Milanoltre 2025

susanna sinigaglia

Teatro dell’Elfo

Milanoltre 2025

Quest’anno Milanoltre si è presentato in una “veste” – è proprio il caso di dirlo – inedita che ha voluto, in particolare, coniugare danza e moda. E in ogni caso, porre al centro il linguaggio del corpo in tutti i suoi aspetti e le sue espressioni: “Bodies In-Between” è infatti il titolo della rassegna, che in certi momenti si è spostata anche al di fuori della sua sede naturale, il Teatro dell’Elfo, per esplorare altri spazi come il MAGA di Gallarate e il Museo della scienze e della tecnica Leonardo da Vinci di Milano.

Apre le danze lo Spellbaum Contemporary Ballet con due performance, Forma Mentis di Jacopo Godani e Holy Shift di Mauro Astolfi.

In Forma Mentis l’entrata della compagnia in scena al completo per poi scindersi in trii, coppie, intende evidenziare il dinamismo fra danza collettiva e piccoli gruppi. In particolare, ogni coppia assume una sua fisionomia e la danza può esaltarne l’aspetto romantico, o conflittuale, o passionale. Quando invece il gioco è a tre, si può osservare l’emergere di alleanze, solidarietà o rivalità. Infine la danza riconfluisce nella sua forma collettiva da cui la compagnia trae, e in cui ritrova, la sua forza espressiva.

Holy Shift si presenta come una coreografia meditativa, avvolta nell’azzurrità soffusa di luce e costumi dei danzatori. La compagnia danza compatta, forma “catene montuose umane”, si aggrega e si scioglie mantenendo una rigorosa concentrazione.

L’atmosfera quasi magica che così si crea avvolge il pubblico che alla fine, pacato e silenzioso, calorosamente applaude.

 

Le performance che ho visto nei giorni successivi entrano decisamente in media res.

Ha-bi-tus di Alessandra Ruggeri è interpretata da due giovani, sembrano gemelle. Emergono da un mucchio di stracci, abiti composti da ritagli di stoffa multicolore, imprigionate, si direbbe intrappolate, dentro una stessa veste che le vede muoversi e agitarsi come gemelle siamesi, inesorabilmente condannate a procedere all’unisono malgrado gli sforzi per districarsi,

distaccarsi. Riescono infine, ma il rapporto fra loro e fra loro e gli abiti continua a essere conflittuale tanto che, a un tratto, una di loro se ne libera restando in reggiseno e slip… ma nemmeno questa è la condizione ideale.

È come se l’abito, invece che essere indossato con piacere, sia diventato una gabbia. E l’eterna domanda – cosa mi metto? – che sorge spesso non necessariamente in occasione di eventi speciali ma in momenti in cui ci si sente più insicure, inadeguate, ad affrontare i rapporti sociali può diventare un assillo esasperante. Le gemelle rappresentano ognuna lo specchio, lo sguardo, dell’altra che avvinghia in una stretta da cui è difficile liberarsi.

È un movimento incessante fra gabbie e tentativi di liberazione, fra brandelli di stoffa, alla ricerca dell’abito che, finalmente, ci calzi a pennello.

Quella stessa sera si è poi svolta la “Conferenza danzata”. Le conferenze danzate sono piacevoli appuntamenti pensati da Milanoltre per coniugare capitoli di storia della danza e sue rappresentazioni pratiche esemplificative.

La conferenza in questione era a cura di Francesca Pedroni, “giornalista, critica e regista, da sempre impegnata nel raccontare la danza attraverso molteplici linguaggi” per presentarla con le parole che si leggono nel programma di Milanoltre. Oggetto della conferenza è il felice connubio fra due grandi artisti, Yves Saint-Laurent nel campo della moda, e Roland Petit, potente protagonista del balletto narrativo del Novecento. Il focus è la coreografia del 1965 sul famoso romanzo di Victor Hugo, Notre-Dame de Paris.

Fra percorso narrativo, brevi filmati di repertorio dell’epoca e altrettanto brevi dimostrazioni della coreografia dal vivo presentate da cinque protagonisti del Corpo di ballo del Teatro alla Scala e i bozzetti per i costumi di Yves Saint-Laurent, si snoda la rievocazione di un lavoro memorabile per l‘eccellenza degli autori e degli interpreti.

Altra coreografia memorabile è quella creata da Trisha Brown nel 1996 e interpretata per Milanoltre dal Ballet de Lorraine sotto la rinnovata guida di Maud Le Pladec, Twelve Ton Rose, nella serata dedicata alla compagnia, seguita da a Folia di Marco da Silva Ferreira, che vede in scena ventiquattro danzatori.

Twelve Ton Rose è interpretata da nove performer con costumi rosso fuoco. È un lavoro rigoroso sul rapporto fra spazio e corpo che traccia linee e forma figure attraverso assoli, duetti e momenti corali, sulle note della musica di Anton Webern.

 

 

Il loro lavoro coreografico apre la strada all’irruzione sul palco dei ventiquattro interpreti di a Folia, coreografia ispirata a una danza popolare portoghese del XV secolo, la folia appunto, che celebrava l’estasi e la sovversione. I danzatori indossano costumi variopinti,

il loro ingresso in scena è un tripudio di colori, sprigionano esuberanza e gioia di vivere, la loro è una vera e propria forza della natura. Si crea così un legame con il passato che proietta la sua luce sul presente e sul futuro, dove la danza diventa veicolo di trasformazione della realtà e trascina il pubblico in un finale travolgente di ritrovata fiducia.

Il lavoro successivo in altra serata, Dans(e) l’Atelier, consta di una collaborazione fra professionisti della danza e della moda suddivisi in tre gruppi, composti ognuno da una coppia, che hanno dato vita a tre percorsi differenti denominati A, B e C, rappresentati in spazi differenti del teatro. Ho purtroppo alcune foto, scattate da me, solo della seconda performance. Infatti durante la visione della prima, non mi ero resa conto dell’assenza di professionisti della fotografia mentre della terza era vietato riprendere le immagini.

In realtà la performance del percorso A era abbastanza spiazzante e forse per questo non ho estratto il cellulare per scattare le foto ma mi sono concentrata per cogliere il senso di quanto si stava svolgendo davanti ai miei occhi. In un cortile interno del teatro, su una specie di pedana in discesa, si trovava una performer che indossava un abito dalle cui estremità, dalle spalle, si estendevano “grandi ali” a punta di tessuto a velo color nocciola fissate ai due lati su appositi sostegni. Tutto l’insieme del costume aveva le sfumature di quello stesso colore. La performer indossava anche stivali con tacchi molto alti. A un certo punto si era tolta gli stivali e si era sfilata le grandi ali dirigendosi lentamente verso il pubblico raggruppato in fondo allo spazio. Qui si trovava un vassoio collocato sul ripiano superiore di una scaletta dove erano sistemate molte paste a forma arrotondata, ricoperte di glassa bianca con la ciliegina rossa nel mezzo. Mano a mano che la performer si avvicinava al punto in cui si trovavano le paste, si spogliava di alcuni indumenti per restare a torso seminudo. Poi si era avventata sulle paste e aveva cominciato a divorarle ficcandosele in bocca quasi a forza, lasciandone anche la metà per avventarsi su quella successiva… E così, con questa specie di “orrendo pasto” – che mi è sembrato una simulazione di autocannibalismo, dove le paste glassate con la ciliegina rossa rappresentavano palesemente i seni femminili[1] – terminava la performance. La protagonista usciva, sparendo dalla scena e lasciando il pubblico un po’ attonito, come dopo essere stato colpito da una sorta di allucinazione collettiva.

La seconda performance si svolge in Sala Bausch ed è di tutt’altro tenore. Sul palco vediamo la performer la cui immagine viene riflessa su una serie di tre specchi posti l’uno in fila all’altro. Indossa slip neri e maglia color carne con le maniche corte. In compenso ha lunghi guanti neri che le arrivano fin quasi sotto le ascelle e ginocchiere nere. All’inizio, si gurda allo specchio mentre un “sarto” le sistema il costume.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con un microfono in mano, canta. Poi s’interrompe, assume un’aria di sospetto nei confronti di chi guarda (il pubblico?), poi viene presa da una sorta di disperazione e, dopo un cambio luci da blu a rosso, si accascia su palco.

La terza performance si svolge in Sala Atelier. Il pubblico è al buio, seduto a terra o in piedi. In fondo alla sala si apre una tenda e da un altrove luminoso viene scaraventata a terra la protagonista, nuda, che si avvia verso una specie di altare o anche struttura simile a un baracca di burattini – sul lato opposto dietro al quale compare un’altra performer. Questa, dall’alto, cala una veste, un sontuoso abito da sposa, sulla prima performer che poi si avvia regalmente verso l’altrove da cui aveva fatto bruscamente l’ingresso sulla scena.

Mi è sembrato che un punto in comune fra la prima e terza performance sia questo alternarsi di nudità e “vestizione”, mentre la seconda esprime una serie di emozioni contrastanti, che suscitano atteggiamenti di sfida fino a sentimenti di disperazione per sentirsi inerme di fronte alla propria immagine replicata dagli specchi e che potrebbe esserlo all’infinito.

Con lo spettacolo Exposure di Alexandra Bachzetsis, interpretato dai Cullberg, la questione della nudità esplode letteralmente sulla scena. È una scelta audace, rischiosa, e per questo tanto più apprezzabile è la sua riuscita.

La performance inizia con un danzatore che, in un angolo del palco, riproduce con pennello e pittura nera un reggiseno sul corpo di una compagna che “indossa” slip neri dipinti sulla nuda pelle. Tutti i danzatori e le danzatrici vestono, anche se con fogge diverse, slip o simili dipinti. Al centro della scena si erge uno schermo su cui è inquadrato un addome tormentato con la mano da colei cui appartiene. stranamente, mi tornano alla mente alcune immagini di pittori rinascimentali, in particolare quelle che ritraggono il supplizio di San Sebastiano.

Ecco così che la nudità è mostrata non tanto e non solo come espressione di libertà ma subito anche nel suo lato più oscuro, come sofferenza e coercizione. Può diventare gabbia, imposizione a cui non si può sfuggire, espressione estrema di vulnerabilità quando non c’è più niente che ti ripari dal mondo, che si frapponga fra te e il mondo. Estrema libertà ed estrema vulnerabilità…

Le culotte disegnate con le bretelle evocano immagini di antichi bordelli, dove il piacere era inevitabilmente accoppiato con forme di voyeurismo, crudeltà, velate o palesi. La forza espressiva di questa performance e dei suoi danzatori st nell’aver interpretato tutti questi aspetti, mostrato tutti i risvolti della nudità che continuano a tentarci, turbarci, interrogarci.

Chiude il festival un lavoro molto curioso e originale, Heat-Us, di Stefania Ballone e Giulio Galimberti presentato al Museo nazionale della scienza e della tecnologia. È un esperimento inedito che coniuga varie discipline: la filosofia, la chimica, la fisica, la tecnologia dei nuovi media.

“Al centro della performance c’è l’utilizzo delle termocamere, strumenti…” “capaci di restituire in tempo reale la temperatura dei corpi sotto forma di immagine. Il calore, normalmente invisibile, diventa così un linguaggio scenico e drammaturgico, un codice visivo che registra e traduce la presenza, il passaggio, l’interazione”.

Questo si legge nella sua presentazione e il risultato della traduzione del calore in colore è davvero “spettacolare”. Al centro dello spazio scenico, cinque performer; ai lati, tre

specchi che ne rimandano le immagini in movimento secondo diversi punti di vista. I danzatori si tingono di colori sgargianti e cangianti, che si trasformano seguendone i movimenti e persino le espressioni. Gli assoli, i duetti, i trii, la danza collettiva inglobano un elemento artistico inedito, conferito dai colori che sprigionano i corpi in movimento…

Un esperimento che sembra avere le potenzialità di aprire nuovi terreni nel campo della danza di ricerca.

[1] Ho scoperto che questo tipo di paste si chiamano proprio così, più precisamente “Seni di vergine”.

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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