Memorie “on the road”

Michele Zizzari racconta quanto pesa la poesia… soprattutto se una sera devi portarti in spalla Gregory Corso

Ferlinghetti è forse l’ultimo fra gli immortali poeti della Beat Generation a lasciarci fisicamente. Ma loro saranno sempre con noi e con tutti quelli che seguiranno la strada da loro percorsa e indicata: per l’inestimabile eredità umana, artistica, poetica, letteraria, di pensiero, di impegno utopico e di visione altra che ci hanno consegnato.

La sua morte mi ha riportato alla memoria Gregory Corso che ho conosciuto di persona, anche lui purtroppo scomparso (nel gennaio 2001).

Perdonate se la piglio un po’ alla larga ma, trattandosi di geniali artisti on the road, vale la pena di raccontare come il caso e la strada ci abbiano fatti incontrare.

Nato da famiglia povera e numerosa in un fatiscente palazzone dei quartieri spagnoli di Castellammare di Stabia (detto il Serraglio e sbriciolato come un vecchio biscotto dal terremoto dell’80) ho cominciato a lavorare a otto anni, come la gran parte degli scugnizzi di Napoli e provincia. Consegnavo la spesa a casa dei signori prima di andare a scuola. Eravamo rider ante litteram e con meno tutele di quelli di adesso, anzi nessuna.

Dovevo farlo per dare una mano alla famiglia e, più tardi, anche per continuare a studiare, cosa che per mia fortuna (a differenza di molti coetanei che hanno abbandonato la scuola da subito) mi appassionava moltissimo. Ero uno dei pochi del palazzo (e forse del quartiere) che andava tutti i giorni a scuola. Quando dicevo ai miei compagni che ci andavo o che avevo da fare i compiti, quelli mi chiedevano basiti: “Ma fusse addiventato ricchione?”. Questo il contesto culturale in cui sono cresciuto. Per loro e per la gran parte dei loro genitori e a causa delle condizioni sociali che si vivevano, andare a scuola era una perdita di tempo. E pare che per molti sia ancora così.

In particolare mi affascinavano la letteratura, la poesia. Tanto che già dalla terza media presi a scrivere testi di natura poetica che avevano come oggetto le condizioni esistenziali e di vita di quelli come me: studioso sì, ma pur sempre minorenne a rischio, lavoratore in nero per necessità e ragazzo di strada. Già, la strada, maestra e compagna che frequentavo fino a tarda notte, dopo la scuola, lo studio e il lavoro serale da apprendista cameriere.

Di tanto in tanto – ispirato dalla notte, dal mare, dalle luci del Golfo, dalla sagoma del Vesuvio e da una prematura inquietudine – scrivevo versi con un pennarello rosso sulle panchine della Villa Comunale.

La cosa non passò inosservata a un gruppo di universitari giunti quasi alla laurea, che – colpiti da quei versi, da quello strano ragazzino e anche preoccupati che per la strada potessi finir male – presero a coinvolgermi. Seppero farlo nella maniera giusta, evitando di risvegliare la fiera suscettibilità dello scugnizzo che già s’atteggia a uomo di vita e che non ha bisogno di nessuno. Presi così a frequentarli e a seguirli nelle loro uscite, a cinema, a teatro, in pizzeria, a Napoli e in Costiera. Erano animati da grande empatia e da bellissime idee. Furono per me come fratelli maggiori pieni di premure. Per di più appassionati d’arte e di cultura.

Mi coltivarono come un fiore. Tra loro c’era Frank Cava, già trentenne, pittore, hippy e gran viaggiatore, anche lui di Castellammare. Fra tutti il più ribelle e impegnato politicamente. Viveva tra Roma e Positano, dove abitava in una villa a più piani, che gestiva e custodiva per conto di alcuni artisti statunitensi, in particolare del musicista texano folk rock Shawn Philips. Nella villa c’erano letti ad acqua, pile di libri e dischi, chitarre e strumenti musicali, manufatti e oggetti d’ogni provenienza e perfino un telex.

Ma soprattutto pennelli, tavolozze, colori, dipinti, tele e tutti i quadri di Franco, compresi quelli in corso d’opera. Insomma il vero e proprio atelier di un artista bohemien. Inutile dire che mi si aprì un mondo nuovo, oserei dire un universo inatteso, sorprendente e affascinante dove le tensioni e le aspirazioni dell’acerbo poeta e ribelle trovarono una tana. Nei suoi tanti viaggi negli Stati Uniti e per il mondo, Franco aveva conosciuto artisti, scrittori e musicisti, fra cui alcuni della Beat Generation, che periodicamente ospitava o nel suo appartamento in via del Pellegrino a Campo dei Fiori a Roma o nella Villa di Positano, da dove son passati Gregory Corso, John Giorno, Fernanda Pivano e noti musicisti come lo stesso Shawn Philips, Jimmy Garrison e suo figlio Mattew Garrison.

A quell’età non avevo consapevolezza della straordinarietà delle persone che transitavano per la villa di Franco. E chi sa quanti altri artisti, di quelli strani e underground e di personaggi alternativi son passati di là, per Positano e per le spiagge di Fornillo o di Laurito. Luoghi che ho frequentato per anni, per la profonda amicizia che mi legava a Franco e per averci spesso lavorato come cameriere, sempre per mantenermi agli studi.

Chi sa, forse anche Ferlinghetti. Di questi angeli messaggeri di poesia, utopia e libertà io ho incontrato Gregory Corso e John Giorno.

Con John – scomparso nell’ottobre 2019 – ci siamo visti poche volte, l’ultima a Roma in occasione di una mostra sulla Beat Generation al Palazzo delle Esposizioni di Roma curata da Emanuele Bevilacqua. Ci andai apposta per rivederlo.

Con Gregory invece ho avuto occasione – la fortuna, il piacere, l’onore, il brivido e perfino il rischio – di stringere amicizia. Parlo di rischio perché era tipo schietto, diretto, senza veli, assolutamente privo di quello spirito di mediazione e di moderazione che oggi si vorrebbe tanto di moda nel politically correct. Uno davvero tosto insomma, che chiamava le cose col loro nome; da prendere con la dovuta accortezza. Se qualcosa gli andava storto, se non gli piaceva quel che ascoltava o vedeva, se non gli andava giù l’atteggiamento di qualcuno, non perdeva un istante a inveire, ad aggredire e a offendere il malcapitato o i malcapitati con i suoi terribili epiteti.

L’ho incontrato più volte, nel corso degli anni, a Roma e soprattutto a Positano. La prima volta avevo solo quindici anni e non avevo proprio idea di chi fosse. Ricordo la sua folta zazzera da indomito malandrino che negli anni s’imbiancava di più, il suo volto aspro e dolce insieme, il sorriso furbo e largo, lo sguardo lesto e acuto, le sue camice e i pantaloni chiari o bianchi, che poi di bianco restava niente… per la sua abitudine di cambiarsi poco e di buttarsi e smaltire le sbronze ovunque capitasse, sui muretti, le scale, le panchine o direttamente sui ciottoli di Positano, dove a metà degli anni ’80 trascorsi due intere estati. Lavoravo come cameriere al ristorante Il capitano, sito a Marina Grande, proprio di fianco al famosissimo Chez Black. In quelle estati Gregory passò da Positano più volte, anch’egli come me ospite di Franco. Fu allora che lo conobbi meglio.

Stavolta sapevo bene e da un bel pezzo chi era. Avevo letto tutte le sue poesie e le opere, la storia e le biografie di quasi tutti gli autori della Beat Generation, in particolare di William Burroughs, cui ho dedicato un’opera teatrale dal titolo Bill, hai fregato Ha Pook, che non sono mai riuscito a portare in scena. Gregory andava e veniva. Non riusciva a stare in un posto più di tanto. Era sempre in viaggio, in movimento. Restava qualche giorno da Franco e ripartiva per Roma o non so dove, per una presentazione di libri o un convegno e tornava dopo qualche settimana. Insomma non si era mai certi di trovarlo a casa.

Poiché ero impegnato sia a pranzo che a cena e fino a tardi, lo vedevo alla mattina, qualche volta al pomeriggio e soprattutto la notte, dopo il lavoro. Con lui ho trascorso ore indimenticabili sulle splendide terrazze panoramiche del Bar Di Martino e della casa di Franco. Quando restava a Positano, al belvedere del Bar De Martino, Gregory passava le notti a bere e a cantare con Franco, che lo accompagnava con la sua chitarra. Erano entrambi intonatissimi, in possesso di bellissime voci e di un vasto repertorio, dalle hit del rock alle canzoni classiche italiane e napoletane. Di ritorno dal lavoro, potevo sentire le loro voci già prima di arrivare in Piazza dei Mulini e di prendere la dura salita di Via Pasitea verso casa. Li trovavo lì a dar spettacolo. Erano capaci di coinvolgere praticamente tutti: locali, passanti, turisti e conoscenti. Spesso capitava che a loro si univano altri musicisti, con tamburelli e tammorre. Si discuteva un po’ di tutto, d’arte, di letteratura, di politica, di come va il mondo e di come invece dovrebbe andare.

Ma anche di tremende cazzate, in compagnia del buon vino.

Gregory poi aveva una speciale e divertita predisposizione nel mettere a nudo il ridicolo, le contraddizioni, le assurdità della vita e la stupidità di certi comportamenti umani.

A essere onesto, non comprendevo esattamente tutto quel che diceva, soprattutto quando giocava con le sfumature e con il molteplice senso delle parole e dei concetti, perché non sono mai stato ferrato in inglese. Ma riuscivamo comunque a comunicare abbastanza.

Avendomi conosciuto fin da ragazzo e sapendo da quale realtà venivo, mi aveva preso a cuore e poiché ci teneva ch’io capissi il più possibile, mi parlava in uno strano slang fatto di americano, italiano, dialetto calabro-partenopeo e citazioni latine. Quando partiva, col favore dell’alcol, era un vulcano: un’eruzione inarrestabile di osservazioni argute, di analisi filosofiche e prorompimenti poetici e di irriverenti invettive contro i borghesi, l’ipocrisia e il potere. Un vero peccato non avere avuto gli strumenti per cogliere fino in fondo tutto quel che mi regalava con le sue parole, anche se cercavo poi di rifarmi leggendo e rileggendo le sue poesie, purtroppo in italiano.

Proprio a questo proposito – nonostante fosse stata lei ad averlo tradotto e fatto conoscere in Italia – Gregory non apprezzava moltissimo le traduzioni della Pivano, anzi tutt’altro. Non avendo gli strumenti, non posso giudicare. Ricordo solo che la considerava un po’ una rompi eccetera. Ovviamente la cosa mi sorprendeva perché Fernanda Pivano è stata la prima a farci conoscere il meraviglioso mondo della Beat Generation e della letteratura nordamericana. Ma Gregory non aveva peli sulla lingua né riguardo per alcuno. Diceva sempre, e per giunta ad alta voce (come Majakowskij, il poeta dalla blusa gialla) quello che pensava. La sua fama d’essere “un insolente strafottente col dono di non dire mai sciocchezze è del resto confermata dalla stessa Pivano.

Inoltre non aveva paura di niente e di nessuno. Cosa che a volte lo metteva nei pasticci. In un paio di occasioni ho dovuto anche mettermi in mezzo per evitare il peggio. Una mattina aveva trovato da dire con dei brutti ceffi dell’hinterland napoletano seduti al Bar De Martino che molestavano le ragazze di passaggio. M’ero svegliato da poco e stavo andando a lavoro, quando giunto all’altezza del bar vedo Gregory recarsi minaccioso al loro tavolino a insultarli.

I gestori temporeggiavano aspettando sviluppi e di vigili non se ne vedeva uno. Fatto sta che si trattava di gente pericolosa. Non mi è restato che ricorrere a una sceneggiata da paciere in stile Raffaele Viviani nel mio stretto dialetto stabiese, provando di convincere Gregory a lasciar perdere e di prevenire la reazione violenta degli altri: “Uagliù, nun è niente. Pe’ cortesia, nun ce guastammo sta bella iurnata… Nun facimmo figure e pensammo ‘a salute… Ca stammo a Positano, duje minute e arrivano ‘e guardie… Evitammo, ca è meglio…”.

La cosa funzionò. L’accenno alle guardie ebbe il suo effetto e Positano non permette facile fuga. I quattro pagarono, fissarono Corso in cagnesco, mi fecero un cenno (come per dire per stavolta ve la siete cavata…) e s’avviarono spediti. Per di più sapevo che il dialetto stabiese suggerisce sempre qualche cautela nei napoletani, che sanno bene quali feroci criminali vengano da Castellammare. Potenza del teatro e dell’esperienza di strada!

Non funzionò del tutto su Gregory invece che – mentre lo portavo al sicuro nel bar – continuava a bestemmiare tirando in ballo dio, uomini, santi, cazzi e buchi del culo!

In un’altra occasione lo incontrai sulla scalinata di Marina Grande, un po’ sfatto e provato per il caldo. Mentre siamo lì, un cane randagio di nostra conoscenza monta su una barboncina con tanto di collare ma libera, tentando di accoppiarsi. La famiglia padrona della barboncina (dall’aspetto snob e più che benestante) si adopera prontamente – visibilmente imbarazzata, forse per lo sconcio offerto in pubblico, forse preoccupata di guastar la razza – a separarli in ogni modo. Ma i cani non si mollano e restano legati. Il maschio dominante della famiglia bene prova allora a rimettere il guinzaglio per tirar via la barboncina con la forza. Non lo avesse mai fatto! Gregory scatta su come una molla, si butta nella zuffa, scalza via il padrone della barboncina e a difesa del libero amore grida Ma lasciateli scopare in pace! più una serie di bestemmie delle sue. Era tardo pomeriggio, l’ora in cui i bagnanti che risalgono verso casa si mischiano ai turisti che scendono per la passeggiata e per la cena, e c’era un sacco di gente. Turisti e bagnanti scambiano Gregory per un barbone sbronzo e un po’ fuori di testa e ben presto gli si forma attorno un’adunata di gente sdegnata. I cani riescono a slegarsi e scappano via, impauriti dalla calca. Superato lo sdegno e vinta la paura del folle, il capannello gli si stringe sempre più intorno minaccioso. A quel punto mi sono intrufolato sussurrando a tutti ripetutamente Ѐ Gregory Corso, il grande poeta americano… Ѐ Gregory Corso, il grande poeta americano… Come per magia la gente si è ritratta, ho preso sottobraccio il grande poeta americano e siamo andati via per vicoli e scalinate secondarie, ridendo come matti.

Potenza del mito e della notorietà!

Un’altra volta lo trovai alle tre di notte disteso sulla panchina della fermata del bus in Piazza dei Mulini. Aveva bevuto più del solito e non riusciva a stare in piedi. Nulla di strano, è capitato spesso anche a me, anzi credo a tutti quelli che non sono astemi. Aspettai lì per un po’, sperando che passi il pullmino che fa il giro del paese o l’auto di qualche conoscente, ma niente. Ѐ troppo tardi e siamo sul finire dell’estate. Non resta che prenderlo in groppa e riportarlo a casa. Ero giovane, forte e in gran forma allora ma anche un po’ stanco per il lavoro, che alla fine di un’estate da cameriere si fa sentire di più. Così mi avviai col grande poeta americano sulle spalle lungo la salita di Via Pasitea, e – cosa ancor più dura – per le centinaia di gradini che portavano da Franco. Naturalmente di tanto in tanto lo appoggiavo dove potevo per riprendere fiato, ma fu una fatica bestiale.

Di poesia a quell’età ne avevo già digerita parecchia ed ero ben consapevole di tutta la sua importanza e del suo peso. Per di più Gregory ci aveva più volte deliziato recitando, alla sua maniera… ma quella notte, giunto finalmente a casa, compresi ancora meglio quanto possa pesare la poesia!

Da allora purtroppo non ho avuto più modo di rivedere Gregory. Non sono neppure riuscito ad essere a Roma, quando hanno depositato le sue ceneri al Cimitero Acattolico del Testaccio, dove riposano con quelle di John Keats e Percy Shelley. E ora che anche Lawrence Ferlinghetti ci ha lasciato, mi rendo sempre più conto di quanto dobbiamo loro. Perciò: lunga vita ai poeti! Lunga vita alla poesia!

Perché di poeti e di poesia non si può fare a meno.

(www.michelezizzari.it)

NELLA FOTO Frank Cava, Gregory Corso e Mattew Garrison

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