delle sue nevrosi era Freny, il di lei fratello. Dai tempi delle medie, da quando ancora era un normale ragazzo di provincia, era sempre stato il suo migliore amico.
Mentre tirava fuori dall’armadio la tuta da combattimento, Efhrem si domandava quanto sarebbe andato avanti con quelle idiozie. Occhieggiandolo da un angolo Freny continuava con la sua tiritera, finché ad Efhrem scappò una bestemmia scoprendo all’attaccatura del ginocchio una perdita di energia. “Ne hai ancora per molto con queste stronzate?” gli ringhiò. Freny si strinse nelle spalle: “Va bene, di Giorgia non te ne frega niente. E ti capisco anche. Ma… per stasera, hai deciso?”. Ecco, lo sapeva. Lo aspettava. Alzando gli occhi al cielo si bloccò in attesa del resto. “E’ la terza volta, Ef, non puoi continuare così! Hai tutto quello che vuoi, sei libero, ricco, ancora con le braccia attaccate alle spalle. E non hai più creditori alle costole. Puoi diventare un divo della televisione, finanziare i dilettanti, fare viaggi, andare in pellegrinaggio alla Mecca, Insomma, non è come le altre volte!”.
Avrebbe voluto insultarlo, gridargli di uscire, di andare a farsi fottere lui e le sue paure. Ma girandosi a guardarlo vide in quegli occhi una tale attesa preoccupata che gli passò la voglia di farlo. “Va bene, sospirò, stavolta basta davvero. Se perdo non ricomincio più. Basta, davvero. Anch’io sono stanco”.
Guardando l’amico che sorrideva raggiante Efhrem provò una fitta al cuore. Lo aveva detto altre volte, quando al culmine della vittoria aveva giurato di smettere e godersi i frutti di tutti i rischi corsi sulla sabbia verde. Ma poi aveva perso, e ogni volta aveva ricominciato dal gradino più basso, ripartendo in quella assurda e meravigliosa scalata alla sorte e alla morte. È vero, le altre volte era più giovane, e assediato dai debiti, e senza prospettive, e… Ma la ragione vera era un’altra. Giorgia lo aveva capito, per quello lo aveva piantato: non si può smettere di essere un dio, non si può tornare ad essere un uomo normale dopo aver provato il gusto del Grande Gioco. Ma questa volta parlava seriamente: se avesse perso, e se fosse sopravvissuto, l’arena non lo avrebbe più visto. Con una pacca sulla spalla sorrise anche lui a Freny, che si precipitò ad aiutarlo a indossare la tuta. Doveva andare a provare le armi, adesso. Per celebrare l’addio avrebbero avuto tempo dopo.
“No, no, il deviatore si tiene in alto!”. L’Esett guardava accigliato l’allenatore che gli mostrava come doveva usare il piccolo scudo a energia che le Regole gli permettevano di usare nel suo nuovo ruolo.
Il Gioco era così: dopo ogni vittoria tutti i combattenti passavano di grado, con armi sempre più potenti e difficili da usare. Fino ad arrivare al grado di Asos, il massimo, il micidiale. Ma era sempre più difficile. E pericoloso. Efhrem li guardò per un attimo, sogghignando, poi si diresse verso un angolo della palestra dove due Edu si allenavano coi loro grezzi manganelli di piombo e gomma. Erano al primo livello, dovevano arrangiarsi con quelli. Ma anche le piccole sbarre potevano essere terribili, se uno sapeva usarle. Uno dei due lo sapeva fare: con due finte scansò gli attacchi dell’avversario e, aggirandolo di scatto, calò un colpo preciso sul cranio, fermandosi a un centimetro dai capelli sudati.
“Bel colpo amico” gli gridò Efhrem. Anche se non ne ricordava il nome, aveva riconosciuto l’arte di battersi di un Asos nero che nell’ultimo incontro aveva perso per pura sfortuna. Evidentemente aveva deciso di ricominciare. L’uomo si girò e non rispose al saluto. “Ci vediamo stasera”, sussurrò dirigendosi verso lo specchio antiradiazioni per provare il suo disgregatore. Era un’arma troppo potente per allenarsi con un compagno vivente.
Punf…Ciunf…La porta automatica si apriva e chiudeva con cadenza ossessiva. Ogni volta che il tunnel mobile si fermava, la porta si apriva e su un quadrante appariva il numero di combattenti che quella sala poteva ancora ospitare. Ogni volta qualcuno decideva di uscire, il numero cambiava, la porta si chiudeva, il tunnel ripartiva verso la prossima sala. Le sale erano ai quattro estremi dell’arena, e il tunnel continuava a girar loro intorno, scaricando ogni volta un uomo. Le quattro porte dell’arena, la libera scelta. Nessuno ti obbliga a uscire, nessuno dice dove ti devi fermare. Eppure Efhrem sapeva che facevano solo finta di scegliere. Punf… Ciunf…Guardò un Quinec seduto accanto a lui. Non si agitava, non parlava. Forse aspettava una voce dentro che gli dicesse dove scendere. “Chissà se si sente maneggiato anche lui, come me, qui, nel tunnel? Punf… Ciunf…”. Un Idiec, poco più in là, gemeva in una crisi di paura. Ma anche lui avrebbe dovuto comunque scendere, prima o poi. Punf…Ciunf… Ecco, questa va bene. e comunque è inutile aspettare ancora. Si alzò di scatto e si precipitò, quasi, nella sala che lo aspettava.
Di là dal grande schermo trasparente, sulle tribune, vedeva migliaia di fanatici urlare. All’interno della sala, isolata, non sentiva nulla. Ma lui vedeva il loro urlo, pesci impazziti in un acquario al contrario.
Era strano, sembravano loro i combattenti, coi loro stendardi e le minacce lanciate ai gruppi avversari.
Dentro le sale invece gli atleti stavano tutti seduti, fermi e in silenzio. La poltrona anatomica che ciascuno aveva scelto li imprigionava nel suo abbraccio morbido e invincibile. Pronta a eiettarli, volenti o nolenti, nell’arena al comando dei Maestri. I Maestri: stavano giusto entrando al centro del campo verde. Sembravano così piccoli in mezzo al grande cilindro. Così umili nel salutare con l’inchino rituale la folla. E fra poco avrebbero deciso la vita e la morte di quaranta uomini. Ma quello era il loro ruolo: li avrebbero giocati uno alla volta, impassibili, osservando le teste volare e le viscere riversarsi sul terreno con un semplice moto di gioia o di stizza. Per loro i combattenti erano solo pezzi del Gioco. Efhrem li odiava. E li amava.
Alla fine del rito i Maestri presero posto nei seggi di comando. Le
console si accesero, mostrando a ciascuno di loro i numeri, le caratteristiche, i dati dei combattenti che il tunnel e la sorte gli avevano messo a disposizione. Efhrem guardò il suo Maestro mentre studiava lo schermo. Non so nemmeno come si chiama, e lui sta decidendo se dovrò vivere o morire. E come. Non so nemmeno come si chiama, come la ragazza di stanotte.
“Taquort, prima uscita” la voce metallica per il filtro elettronico risuonò nella sala, facendolo sobbalzare. Tre posti alla sua sinistra un ragazzo lentigginoso e rosso di capelli guaì di paura. La poltrona lo scaraventò nell’arena attraverso la parete che per un attimo si era dissolta, lasciando entrare al suo posto il ruggito della folla. Pochi secondi, e dalla sala accanto un altro uomo venne proiettato nell’arena. Era un altro Taquort, coperto da una sottile maglia nera, ad anelli in forma di piccoli fiori. Approfittando della sorpresa del rosso si lanciò immediatamente all’attacco. Non fu
nemmeno un combattimento: la lama seghettata della sua arma precipitò sulla spalla del ragazzo, gli staccò il braccio come l’ala di un pollo ben lesso, si rialzò di nuovo e calò il colpo di grazia. Il rosso stramazzò al suolo come un burattino dai fili tagliati.
La risposta giusta, pensò Efhrem, seccato. Non aveva scampo, ma è solo l’inizio. Sul tabellone centrale si accese la sagoma di un uomo stilizzato, colorato d’azzurro. Il Taquort vincitore salutò la folla osannante, si caricò il corpo dello sconfitto su una spalla e uscì dalla parete da cui era entrato.
Dal lato di fronte ad Efhrem balzò in campo un altro combattente. Con un tuffo al cuore l’Asos aspettòdi riconoscerlo, poi si distese sulla poltrona con un sospiro di sollievo: era un altro Taquort che, questa volta con attenzione, si portò subito al centro del campo. Era la cosa migliore da fare, il prossimo attaccante non lo avrebbe colto di sorpresa. E infatti l’Esi che dopo di lui entrò nell’arena non poté ripetere l’impresa del compagno precedente. Protetto dallo scudo cercò l’assalto, venne subito respinto, e in breve la lotta fra i due si spense in una serie di botta e risposta poco convinta. Forza, tanto quelli non si muovono più. Come se avesse sentito il suo pensiero il Maestro fece sentire di nuovo la voce: ”Idiec, seconda uscita”. Di nuovo il rombo della folla approfittò della scomposizione della parete trasparente per invadere la sala, e di nuovo si spense dietro al combattente gettato avanti. Lo scontro si concentrò intorno all’Esi, attaccato da due lati. Il suo scudo parava ogni colpo.
È bravo, potrebbe anche resistere. Anch’io una volta ne ho tenuti inchiodati due assieme. Ma l’abilità nel gioco non bastava, ci voleva anche fortuna. E l’Esi non ne aveva abbastanza. Per evitare un fendente si sbilanciò, il tallone slittò sulla sabbia bagnata dal combattimento di prima, scivolò piano; come volando. Le braccia d’istinto si allargarono. I raggil de disgregatore in mano all’Idiec filtrarono oltre lo scudo e lo tagliarono a metà, continuando poi la corsa fino al collo del Taquort. Con espressione di stupore i suoi occhi si puntarono sull’ alleato, quasi a chiedere cosa avesse fatto. Poi lentamente si appannarono e la testa gli rotolò giù dal collo, staccata chirurgicamente, accanto al corpo del nemico già morto. Sugli spalti il pubblico saltava in una festa gioiosa, applaudendo freneticamente. Ora toccherà a loro entrare per primi, pensò sobbalzando di gioia Efhrem. Bravo maestro, e bravo Idiec! L’oggetto della sua ammirazione stava rientrando verso di lui, trascinando per i piedi i corpi delle vittime. Al tabellone comparve una figura anche nel settore di colore rosso. Un punto per uno.
Adesso, adesso! mandami giù adesso! Efhrem tutto teso sul sedile che lo imprigionava si protendeva in avanti, in attesa dello scatto che lo avrebbe lanciato oltre la parete. La partita era quasi finita. Erano rimasti in due a dover ancora combattere, nella sua sala. Lui e il Quinec che gli stava seduto immobile accanto nel tunnel. Come allora la sua faccia non lasciava trasparire alcuna emozione. L’Asos invece pareva impazzito per la tensione. Per tutta la partita il nervosismo era cresciuto come una marea inarrestabile. Dopo il primo temporaneo pareggio il loro maestro aveva dato la sensazione di controllare il Gioco con sicurezza, mandando in campo sempre l’uomo giusto al momento giusto. Ma un po’ per sfortuna e molto per l’incapacità dell’altro Maestro alleato, molte delle sue scelte si erano poi tradotte, in campo, in incredibili sconfitte. Mano a mano che il tempo passava i punti degli avversari si erano accumulati. I corpi dei migliori combattenti erano stati trascinati dentro le sale, e il numero delle vittime era a vantaggio loro. Ora il punteggio totale era di tre a uno, ma l’incontro non era ancora deciso. Quell’Esett che si aggirava nell’arena, e che il Maestro aveva lasciato sopravvivere come un gatto che si diverte col topo, adesso era lì davanti a lui, valeva due punti, e solo la parete trasparente gli impediva di saltargli addosso. E se avesse vinto, l’arena sarebbe stata libera e deserta per un altro indifeso nemico da aggredire. La vittoria, praticamente matematica. La voce scese dall’alto, sempre calma e metallica. – Quinec, nona uscita.

Quinec, Quinec? Lo scatto della poltrona del compagno rispose alla domanda allibita. In una specie di stupido trance vide il Quinec precipitarsi inutilmente contro il troppo forte nemico, che senza sforzo parava ogni assalto. La parete accanto si aprì e gli vomitò l’ultimo Quinec nemico alla schiena, che lo infilzò con esagerata facilità. Poi fu la volta di un obeso Ert, letteralmente scardinato assieme al sopravvissuto Esett dalla furia dell’ultimo Asos nemico. Che col disgregatore ancora fumante alzò un saluto ironico verso la parete di Efhrem, prima di uscire dal campo trascinandosi dietro le preziose vittime. Nella sala deserta adesso restava solo lui, il massimo, il micidiale, l’inutile Asos Rosso.
– Nooo! – urlò in risposta alla voce sintetica che lo spingeva oltre la parete aperta. Piombò sulla sabbia insanguinata in ginocchio. Con mani tremanti sollevò il disgregatore, puntandolo sulla folla improvvisamente muta che lo stava a guardare. No, no, mormorò ancora una volta. Così no, non posso finire così.
Meccanicamente, nel silenzio, si alzò. La regola imponeva a un Asos solo nell’arena di rientrare subito senza combattere.
E mentre passava attraverso la parete si chinò, raccogliendo un manganello di piombo ricoperto di gomma.
– Ma non è possibile – esclamò il ragionier Bariotti – se non è capace di giocare non prenda nemmeno le carte in mano! Non si può perdere così una partita già vinta!

Il signor Ferri, mestamente, calò l’ultimo inutile asso di quadri che sembrava esserglisi attaccato alle dita. L’aveva tenuto per tutto il gioco in riserva, sicuro che quella carta gli avrebbe dato la vittoria finale. E invece, evidentemente, aveva sbagliato i conti.
Proprio all’ultima mano.

ASOS=ASSO / IDIEC=DIECI / ESI=SEI / ERT=TRE / QUINEC=CINQUE / ESETT=SETTE

(*) Questo racconto si collega a «La stretta di mano del Führer» di Diego Rossi e ad altre narrazioni – qui pubblicate nei sabati precedenti – che usano la fantascienza come grimaldello per scardinare il futuro prossimo, così vicino al nostro presente ma indecifrabile. Racconti contro le vecchie-nuove guerre e intorno ad altri domani possibili. Grazie a chi parteciperào anche solo leggerà. Le parole sono davvero poco nei momenti più drammatici eppure ogni volta riscopriamo che possono servire: nell’agire dell’oggi e nell’immaginare futuri.

 

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

  • Grazie Daniele, grazie alla Bottega per accogliere questo racconto surreale, simbolico. Tra una lotta con i gladiatori e una partita a carte non c’è forse tutta l’irrazionalità di una inconscia e terribile fame di guerra? Abbiamo accostato alla storia di Marco Alberto Donadoni, bravissimo game designer italiano, le immagini di Wargames e idealmente la domanda che non smettiamo di porci torna ad essere quella del film: “È un gioco oppure è reale?” Continuiamo a scrivere, a unirci, a sperare in un prossimo ritorno alla pace, al gioco di divertimento delle feste e non al gioco delle bombe e della sofferenza.

  • Alessandro Massasso

    Mi è piaciuto molto, l’idea e anche lo stile. Fin da subito sono stato catturato dall’apprensione per questi gladiatori.
    E mi sono venuti in mente altri giochi che, come tutti i prodotti umani, rispecchiano la cultura che li ha creati. Penso ai classici Risiko! e Monopoly che fin da piccoli ci abituano alla normalità della guerra e del mercato capitalistico…

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