Marco Calabria. La vita semplice, il desiderio di altri mondi

Da questa settimana trovate in libreria Gridare, fare, pensare mondi nuovi (ed. Eleuthera), curato dalla redazione di Comune, che raccoglie testi di Marco Calabria.
Chi vive a Roma può ordinarlo scrivendo alla redazione (info@comune-info.net). Leggiamolo, discutiamolo, trasformiamolo in una sorta di utensile, mettiamolo a disposizione di chi vuole alimentare pensiero critico
. (Comune-info)

La prefazione di Raúl Zibechi

Voglio immaginarlo mentre ci guarda dall’alto, con la sigaretta in mano, serio come sempre; non serio sul serio, ma serio con il suo sorriso sarcastico, scuotendo la testa come
a dire: «Cosa state facendo? Non vedete che il mondo sta cadendo a pezzi e che dobbiamo alzare la testa, guardare lontano, costruire un futuro decente per i bambini laggiù?».
Ho seguito le sue tracce per la Patagonia e ho bevuto una birra alla sua salute a Esquel, quel villaggio nella sierra andina dove avrebbe voluto trascorrere i suoi ultimi anni, lontano dal caos cittadino e dalla vanità del giornalismo, che mai lo aveva contagiato.
Lo immagino battere le doghe di un vecchio molo, sulle rive del lago Puelo, finché decine di salmoni lo circondano, ascoltando il suo richiamo.
Guardo il suo sorriso sereno, timido, che dice: «Vedi, anche questo esiste».
Era parte di quell’altro mondo che non solo sognava, ma di cui sentiva anche i battiti.
Si entusiasmava per le piccole cose, quelle apparentemente senza importanza, nelle quali metteva la stessa passione che aveva nel decifrare i testi di Mao, che non ha mai smesso di essere il suo riferimento politico preferito e che non ha mai abbandonato. Marco era un tipo strano, non nel senso di bizzarro o insolito, ma come quei sassi che si raccolgono nella sabbia perché sono diversi da tutto il resto, come quei diamanti grezzi che non brillano perché sono quello che sono, ostinatamente singolari.
Molto difficilmente cambiava opinione quando era convinto di qualcosa, ma non era di quelli che si affannano a dimostrare che le loro idee sono giuste. Lasciava correre ciò che non gli sembrava importante e diventava testardo, ostinato fino allo sfinimento, quando sentiva che i principi venivano minacciati.
L’ho conosciuto nei grandi giorni di «Carta», che occupava un posto imprescindibile nei movimenti sociali dell’epoca. Una rivista rispettata e rispettabile, con una proposta giornalistica e grafica diversa da tutto il resto, che ha segnato un’epoca, seguita da migliaia di persone che partecipavano alle proteste in strada e alle interminabili assemblee che ciascun movimento dovrebbe avere per essere considerato tale. «Carta» aveva anche un suo spazio fisico, una redazione, come i media «seri» in questa società.
Poi c’è stato «Comune-info», che non ha una redazione perché operava da casa sua, senza mezzi e (come diciamo qui al Sud) «a puro pulmón», come le squadre di calcio di quartiere che a malapena hanno le maglie e che erano il suo riferimento sportivo, molto più delle grandi squadre milionarie. «Comune-info» era, ed è ancora, un’attività artigianale, come quella del falegname che lucida il legno con infinita pazienza, competenza ed esperienza. Quel modo di lavorare semplice e lento, che consuma molto più tempo (o meglio, il tempo dei pezzi unici, modellati con amore e dedizione), era il modo preferito del nostro Marco. Perché le cose non si misurano dal risultato, che è sempre casuale come il successo o il fallimento, ma dalla strada percorsa, dai graffi lasciati dal lavoro manuale, dai segni dello sforzo e della dedizione che ci abbiamo messo nel farle.
Immagino Marco mentre traduce i testi, anche i miei testi, parola per parola, per ricostruire il significato profondo che l’autore ha dato alle sue pagine.
Non riesco a immaginarlo mentre usa il traduttore di Google o qualsiasi intelligenza artificiale per risparmiare lavoro, come alcuni di noi fanno con più imbarazzo che orgoglio per la ridicola idea di guadagnare tempo.
Per i veri artigiani, che ormai non ci sono quasi più, il tempo non si misura con le lancette dell’orologio ma con la dignità della pagnotta ben impastata e cotta al punto giusto.
Chi legge queste righe potrebbe pensare a un Marco perfetto, dal carattere pacato e dalle idee chiare. Niente di più lontano dalla realtà.
Dentro di lui c’era un grande tumulto, che raramente lasciava uscire ma che, quando osava farlo, mostrava una forza travolgente. Non sono sicuro che Marco avesse un bel carattere, ma sicuramente aveva una forte personalità, con idee solide e valori concreti, come le rocce su cui si infrangono le onde e le tempeste.
Credo meno nella bontà che nella fermezza, ma la sua era piena di affetto e tenerezza, come il bambino grande che non ha mai smesso di essere.
Non era un tipo da grandi dimostrazioni e ritrovi affollati, era un tipo da chiacchiere tra amici con formaggio e vino. Non gridava slogan, ma cercava di essere coerente nella vita di tutti i giorni.
Sapeva parlare tanto come ascoltare. E ammirava i compagni zapatisti pur non essendo mai stato in Chiapas, perché aveva intuizioni e certezze sul loro cammino.
Eduardo Galeano diceva che ricordare, dal latino recordis, è passare di nuovo attraverso il cuore. Non c’è niente di più importante per avvicinarsi a Marco che farlo passare di nuovo attraverso il nostro cuore, la nostra pelle e il nostro spirito. Chiudo gli occhi e cerco di sentire ciò che Marco ci lascia.
Credo che la cosa più importante, la cosa decisiva, sia una posizione nella vita e un posto, in basso e a sinistra, che non ha mai abbandonato. Non gli è mai interessato essere seguito o acclamato. Ci lascia la sua integrità come essere umano, la sua capacità di sentire sulla propria pelle qualsiasi ingiustizia in qualsiasi parte del mondo,
come diceva il Che. Ci lascia la sua etica di impegno per la vita, molto più che per le ideologie, di cui diffidava perché aveva sperimentato mille e una delusione. Ma le delusioni
non lo hanno mai fermato, anzi le attraversava indenne, almeno questa è sempre stata la mia impressione. Le piccole difficoltà della vita militante lo affliggevano, ma non gli hanno mai fatto cambiare rotta.
Non dimenticherò mai i giorni trascorsi con mio figlio Agustín e la mia compagna Pola, nella sua casa romana e nella nostra a Montevideo, e la dedizione che metteva nel rapporto con quel bambino che portava a pattinare sulla neve.
L’ho visto felice mentre gli insegnava a sciare, e questa è l’immagine che voglio conservare, per sempre.
Mi sento orgoglioso di essere stato suo amico, come deve sentirsi orgoglioso Martín di avere un padre calciatore e radicale, onesto e leale.
Cosa possiamo chiedere di più alla vita, caro Marco?
***

alexik

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