Maranza, i figli indesiderati dell’Italia reale

di Italo Di Sabato (*) .

Del libro di Houria Bouteldja – “Maranza di tutto il mondo, unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie” (DeriveApprodi editore) – torneremo a parlare in “bottega”. Ma ovviamente ci piacerebbe fossero giovani e giovanissime/i a scriverne.

La figura del maranza rivela molto di ciò che il paese fa fatica a vedere: il proprio passato coloniale, le metropoli meticce e una nuova soggettività sociale che non chiede permesso. È la proiezione della paura della periferia e della povertà. Ma è anche la conseguenza del vuoto sociale e culturale creato in tanti quartieri popolari dove le istituzioni sanno essere presenti soltanto con la polizia. La criminalizzazione dei giovani razzializzati non descrive la realtà ma la costruisce.

C’è una parola che la stampa italiana maneggia come fosse un concetto neutro, quando invece è un proiettile: maranza. È diventata un’etichetta pronta all’uso, un marchio di infamia cucito addosso ai giovani razzializzati delle città del nord, l’ennesima invenzione linguistica che serve a riprodurre gerarchie, non a descrivere la realtà. La sua comparsa negli esami pubblici dell’Ordine dei giornalisti non è un errorei: è la prova di un giornalismo che ha interiorizzato, senza più neppure accorgersene, l’ideologia sicuritaria e il dispositivo coloniale che governa l’immaginario nazionale.

L’Italia ha deciso che quei ragazzi – in tuta, con la trap nelle orecchie, col borsello a tracolla, con un islam non addomesticato – non sono parte del paese: sono un disturbo, un rumore di fondo, una minaccia sempre sul punto di materializzarsi. E così la parola maranza è diventata un alibi: un modo per evitare di guardare la verità più semplice e più destabilizzante. La verità che questo paese è già multietnico, multiculturale, multireligioso, e che la sua gioventù non assomiglia più alla favola rassicurante dell’italianità bianca, cattolica e obbediente.

I maranza come specchio del paese che non vuole riconoscersi

La criminalizzazione dei maranza dice molto più dell’Italia che dei ragazzi stessi. Dice che lo Stato, quando incontra ciò che non controlla, non dialoga: reprime. Dice che il giornalismo, invece di interrogarsi sulle proprie responsabilità, cerca categorie etniche con cui giustificare la paura. Dice che la destra, ma anche troppo spesso un centro-sinistra stanco e pavido, ha bisogno di costruire un “nemico interno” per evitare di nominare le contraddizioni del capitalismo neoliberale.

Houria Bouteldja, in Maranza di tutto il mondo uniteviii, lo dice senza mezzi termini: il maranza è la figura che meglio incarna l’espropriazione, la marginalità prodotta dalla fine del ciclo fordista e la razzializzazione intrinseca del progetto nazionale europeo. Ci ricorda che il problema non sono questi giovani, ma l’ordine sociale che li produce e poi li respinge. come scartiiii. Sono loro la parte viva, conflittuale, potenzialmente rivoluzionaria delle nostre metropoli. In loro si incarna ciò che l’Italia non vuole vedere: la genealogia coloniale della propria identità, la violenza strutturale della polizia, la frattura tra chi ha diritto di cittadinanza piena e chi è sempre in condizione di sospensione.

Panico morale: una tecnologia del potere

La costruzione del “maranza” come minaccia è l’ennesima ripetizione di un copione antico. Valerio Marchi lo ha spiegato con lucidità: le società in crisi generano folk devilscapri espiatori utili a scaricare ansie e contraddizioni.

Tommaso Sarti, nel suo Pisciare sulla metropoliiv, mostra quanto questo processo sia oggi raffinato: la parola maranza attiva immediatamente un archivio di stereotipi coloniali, islamofobici, classisti. È sufficiente pronunciarla perché venga evocata una figura compatta e spaventosa, fatta di violenza gratuita, incapacità educativa, rifiuto della modernità.

Nulla di tutto questo corrisponde alla realtà. È la proiezione della nostra paura della periferia, della nostra incapacità di ragionare in termini di conflitto sociale, del nostro rifiuto della complessità. L’Italia non tollera che la sua seconda generazione non voglia più starsene zitta. Non perdona a questi giovani di aver rotto il patto della politesse e di aver scelto la politique: prendere parola, prendere spazio, prendere posizione.

La rivolta come lingua madre

Ogni tentativo di controllare i maranza — dalle ronde fasciste alle crociate moraliste dei talk show — fallisce perché scambia per “devianza” ciò che è in realtà un processo di soggettivazione politica. La cultura trap e drill non è folklore: è un discorso antagonista che parla la lingua della strada e rivendica un diritto fondamentale, quello a non essere normalizzati.

Quando Baby Gang canta “Marocchino”, non sta chiedendo integrazione: sta gettando in faccia al paese il rifiuto di ripulirsi per renderlo tranquillo. Quando i ragazzi citati da Sarti evocano Gaza, Falastin, il bled, non stanno giocando a fare gli “esotici”: stanno costruendo un immaginario politico transnazionale, una genealogia di resistenza che lega Milano, Londra, Parigi, Casablanca. È una cultura che rifiuta la vergogna e ribalta lo stigma in dignità.

In questo senso, la categoria maranza non va solo rifiutata: va riconosciuta come ciò che tenta di essere sotto la superficie della stigmatizzazione. Un noi che non si lascia catturare, una comunità che supera i confini della nazione, una gioventù che smette di chiedere permesso.

La polizia, unica presenza delle istituzioni

Sarti lo mostra senza giri di parole: in tanti quartieri popolari lo Stato non esiste se non in forma repressiva. Non c’è investimento, non c’è cura, non c’è welfare. Ci sono pattuglie, posti di blocco, controlli mirati sui corpi razzializzati.v La violenza che la politica imputa ai maranza è in realtà un riflesso della violenza istituzionale che li circonda.

Il caso di Ramy Elgaml ha messo a nudo questo dispositivo: un ragazzo morto durante un inseguimento, una comunità in strada, e subito la narrazione mediatica pronta a definire “rivolta etnica” ciò che era semplicemente una richiesta di giustizia. Ancora una volta, la colpa non stava nelle azioni dei ragazzi, ma nel fatto stesso che osassero protestare (leggi anche Corvetto, scuole aperte e patti educativi).

Il rimosso coloniale come radice del nostro presente

Il panico morale sul maranza è la conferma dell’incapacità italiana di confrontarsi col proprio passato coloniale. Il paese che si racconta come “buono” rifiuta di vedere che il proprio immaginario è ancora attraversato dall’idea del meticcio come corpo sospetto, da disciplinare o espellere. Per questo la proposta della Lega di “remigrare” le seconde generazioni non è un incidente retorico: è la conseguenza logica di un sistema che definisce l’italianità in chiave etnica.

Bouteldja ha ragione quando dice che la linea del colore è ormai il vero crinale del conflitto politico. Non è sufficiente parlare di sfruttamento senza parlare di razza; non è possibile immaginare un movimento emancipativo che non tenga conto della posizione dei corpi razzializzati nella gerarchia sociale. I maranza non sono un problema da risolvere: sono un segnale che la lotta contro le disuguaglianze oggi passa necessariamente per la decolonizzazione degli immaginari.

Una nuova soggettività per un nuovo spazio politico

L’Italia teme i maranza perché intuisce – confusamente – che attraverso di loro sta emergendo un nuovo soggetto politico. Non un partito, non una minoranza organizzata, ma un insieme di pratiche: occupazione dello spazio pubblico, rifiuto dell’integrazione subalterna, creazione di estetiche proprie, costruzione di reti transnazionali, rifiuto dell’autorità statale, uso della musica come veicolo di teoria politica.

Sono gli eredi inconsapevoli delle lotte anticoloniali, dei movimenti neri, della cultura hip-hop radicale, ma anche della storia operaia italiana che i dominanti vorrebbero cancellare. Non cercano di entrare nel sistema: cercano di incrinarlo dall’interno. Ed è precisamente ciò che questo paese – fondato sulla paura della disobbedienza – non può tollerare.

Portatori di una possibilità

Accettare le tesi di Bouteldja e Sarti significa invertire completamente lo sguardo: non sono i maranza a minacciare l’Italia; è l’Italia a minacciare loro. La loro esistenza denuncia le nostre strutture di dominio: la cittadinanza escludente, il razzismo istituzionale, il controllo poliziesco, l’ipocrisia mediatica, la nostalgia coloniale.

I maranza non devono integrarsi: devono essere riconosciuti come parte del processo di ridefinizione della città contemporanea. Non devono “calmarsi”: devono essere ascoltati. Non devono assimilarsi: devono esistere liberamente, come portatori di una possibilità politica che l’Italia non ha ancora avuto il coraggio di immaginare.

Loro sono già ciò che questo paese finge di non essere meticcio, insubordinato, globale, vivo.Ed è proprio questo che spaventa.

NOTE

i “Maranza” in una traccia d’esame per i giornalisti. Esposto all’Ordine – https://www.professionereporter.eu/2025/11/maranza-in-una-traccia-desame-per-i-giornalisti-esposto-allordine/
ii Houria Bouteldja – “Maranza di tutto il mondo, unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie” DeriveApprodi, 2024
iii Vincenzo Scalia – Alla ricerca del maranza perduto. Recensione a Houria Bouteldja, in “Studi sulla questione criminale” online al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/05/28/alla-ricerca-del-maranza-perduto-recensione-a-houria-bouteldja-maranza-di-tutto-il-mondo-unitevi-per-unalleanza-dei-barbari-delle-periferie-deriveapprodi-2024/
iv Tommaso Sarti – “Pisciare sulla metropoli. (T)Rap, Islam e criminalizzazione dei maranza” DeriveApprodi, 2025
v Iacopo Cirilli , Recensione di “Pisciare sulla metropoli. (T)Rap, Islam e criminalizzazione dei maranza”, al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/12/01/recensione-di-pisciare-sulla-metropoli-trap-islam-e-criminalizzazione-dei-maranza/

(*) ripreso da comune-info.net: https://comune-info.net/scuole-aperte/maranza-i-figli-indesiderati-dellitalia-reale

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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